I miei contatti con il mondo accademico e con il mondo dell’Ordine dei Giornalisti si sono diradati.
Non sto qui a spiegarne le ragioni, anche perché non desidero proprio fare polemica. Tuttavia ti dico che ho visto di tutto. Ho visto soprattutto che ai giornalisti manca anche la più minima cognizione di quello che vuol dire l’espressione business model. Riflettendo proprio sui business model mi sono ricordato che ne avevo parlato molto tempo fa. Puoi vedere il mio articolo qui. Il presente, invece, mi porta a pensare che stiano aumentando le possibilità di crearsi in modo autonomo una carriera, ma non ci sono, sul mercato del lavoro giornalistico attori in grado di cogliere le occasioni.
I giornali sono morti che camminano.
Ho visto un’infografica di Prima Comunicazione che ha ben visualizzato il dramma nel quale versano i giornali italiani, in costante emorragia di copie. Questo è lo stato dell’arte e in fondo all’abisso ci sono i giornalisti, obbligati a diventare dei paria intoccabili pagati 5 euro a pezzo (se va bene) per fare i loro pezzi. Questa condizione li ha completamente bloccati nell’operazione di ridefinizione della carriera, degli strumenti, dei committenti e delle piattaforme dove poter fare il lavoro che amano. Come se non bastasse la tecnologia li ha completamente travolti lasciandoli prigionieri del romantico passato della loro processione. Buona ultima è arrivata l’accademia, la quale di business model manco si sogna di parlare. La tv, poi, arranca battendo la coda come un capitone in una pescheria, ricicciando le produzioni broadcast super costose dentro delle app che sono minestroni di contenuti.
Il business model, però, è necessario.
Ora le opportunità si stanno moltiplicando. Fioriscono le piattaforme di pubblicazione, con particolare riferimento all’audio e al podcasting. Diminuiscono i costi per poter fare in autonomia produzioni complicatissime (dirette multicamera, registrazioni multicamera, video in 4K), mutano i posti dove c’è esigenza di un giornalista (aziende, enti, istituzioni, personaggi pubblici e potrei stare qui a dirne ancora di più), cambiano le tipologie di prodotti, si creano le community gestite direttamente da giornalisti, ma anche i progetti di interazione (i vecchi eventi) nei quali un giornalista può essere serenamente quel tipo di racconto e di storytelling che crea un interesse per il quale il pubblico vuole pagare. Per sapere, per sentirsi parte di una community, per incidere. Per contare ancora qualcosa. Per sviluppare tutto questo il giornalista che si propone sul mercato ha bisogno di un business model. Analisi del mercato, analisi dei costi, portafogli di prodotti, format di prova, previsioni dei ricavi. Il business model, insomma è necessario…
Ma perché?
Il business model è come la strada del proprio percorso personale che non ti fa deflettere dall’obiettivo e non ti fa cedere a condizionamenti che arrivano dal passato. Se, banalmente, non lo usi, quel clientuccio che ti chiede un favore non ti pagherà quello che meriti e quello che può sostenere i tuoi costi e la tua vita. “Ma sì, dai, stai due minuti a scrivere questo testo”: questa è la classica frase trappola che se hai un business model davanti non riuscirai ad accettare. Perché davanti hai i numeri e quelli ti dicono chiaramente che, se accetti la 50 euro di straforo, lavori gratis. Ecco perché il business model serve… eccome se serve. Ti lascio con una domanda: non è che il fatto che non venga insegnato, percepito, ritenuto importante, è frutto di un piano preciso? Aspetto commenti….
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