La filmaker siriana Waad Al-Kateab ha realizzato un documentario impressionante che è stato il keynote di apertura di MojoFest il 6 giugno 2019. Un film choccante, sconvolgente, a tratti stomachevole, che ha regalato a tutti il grande messaggio che produrre in mojo e avere una mentalità mojo consegna a tutti una possibilità in più, quella di inventare uno stile nuovo, di fare entrare la vita, la morte, il sangue le urla, il pianto e la speranza dentro un video con l’impressione che sia vita. Così com’è. Questo neorealismo è dentro For Sama. Un film che tutti dovrebbero vedere per capire cos’è la guerra e cos’è il potentissimo linguaggio mojo. Niente a che vedere con smartphone o hardware. Tutto a che vedere con la vita.
Il messaggio è chiaro: le storie non moriranno.
Le storie non moriranno mai. Ne avremo sempre bisogno, siano esse della potenza di quella raccontata dalla giovane siriana, la quale ha documentato lo strazio di Aleppo sotto le bombe per scrivere una lettera di perdono alla figlia, Sama appunto, oppure siano della specie più semplice. Alla conferenza più importante del mondo in quanto a presente e futuro dei media, il grido è arrivato forte: cambiate gli strumenti, ma non abbiate paura, le storie resteranno un bisogno primario dell’uomo. Il primo giorno è andato via sulle ali di argomenti e provocazioni legate alla fotografia e alla creatività cinematografica che ormai ha visto ben 12 film realizzati con gli smartphone. Nel pomeriggio numerosi workshop hanno rivelato segreti e spigolature della smartphone photography. Nella mia giornata resta il filo conduttore dello storytelling che resta una certezza in un mondo che cambia. Ne ho parlato anche con il pluripremiato e talentuosissimo Mike Castellucci, fuoriclasse della narrativa video con lo smartphone. Anche da lui l’idea è arrivata chiara: se hai la storia ci puoi vivere, i soldi arrivano.
Devi stare attento, però: i luoghi delle storie stanno cambiando e a questo ti devi adattare. Anche i linguaggi, anche la tecnica, anche la grammatica. Ti racconto un paio di piccoli particolari: oggi ho visto For Sama, soltanto il trailer. Ebbene, ho sentito ancora chi diceva che le immagini non erano di qualità. Cioè, questa riprendeva con un telefono in mezzo alle bombe e c’è anche chi si lamenta. Seconda cosa: guarda che il tuo lavoro può e deve essere diffuso, offerto, formattato, per chiunque abbia bisogno di una storia. Inventa prodotti, cambia schemi, cambia posti, proponiti per contenuti su social, sul web, su ogni mezzo. L’unico ostacolo è dentro la testa delle persone: combatti, cambiala, ammalia, convinci. Poi la storia buona che hai per le mani ti pagherà le bollette. Restare sui tuoi schemi ti farà solo morire più lentamente.
Dirette social: ecco come si rivoluziona una carriera.
Le dirette via social network sono un argomento che sta attirando molto la mia attenzione in questo periodo. Sono uno strumento da proporre sul mercato se lo osservo dalla parte tua e mia, cioé quella dei produttori di contenuti freelance, ma anche una grande opportunità per aziende, professionisti, istituzioni ed enti che vogliano cogliere al volo le potenzialità di un mezzo che ancora non è stato compreso.
Nella mia attività di divulgatore, di solito, alterno spiegazioni a incontri. Questa volta è proprio il momento di un contenuto del secondo tipo per regalarti un caso di un giornalista, produttore, “mediacker” come si definisce lui, il quale ha squadernato completamente lo spartito della sua carriera reinventandosi producer e formatore nel campo delle dirette via social e del giornalismo imprenditoriale.
Il fenomenale live guy
Ho conosciuto Damien Van Achter, questo il suo nome, durante la giornata de La Video Mobile 2019 a Parigi lo scorso febbraio. Dopo una carriera in diversi tipi di media, Damien ha deciso di diventare imprenditore di se stesso, di insegnare agli altri come si fa e di farlo mettendo i format in diretta al centro della sua produzione. Sul suo canale Youtube puoi vedere molte sue riflessioni e operazioni sull’argomento, ma la cosa più stupefacente è la sua capacità di invertire i punti di vista del suo linguaggio di produzione delle dirette via social. Quella che vedi qui sotto è un discreto esempio. A La Video Mobile si è “autoripreso” l’intervento in cui spiegava il suo progetto all live per clienti e media.
Il professore matto.
Damien Van Achter è professore “invitato” di giornalismo imprenditoriale a IHECS (Bruxelles), EFJ (Parigi), all’ISIC di Rabat in Marocco e alla CFJM in Svizzera. Abbiamo fatto due chiacchiere e mi ha spiegato bene la sua impostazione. Ha due caratteristiche che ti invito a seguire. Ha impostato (tanto da diventare insegnante della cosa) il suo giornalismo in modo imprenditoriale e ha formattato in modo particolare i suoi live. Per andare dai suoi clienti ha perfino creato un’automobile “da live” mettendo internet e alcune camere nella sua vettura. Ha girato le strade del vino d’Alsazia invitato a raccontare le storie dei produttori in diretta (con aumento del 7% del fatturato da un anno all’altro), ha creato formati e usato strumenti atipici per cambiare le situazioni nelle quali realizzava le sue produzioni. E’ un professore matto che insegna ai giornalisti come fare gli imprenditori e ai producer di contenuti come spezzare i linguaggi con cui fare i live.
La nostra chiacchierata. I sottotitoli sono quelli in francese fatti in automatico da Youtube per cercare di capirci qualcosa in più. Non sono fedelissimi, me ne scuso.
Ieri è stato un giorno storico per la mobile content creation, per merito di Adobe Premiere Rush
Dal 21 maggio 2019, infatti, è possibile scaricare Adobe Premiere Rush per Android e avere a disposizione quella app di editing di cui ti avevo parlato in questo pezzo qui ma anche in questo pezzo qui, pure per i telefoni del Robottino (per ora il numero delle device abilitate è abbastanza limitato). Questa scadenza, questa data, cambia le cose della mobile content creation in tutti i sensi perché ieri ha visto la luce la prima piattaforma creativa che può farti montare un contenuto video con qualsiasi aggeggio mobile tu abbia. Sto parlando, infatti, di un software che ha una versione per mac, una per pc, una per iPad, una per iPhone e una, da ieri, per telefoni Android.
Il segreto è nella nuvola
Adobe è entrata in campo, per quanto riguarda il montaggio video da smartphone e tablet, con tutta la potenza del suo concetto che riguarda la nuvola e ha approntato una app che è una base potentissima su cui si svilupperà il lavoro dei prossimi periodi. Oggi l’ho provata creando il video che vedi qui sotto (con qualche imprecisione) in due versioni diverse e con due device diversi dalle 16.10 alle 16.49. L’ambiente di lavoro sugli smartphone (io ho lavorato su un iPhone 7plus e su un Note 8) è famigliare e facile da comprendere, intuitivo e veloce. Può essere vissuto in verticale e porta alla lavorazione di video immediati e veloci, ritmati e adatti ai social. Insomma Rush fa creare in velocità e fa scatenare la creatività per la sua facilità d’uso. Ho impostato facilmente in Android il lavoro in 26:9 con qualche copertura “basic” e due sottopancia. Poi ho provato il grande segreto di Adobe Premiere Rush.
Così, mentre caricavo il video in 16:9 per la mia diretta multicast, ho continuato sull’iPhone a produrre il formato verticale e ho visto una grande cosa. Il riallineamento dei formati da orizzontale a verticale è sorprendente e nasconde quello che mi ha spiegato in una telefonata Fred Rolland. Di chi sto parlando? Sto parlando dello Strategic Manager di Creative Cloud per imprese e Video, EMEA di Adobe, di stanza a Parigi. Verticalizzare il lavoro che ho fatto è stato facile in un modo disarmante e ho visto con i miei occhi le grafiche ritararsi seguendo il cambiamento dell’immagine.
E’ nato Adobe Sensei… un maestro AI
Senti cosa dice Rolland: “Rush per noi è la base per uno sviluppo futuro che avrà dei confini sorprendenti – mi ha raccontato al telefono – e che regalerà ai creatori di video una piattaforma mai vista prima, uno strumento che li farà lavorare in totale libertà. E volete sapere grazie a cosa? Grazie a Adobe Sensei. Si tratta di tutta quella parte di programmazione che sta dietro a Rush e che rappresenta la base tecnologica di intelligenza artificiale con la quale abbiamo già rivoluzionato alcuni passaggi, come il cambiamento di formato e l’armonizzazione della voce con la musica. Però sappiate che ci apprestiamo a fare di più, molto di più. Gli speech to text e la sottotitolazione automatica possono essere due scenari futuri che Rush implementerà con l’aiuto della AI, una AI che è già presente nella nostra struttura base e che sarà l’ingrediente con il quale rilanceremo la creatività video nel mondo”. Il tutto grazie al nuovo Sensei di Adobe che, questo lo penso io, avrà anche il merito di riuscire a far parlare Rush con tutta la suite di Creative Cloud.
Le prime impressioni.
Adobe Premiere Rush ha una filosofia diversa rispetto alle altre suite. Spinge sull’immediatezza e sul montaggio lineare se è vero che, per esempio, per mettere della B-Roll sulla seconda timeline l’operazione deve’essere fatta in due passaggi perché il video aggiuntivo casca prima sulla timeline di base e poi può essere lavorato. Mi voglio, tuttavia, prendere del tempo, più di un mese, diciamo, per ragionare su come Rush ti invita a lavorare e assecondarla. Titoli, musica, transizioni: tutto è immediato, tutto lavorabile in secondi. “L’idea è che Rush sia una suite che fa lavorare in flusso e regala una grande libertà. La libertà di produrre ovunque e di vivere quello che si sta raccontando con le immagini con serenità, perché trasformarlo in un racconto visuale è facile, ma dal risultato qualitativo”.
I perché di una rivoluzione
Perché Adobe Premiere Rush cambia il mondo dei media? Semplice, perché é una suite che non ha barriere e ha tutto quello che le serve dentro il suo cuore, quella nuvola grazie alla quale io oggi sono passato dal Note 8 all’iPhone nel giro di pochi secondi. Provate a portare questa benedetta possibilità dentro i flussi di lavoro delle redazioni e scoprirete un mondo con infinite possibilità, visto che gli aggiornamenti su tutte le device che lavorano su uno stesso video sono automatici e possono instaurare un flusso di lavoro che regala un’interazione perfetta tra risorse che sono sui luoghi degli eventi e delle notizie e risorse che nella newsroom integrano il lavoro e ne curano poi l’emissione.
Accetto la sfida, Rush.
Se invece porti il ragionamento ai freelance l’arma di poter lavorare da fisso e da mobile e far vedere (sperando che non tocchi eh…) il lavoro al cliente in tempo reale, penso che liberi potenzialità enormi. Rush è ancora all’inizio e già costa 12 euro. Qualcuno polemizza, ma il cloud, la licenza per tutti i device e le sinergie che fa sviluppare a mio avviso valgono la pena. A patto che Rush ci regali dei miglioramenti che favoriscano il montaggio non lineare (per accontentare noi vecchi bacucchi che montiamo ancora pensando alla tv). Però accetto la sfida e rilancio. Se Rush mi fa cambiare modo di scrivere i video io ci sto e spacco tutto. Vediamo cosa succede.
Facebook: il social di Menlo Park sta rovinando la società civile.
La soluzione? Sei tu (e te ne accorgerai alla fine del pezzo). Se leggi le colonne di questo blog significa che ti interessi di mobile content creation, di comunicazione e di innovazione nel mondo dei media. Ho discusso e diffuso per anni la cultura del mobile journalism e di tutto quello che sta cambiando nel mio mondo. Ho parlato di mezzi, di strumenti, di software, di hardware e, naturalmente, di social network e di piattaforme sulle quali il nostro lavoro di comunicatori, in questo momento di grande cambiamento, sta evolvendo. Con questo scritto ho deciso di analizzare la situazione del principale social, Facebook, per fare suonare un allarme che non ho visto comparire sui media italiani. Un allarme rosso. Un allarme che mi preoccupa anche come papà, come Sharingdaddy.
Facebook: l’articolo di Chris Hughes (passato sotto silenzio in Italia).
L’articolo di Chris Hughes (passato sotto silenzio in Italia) è stato un cazzotto in faccia. L’ho letto e riletto e, dopo lo choc iniziale, ho visto bene la fotografia fatta a Mark Zuckerberg dal suo compagno di università e di stanza ad Harvard con il quale ha fondato Facebook, lavorandoci per un po’ e guadagnandoci bei soldini (tanti da non avere più problemi). Ti faccio leggere il pezzo, che spero tu legga fino in fondo per poi tornare qui.
Credit Credit Jessica Chou for The New York Times (Zuckerberg); Damon Winter/The New York Times (Hughes) The last time I saw Mark Zuckerberg was in the summer of 2017, several months before the Cambridge Analytica scandal broke. We met at Facebook’s Menlo Park, Calif., office and drove to his house, in a quiet, leafy neighborhood.
Non sembra proprio una ripicca
L’analisi di Hughes non sembra proprio avere motivazioni personali, visto che il buon Chris ha tanti di quei soldi da far spavento. Mi sembra, invece, un analisi lucida sull’uomo più potente del mondo. Già, perché Mark Zuckerberg è l’uomo più potente del mondo e condivide questo potere con pochi altri boss delle tech companies che, a un solo tasto di invio, potrebbero annullare intere nazioni. Sto parlando, per esempio di un Jeff Bezos o di un Sundar Pichai.
Troppo potere per uno
Ecco pensa a quest’ultimo: se l’amministratore delegato di Google decidesse di far sparire tutto quello che è italiano da big G il nostro paese subirebbe un tracollo del sistema economico. Si sposterebbero punti di pil in pochi minuti. Oppure pensate se Amazon vietasse a tutte le aziende italiane di vendere sul suo store online. Non è tollerabile. Non è tollerabile che Marchino sia lo zar della nostra privacy, il padrone dei nostri desideri. Non è possibile che un uomo solo, il quale ha potere di decisione sugli algoritmi del suo social network, abbia la facoltà di controllare la comunicazione dell’80% dell’umanità connessa a un social network o a un instant messenger (ti ricordo che anche Instagram e Whatsapp sono suoi). Non è possibile che possa condizionare l’elezione di un Presidente (e i più pensano che voglia candidarsi… a esserlo). Per questo vanno riscritte le regole del web e Tortoise ha anche cercato di far capire come. Ecco qui l’articolo, grazie al quale ho scoperto l’analisi di Hughes che si auspica di rompere Facebook per diminuire l’enorme potere acquisito.
Si parla di Domination…
Proprio nell’anno peggiore del Social, il 2018, Hughes osserva che la company ha avuto i guadagni migliori da tempo a questa parte. Strano, vero? Neanche tanto, visto che i casi della storia hanno mostrato che la visione di Facebook (“Essere internet per connettere”) si sta dimostrando vera. Non trasparente, non democratica. Il tutto sotto i nostri occhi rincoglioniti dai meme e dai gattini… o dai Salvini. Non ci stiamo accorgendo che la strategia di Domination del mercato è riuscita con il silenzio assenso delle società americane e di quelle europee che non hanno saputo far fronte alla marea di Faccialibro. La concentrazione di potere nelle mani di poche persone sta destabilizzando l’ordine sociale e non lo dico io, ma Hughes stesso e molti altri. Anche Marco Montemagno.
Facebook domina, ma non risponde.
Il nostro caro Zuck, quindi, domina, ma non risponde. Nessuno si permette di pressare oltre il lecito questo mostro tentacolare che sta diventando strumento con cui il populismo digitale sta prendendo possesso del nostro ordine sociale. Noi utenti continuiamo imperterriti a usarlo come Facebook vuole che noi lo si usi. Luogo dell’interazione reale e della condivisione di valore? No. Discarica della frustrazione e mezzo per lo sdoganamento di qualsiasi opinione o di qualsiasi percezione della realtà? Sì. Nel momento in cui, però, Facebook si rende correo della manipolazione del consenso, non rende conto alle autorità del suo operato. Ne ho avuto prova quando ho scritto questo articolo per il mio blog personale Sharingdaddy e quando ho letto il discorso della giornalista Carol Cadvalladr al Ted Vancouver sull’influenza di Facebook sul referendum della Brexit. Eccolo.
Al TED di Vancouver Carole Cadwalladr, la cronista dell’Observer che ha scoperchiato lo scandalo di Cambridge Analityca (e che è stata bannata a vita da Facebook per questo), ha spiegato come i social hanno influito sulla Brexit. E come stanno facendo del male alle democrazie di tutto il mondo
Non ci resta che fare mobile journalism su Facebook
Sono convinto che il ruolo dei social network nella cultura della mobile content creation e della media economy sia determinante. I social e il mojo sono come due facce della stessa medaglia, come dicono Bradshaw e Hill nel loro “Mobile First Journalism“, vera bibbia del giornalismo in mobilità. Sono altresì convinto che questa situazione tragica nella quale ci sta facendo precipitare Facebook, il cadere in una domination di chi possiede tutti i nostri dati, ma non vede altri leggi che quella di un sempre più sorprendente profitto (a nostre spese, visto che i prodotti venduti siamo noi, non sia una cosa di cui ci siamo resi conto.
Che arma ho in mano per ribaltare questa tragica discesa nel paese del controllo e del consenso pilotati? Il mio telefono, il coltellino svizzero multimediale con il quale posso invertire la direzione dei messaggi dal mondo a me in senso contrario. Per esempio producendo del vero giornalismo sui social, mezzo nel quale i miei colleghi si distinguono in una cosa soltanto: nello sparare la loro opinione.
Il virus per l’algoritmo.
Fare giornalismo sulla piattaforma di Menlo Park, smettendo di considerarla un driver di traffico e basta, potrebbe essere un virus per l’algoritmo in grado di far rivedere a Zuckerberg questo suo comportamento che, prima o poi, avrà una fine. Di due tipi: o il suo piano riuscirà o qualcuno lo porterà in galera. Se il suo piano riuscisse, io, tu e i nostri figli avremmo problemi molto seri.
Però la provocazione di alzare il tasso di qualità dei post e degli articoli che vedi scorrere sulla tua bacheca è uno dei modi più efficaci di corrompere il bias di Facebook e per ampliare le tue cerchie e quindi i tuoi confini social. Il giornalismo che potresti fare tu sul tuo account o sulla tua fanpage è una delle poche cose che potrebbe ribaltare la situazione e far uscire allo scoperto le magagne, specialmente se corroborate da una connivenza dell’infrastruttura americana. Pensaci, prima che sia troppo tarti.
I segnali sono chiarissimi: per guadagnare con il giornalismo, oggi, bisogna individuare bene una comunità da servire. Non basta più pensare al medium, alla qualità delle notizie, al formato o al mezzo di diffusione (che oggi è principalmente il web). Oggi va progettato anche il pubblico e va progettato bene. Per questo motivo, guadagnare con il giornalismo fa rima sopratutto con individuare bene un proprio pubblico cui fornire dei servizi di informazione che soddisfino delle esigenze.
Il caso di Micromedia Communication.
Proprio studiando e leggendo attorno a questo argomento ho osservato con attenzione le comunità di stranieri in Italia e le loro fonti informative. Spesso attorno a fenomeni come i gruppi di persone provenienti da fuori nascono interessanti fenomeni editoriali. Siti, giornali, radio: più è grande la città, più variegato è il panorama dei media in lingue straniere. Accade ovunque, accade anche in Italia, paese nel quale una delle comunità più importanti è quella cinese. A Milano, in particolare, i cinesi sono oltre 30 mila e in Italia poco meno di 300 mila (dato Istat 2018). All’interno di questa community il caso della Micromedia Communication di Jack Jiang e Chi Hai è di straordinaria importanza.
Il motivo? Semplice: i due giovani imprenditori hanno trovato il format per raccontare l’Italia ai cinesi e i cinesi all’Italia. Storie, tutorial, spiegazioni, informazioni: tutto improntato alla creazione di utilità e al risparmio di tempo per utenti, lettori, spettatori che devono capire molte cose in pochi minuti sul posto dove si trovano o sulla pratica importante che devono portare a termine per la loro vita.
Guadagnare con il giornalismo: createvi la comunità.
Jack e Chi hanno lavorato anni sui follower e hanno scelto le piattaforme giuste per evolvere. Prima Wechat, poi i social, poi il sito: ecco la roadmap, impreziosita dalla creazione di un formato particolare e dalla creazione di un nuovo mercato là dove non c’era. Pensare che è stata solo questione di punti di vista. I due imprenditori hanno individuato il target, hanno individuato il modo in cui servirlo (fungendo con il loro medium da ponte di comunicazione fra il mondo dei cinesi in Italia e l’Italia) e hanno poi creato servizi “premium” dedicati.
In netta crescita.
Risultato? Sono in crescita netta e attirano l’interesse dei grandi brand italiani che sanno bene come questo sito, la creatura di Micromedia Communication (si chiama Weishi Italy e lo potete trovare qui) possa rappresentare un veicolo di promozione anche verso la Cina, dove la giovane azienda cino-italiana (milanese) ha pubblico molto più vasto rispetto ai numeri italiani.
Un pubblico, tra l’altro, giovane, con possibilità economico, innamorato dell’Italia e motivato a venire da noi. Insomma, se la mobile media economy (nella quale entra di diritto questo caso, visto che l’interazione con la sua community Weishi la sviluppa molto sugli smartphone), lo deve anche a fenomeni di costruzione della community da servire e di progettazione del medium dedicato alla stessa.
Un’intervista con Jack Jiang e Chi Hai (Micromedia)
Completo la panoramica dei microfoni bluetooth di alta qualità parlandoti di Mikme, solido prodotto realizzato in quanto a ingegneria e software in Austria e assemblato in Germania. Un hardware bluetooth, quindi, fatto completamente nel Vecchio Continente, il quale regge benissimo la sfida di Instamic, di Memory Mic e di molti altri prodotti. E’ solido, forse un po’ grande, ma adatto e consistente per produrre molti diversi tipi di audio, perfino quello di uno o più strumenti musicali.
Un microfono che cambia le interviste.
Mikme cattura bene le voci, anche a una certa distanza. Non deve, quindi, essere messo addosso ai protagonisti delle tue storie. Le interviste, con hardware come questo, cambiano in modo sostanziale. Spesso continuano oltre le domande e fanno arrivare più vicino al cuore della storia, visto che il microfono spesso viene dimenticato accesso anche quando le domande sono terminate.
Se vogliamo trovargli un difetto dico che il fatto che passi dalla app proprietaria (come Memory Mic) non mi piace, ma in questo caso, va fatto un distinguo. Di cosa parlo? Parlo di questo.
A proposito di microfoni bluetooth, però, c’è da registrare che Mikme sta per lanciare il suo Mikme Pocket che è una versione del prodotto austriaco con lavallier che può essere messa in pari con lo smartphone con due apparecchi in contemporanea. Questo significa maggiore libertà e maggiore funzionalità per interviste e stand up e video anche in posizioni lontane dallo smartphone. Ecco un video di prova del pocket realizzato con il boss di Mikme Philip Sonnleitner.