Autore: Francesco Facchini

  • Hashtag our stories sta diventando grande

    Hashtag our stories sta diventando grande

    Format, missione, visione, anche business. Hashtag our stories sta diventando grande.

    Nel mio recente viaggio a Londra ho avuto l’occasione di parlare con uno dei team leader del format Hashtag our Stories che il pluripremiato giornalista Yusuf Omar sta portando avanti dalla fine del 2017 con risultati di enorme valore. Ho fatto due chiacchiere con Andy Burgess, videoaker e storyteller che si è unito al gruppo qualche tempo fa, nella seconda parte del 2018, per dare potenza al montaggio verticale del quale è un autentico mago.

    La crescita del fenomeno Hos

    Mi incuriosisce molto la crescita del fenomeno Hashtag our Stories, perché sono un tifoso di questo grande esperimento di innovazione del linguaggio giornalistico, perché ho una sincera ammirazione per Yusuf e per sua moglie e perché credo che questo format liquido sia uno dei pochi messaggi dirompenti che ho visto in questo periodo nei media visuali. Hos ha incontrato un partner stabile in Snapchat che ne ha aiutato la formazione e probabilmente lo sta facendo ancora, in cambio di uno splendido show che i ragazzi stanno tenendo a suon di snap sul social del fantasmino. Centocinquantamila dollari per cominciare a crescere e insediarsi negli Stati Uniti, dopo il primo round di finanziamenti che la start up di Yusuf aveva ricevuto da un incubatore di start up a Durban, in Sudafrica.

    Non solo venture capital, ma molto altro.

    E’ interessante vedere come si sta sviluppando Hashtag our Stories, aldilà del classico ricorso al Venture Capital. Yusuf e i suoi sostengono la loro azione con un grande messaggio sociale, andando ai quattro angoli del pianeta a insegnare mobile journalism a comunità che hanno bisogno di far sentire la loro voce, oltre ogni ragionamento economico. Il tutto animato dai principi del giornalismo costruttivo che aiuta queste comunità raccontando le loro storie con prospettive positive e trovando soluzioni a problemi.

    Per questo valore Hos, questa l’abbreviazione di Hashtag our Stories, non si rivolge al mercato finanziario, ma viene valutato dal mondo delle donazioni come una ONG quale in realtà è. Attraverso il racconto da più prospettive, infatti, Hos regala consapevolezza a questi mondi aprendoli al miglioramento. Per questo crea un valore economico che va sostenuto. Ecco, quindi la chiacchierata fatta con Andy a Londra per farmi raccontare il momento del team e del format.

  • Il mobile journalism è morto

    Il mobile journalism è morto

    Mi chiedono spesso di raccontare cos’è il mobile journalism. Bene: ora posso dire cos’era il mobile journalism. Già, hai letto bene: ho scritto cos’era.

    Il mobile journalism era questo: era quella cultura professionale che interpretava la produzione di contenuti multimediali di carattere editoriale per il giornalismo o la comunicazione corporate realizzati con il solo ausilio di apparecchiature di produzione, lavorazione e codificazione rappresentate dallo smartphone o dagli strumenti di ripresa e produzione che possono avere con lo stesso interazione diretta via plug and play o tramite collegamento bluetooth o wi-fi. Il tutto al fine di poter realizzare contenuti dallo storytelling unico (anche immersivo) e di poter procedere alla consegna o alla pubblicazione diretta in mobilità totale. L’esperienza di creazione del risultato finale si intende vissuta su apparecchi mobili per facilitare il processo di trasformazione dei linguaggi giornalistici ed editoriali multimediali al fine di risultare efficaci per una fruizione del contenuto da schermi mobili.

    Provocazione? Sì, provocazione, ma non troppo. Il mobile journalism e la mobile content creation, in 12 anni di storia (i primi vagiti del movimento iniziarono a Londra nel 2007) sono diventati grandi. Dai primi esperimenti del mojo lab della Reuters fino a oggi, la qualità, la tecnologia, il linguaggio e la diffusione di questa cultura, hanno creato un fenomeno mondiale.

    Contro le resistenze e contro il potere delle antenne satellitari e della tv broadcasting, il mobile journalism ha iniziato a “infettare” i processi produttivi di ogni redazione ai quattro angoli del pianeta, con delle punte di eccellenza dall’Irlanda all’India, dalla Svezia all’Australia. Le app, i supporti, i microfoni, le lenti, gli smartphone (sempre più potenti e dotati “fotograficamente”) hanno poi fatto il resto, creando un’ecosistema nel quale il mojo è il linguaggio di produzione delle storie e delle news che poi viaggiano sul web e arrivano alle nostre device mobili.

    Lo smartphone al centro del mondo.

    Il mondo è quindi diventato un posto che si informa, si lega, si fidanza, si sposa, si separa, nasce (e qualche volta si uccide) attraverso lo smartphone. Ora il telefonino è la porta attraverso la quale guardiamo il mondo. Per questo motivo penso sia ora, per il mobile journalism come tecnica e come corrente professionale, di andare in pensione. Già, il mobile journalism è morto, perché questa cultura che ha al centro lo smartphone e si esprime nei più svariati campi (il pluripremiato regista Steven Soderbergh ha già licenziato 2 film fatti con gli iPhone) si è smarcata dalle redazioni e dalla community dei nerd della materia.

    Il mindset che cambia le cose.

    Ormai essere mojo è un mindset che abbraccia molti prodotti della creazione e che rappresenta la radice del cambiamento del mondo dei media. La dittatura della televisione sta finendo e con lei quella delle telecamere. Sta iniziando l’era del video preso dalla realtà anche per il racconto di una notizia, di una storia, di un prodotto, di un servizio. La realtà entra più facilmente attraverso lo smartphone con il quale si spacca la barriera dell’hardware che intimidisce per entrare più vicino alle storie. Molto più vicino. Se contiamo che sta nascendo anche una generazione di piccoli microfoni senza fili, beh, la nuova grammatica del video (che è la nostra nuova lettera scritta) diventa realtà.

    Un nuovo strumento di scrittura

    “Lo smartphone è la nostra penna”, mi ha riferito durante un viaggio di studio a Londra Hosam El Nagar, direttore dell’innovazione di Thomson Foundation, una delle istituzioni che più si impegna nel diffondere il mobile journalism. “E’ la penna del nostro tempo e noi dobbiamo saper scrivere bene con questa penna – ha continuato – Il mobile journalism, quindi, è la cultura che ci serve per scrivere, per fare bene il racconto visuale di quello che ci circonda. Già, perché ormai vogliamo farlo tutti. Ormai fare video non è solo per giornalisti. E’ per tutti”. Ecco perché il mobile journalism è morto, perché in questo mondo ci sono 3 miliardi di potenziali mojoer che vogliono raccontare una storia. Qualunque essa sia.

    Il giornalismo: un mondo arretrato in una crisi profonda.

    L’espressione mobile content creation giustifica meglio l’importanza di questa cultura. Per tutti, non solo per i media. Ci sono app per filmare, app per montare, app per fare grafiche e animazioni, programi che possono lavorare in cloud, microfoni e lenti professionali: c’è tutto il materiale necessario per fare qualsiasi cosa con lo smartphone. Qualsiasi cosa. Dall’inizio… alla pubblicazione.

    Diventa automatico pensare che il problema del mobile journalism sia continuare a far giri attorno al… journalism, anche perché io per primo, nel mio progetto di divulgazione di questa cultura, sto saggiando tutti i giorni le difficoltà del cambiare dall’interno un mondo arretrato e in crisi profonda come quello del giornalismo.

    Ben inteso: critico questo mondo, ma non ho alcuna intenzione di uscire dal giornalismo. Lo voglio cambiare e non avrò requie fino a quando non lo avrò fatto.

    Un nuovo linguaggio per cambiare.

    La mobile content creation è l’apertura di inquadratura del mobile journalism che non può continuare a evitare il confronto con il cambiamento dei media. La mobile content creation è lo strumento del cambiamento dei media, ma attorno allo smartphone (finalmente) si sta sviluppando una vera e propria mobile media economy. In questa epoca, infatti, assistiamo a una grave crisi del giornalismo (in generale, ma italiano in particolare), ma anche al fiorire di una serie di possibilità tecniche per realizzare contenuti che mai avremmo pensato di poter toccare con le mani.

    Ogni giornalista può sviluppare il suo business proprio grazie al mojo.

    Ogni giornalista o comunicatore può essere producer di con tenuti di livello professionale con un equipaggiamento sotto i 1000 euro e delle app che costano poche decine di euro. E quindi? E quindi nessuno le usa… perché non si conoscono le potenzialità di quell’aggeggio che abbiamo in tasca. Bisogna, invece, pensare che ci sono una serie di strumenti, oltre a quelli di produzione, che permettono di creare valore economico dal proprio lavoro.

    Anche nei media lo smartphone è al centro e sta facendo nascere qualcosa di nuovo.

    Quando parlo di strumenti di lavoro e di creazione di ricchezza per i produttori di contenuti parlo di marketplace, di lavoro richiesto ed eseguito da remoto, di produzioni creative sponsorizzate, di microcrowdfunding, di progetti editoriali creati autonomamente, di piattaforme di vendita diretta dei contenuti, ma anche di nuovi modelli di business.

    Già, se lo smartphone è il nostro mezzo di informazione principale allora vale la pena di pensare che si è già creato un mondo di media business (non solo rappresentato dai big della tecnologia) che ruota attorno al telefono, come punto di partenza e di arrivo del percorso della news. Non sto parlando di citizen journalism o di social, di influencer o di yotuber, sto parlando di tutta quella generazione di nuove app e di nuovi centri di informazione che stanno dando valore ai propri lettori, alle proprie comunità, ai propri “member” con un’interazione diretta e biunivoca. La quale ruota attorno allo smartphone.

    Le nuove esperienze editoriali

    Le esperienze sono molte: Quartz, The Skimm, Tortoise. Segnati questi nomi (e per il resto segui il mio lavoro perché sarà basato su questi argomenti per molto tempo). Vuoi sapere cosa sono? Sono delle newsroom che hanno sviluppato app così avveniristiche da rappresentare un valore importante che arriva giornalmente negli smartphone di chi si abbona.

    Hanno sviluppato interazioni con una vera community di riferimento che si sivluppa in un circolo virtuoso di informazioni, di cultura e di visione del mondo, con lo smartphone al centro. Ricevendo il prodotto giornalistico e contribuendo al prodotto giornalistico, il lettore-attore di questo nuovo modo di fare i media si trova dentro un ecosistema nel quale conta. Conta la sua voce, conta quello che sceglie e che riceve nel telefono, ma anche quello che dice ai suoi media che hanno veri e propri canali dedicati di conversazione con il “member”. Per questo vuole pagare.

    Mobile media economy.

    Sta nascendo una mobile media economy che dà valore economico alla conversazione e che rende attivo, finalmente, il lettore-attore delle news. E’ finito il mondo dei media che ci rendono passivi o limitati a qualche like o commento. E’ iniziato il mondo del lettore interattivo nel processo di produzione della notizia e della fruizione. E tutto questo è mobile.

    Nei media italiani non si vede l’ombra di tutto questo rinnovamento e ci si ostina a considerare mobile un quotidiano online che si riesce a leggere da smartphone. Anche il mio blog si legge benissimo da smartphone, ma è tutto fuorché nuovo. Viviamo in un paese i cui media sono in uno stato di arretratezza culturale tale da far dubitare che ne possano mai uscire, ma abbiamo anche un mare di telefonini a disposizione e un terreno su cui potremmo far crescere una nuova mobile media economy. Insomma, il mobile journalism con le sue piccole o grandi comunità, vive un momento adolescenziale, un momento in cui non sa cosa farà da grande.

    Potrebbe anche morire senza lasciare traccia.

    L’unica strada ragionevole è il percorso che parte dall’uso professionale dello smartphone per produrre contenuti, allo sviluppo di progetti personali e professionali attinenti a questo linguaggio, fino alla produzione di nuovi media “mobile” che riano reale valore ai loro lettori-membri. Tra l’altro cerchiamo di tener conto anche di questo: lo smartphone è alla fine dei suoi giorni. Sarà meglio cominciare la rivoluzione nell’uso del mobile, prima che ci sparisca da sotto al naso, sostituito da chissà quale diavoleria da indossare.

    Un appello

    Concludo con un appello: vedo la community nazionale e internazionale attraversata da difficoltà di rapporti, da prevalere di interessi personali. Per parte mia non parteciperò a questo giochino di chi si assume la paternità del mobile journalism o di chi crede di avere la verità in tasca. Continuerò a essere in contatto con tutti coloro che vorranno avere un’interazione con me e una visione coerente e consistente sul cambiamento del mondo del giornalismo.

    Se vogliamo continuare a considerare il mobile journalism come una soluzione B, come un giochino o come una soluzione che costa meno, possiamo farlo. Possiamo anche dire che il mobile journalism è filmare con lo smartphone e montare con final cut. Possiamo anche ossequiare questo o quel produttore di smartphone o quel produttore di app o di hardware. Perderemo la possibilità di continuare a mettere insieme i pezzi di questa cultura di cambiamento del giornalismo. Io non ci sto e vado avanti. Voglio modificare linguaggi, posti, strumenti e meccanismi della mia professione. E tu?

    Ci stai?

    P. Grazie a Nick Garnett per aver scritto per primo della morte del mojo. Lui aveva ragione e io torto.

  • Switcher Studio e Linkedin: ecco il live business

    Switcher Studio e Linkedin: ecco il live business

    Linkedin ha deciso di sbarcare nel mondo delle trasmissioni live via social.

    Si tratta di una mossa interessante e destinata a cambiare il mercato. Ecco cosa c’è dietro e, sopratutto, chi c’è dietro. Sto parlando di Switcher Studio, company americana specializzata nel live multicamera e creatrice della app più professionale che esista (almeno nel mondo iOS) per coloro che vogliano realizzare produzioni dal vivo di qualità televisiva con le device mobili. Del prodotto, la app Switcher Studio, ne avevo già parlato in questo articolo. Nick Mattingly e il suo team sono stati fenomenali nello sviluppo delle potenzialità di questo sotfware per fare dirette, ma hanno proprio cambiato il passo in questi giorni diventando uno dei partner privilegiati per le dirette “business” di Linkedin. Sta nascendo, quindi, il mercato dei “live business” per i produttori di contenuti e sembra naturale pensare che sarà diverso.

    Le parole del CEO di Switcher.

    La chiacchierata con Nick Mattingly di qualche tempo fa

    Questo video è stato registrato un po’ di tempo fa, quando è stata lanciata la versione 1.8 della app con importanti aggiornamenti. Nel periodo successivo, Switcher ha iniziato i test di diretta con Linkedin che, per il momento sono solo a inviti e utilizzabili solo negli Stati Uniti. “Siamo contentissimi – ha riferito Nick Mattingly – che Linkedin ci abbia scelto come provider del servizio live. I video in diretta stanno già cambiando il modo in cui uomini d’affari e professionisti interagiscono. Poter fare video live nel luogo dove i business si sviluppano, Linkedin appunto, gioverà molto alla cura delle conversazioni con partner e clienti”. Come saranno questi live? Beh, alcune idee le ho e sono idee che possono essere proposte come servizio a clienti corporate in modo davvero interessante. Stay tuned che ne parliamo presto…

  • Mobile media economy: il valore economico della conversazione

    Mobile media economy: il valore economico della conversazione

    Il viaggio a Londra mi ha fatto scoprire un mondo: il mondo della mobile media economy.

    In questa definizione centrano poco gli smartphone, le app, le lenti, i microfoni e tutte le diavolerie che usiamo per fare la mobile content creation. La definizione di mobile media economy si riferisce a quei media business che si sviluppano puntando sullo smartphone. Come osservatore e studioso del mondo della mobile content creation, ho deciso di approfondire una strada che porta alla codifica dei modelli di business vincenti che hanno lo smartphone, come produttore dei contenuti, come veicolo di fruizione e come ponte di interazione con i members di una community di lettori che il medium decide scientemente di servire.

    La conversazione vale soldi: il caso Tortoise.

    A Londra ho fatto visita alla redazione di Tortoise Media e sono stato ospitato a un loro Thinkin, una specie di riunione di redazione su un tema specifico cui partecipano anche i lettori. Ho osservato molto bene le tantissime dinamiche di creazione del valore economico da un asset immateriale, ma importantissimo nel mondo dei media oggi.

    Di cosa sto parlando? Sto parlando dell’interazione con i lettori che pagano per poter usufruire della produzione editoriale del medium. Ne ho parlato con la co-fondatrice di Tortoise Kathie Vanneck Smith che, in 20 minuti di intervista, mi ha raccontato tutta l’impalcatura che c’è nel loro progetto di medium. Una rivoluzione, un caso di scuola, l’inizio di una nuova cultura. Ecco come si sviluppa, in Tortoise, la conversazione con i members ed ecco come viene portata a essere un valore economico per la crescita del media business.

  • “Lo smartphone è la penna del nostro tempo”

    “Lo smartphone è la penna del nostro tempo”

    Il mio viaggio di studio a Londra si è rivelato pieno di suggestioni.

    Mi ha regalato un mare di idee buone per la didattica dei corsi di formazione e per il mio patrimonio di conoscenze professionali. Viaggiare per motivi di studio è un’esperienza che ti cambia nel profondo e che rimette in discussione quello che pensi e quello che vedi. In queste ore posso dire di aver ricevuto, dagli incontri che ho avuto e dalla realtà che ho osservato, la conferma che esiste una forte crescita di quella che io chiamo mobile media economy e che dobbiamo parlarne proprio noi che facciamo giornalismo mobile.

    La ri-definizione della materia.

    Cosa intendo per mobile media economy? Tutto sommato si tratta di dare dignità unitaria a tutti quei processi che creano ricchezza grazie a prodotti, servizi e contenuti che vengono realizzati, distribuiti, visti, consumati con lo smartphone. Al centro di questa economia ci sono i produttori di contenuti che, grazie allo smartphone, possono creare valore aggiunto in modo diretto, magari intermediato soltanto da una piattaforma di distribuzione del contenuto. Detto in modo semplice: insegnare mobile content creation è solo metà del mio progetto. L’altra metà è insegnare gli strumenti che, dallo smartphone fanno partire quelle operazioni che creano ricchezza.

    Lo smartphone è la nostra penna, il video la nostra lingua.

    Dove voglio arrivare? Semplice. Appreso il mojo come strumento, ognuno di noi è in grado di fare contenuti di valore editoriale. Il fine di questi contenuti è il più vario e va dal miglioramento della propria immagine alla vendita del contenuto, alla progettazione di un vero e proprio business dei media. Già, perché un hub di informazione per il quale il pubblico voglia pagare potresti anche crearlo da solo. Con uno smartphone. Perché lo smartphone “è la penna della nostra epoca e il video è il nostro linguaggio – dice il direttore dell’innovazione e della formazione di Thomson Foundation Hosam El Nagar -. Dobbiamo saperlo usare bene e riuscire a entrare in questo ecosistema che, ormai, vede tutti noi informarsi proprio grazie allo smartphone”. Qui sotto la versione integrale della nostra intervista.

  • Dougal Shaw: “il mobile journalism è semplice e per tutti”

    Dougal Shaw: “il mobile journalism è semplice e per tutti”

    Qualche tempo fa ho incontrato uno dei più grandi mobile journalist del mondo: è Dougal Shaw della BBC.

    L’ho incontrato a Parigi, in occasione della conferenza La Video Mobile 2019. Stargli vicino per qualche ora, vederlo all’opera nel suo workshop, durante il quale condivideva i segreti del suo mojo, è stato un grande regalo. Si tratta di un grande giornalista, con una spiccata sensibilità per le storie che hanno le caratteristiche giuste per viaggiare lontano sui social. Di cosa parlo? Di storie che ci sono vicine, di storie che hanno una comunità dietro e che hanno bisogno di una ribalta per rivelarsi.

    Sono stato al suo workshop.

    A Parigi ho fatto da attento studente di primo banco al suo workshop, sezionando la sua prolusione parola per parola. Ho trovato subito il filo conduttore del suo lavoro, capendo, se mai ne avessi avuto bisogno, una volta di più che mi trovavo davanti a un genio. Di cosa sto parlando? Sto parlando della sua costante ricerca della semplicità al servizio della storia, passando anche per un uso attento, ma leggero, della tecnologia. Dougal ha mostrato il suo kit ti lavoro che entra tutto in uno zainetto e ha mostrato come quello zainetto può soddisfare tutte le sue esigenze liberandolo da attrezzature pesanti.

    La tecnica a servire la storia.

    La storia, nel suo lavoro, resta il centro e non viene “violentata” dalla prepotenza di certi mezzi tecnici. Il suo mantra è che la tecnica deve finire a servire quello che stiamo scrivendo per immagini. Non deve fare altro. Quello che ripete spesso è che il mobile journalism deve essere semplice e aiutare a pensare in modo semplice. Dopo l’ora di workshop, nella quale sono rimasto ammirato dalla sua capacità di rendere snello ogni ragionamento ed efficace ogni movimento quando è sul campo, mi sono fermato a chiacchierare con lui per sentire cosa vede nel presente e nel futuro del mobile journalism. Ecco la sua risposta: “Il mojo è semplice ed è per tutti, anche per quelli che non si credono giornalisti, ma lo sono”. Allargherò la base, quindi, del target del mio lavoro. Basta pensare al “journalism”, questa cultura è per tutti. Buona visione.