Autore: Francesco Facchini

  • Mobile Storytelling: il manuale di mobile journalism perfetto

    Mobile Storytelling: il manuale di mobile journalism perfetto

    Se scrivi un manuale di mobile journalism sei un pazzo.

    Se riesci a scrivere un manuale di mobile journalism che diventa una bibbia sei un eroe. E qui, in questa storia, di eroi ne abbiamo due. Guarda caso come ne avevamo due nella prima storia di un manuale di mobile journalism.

    Andiamo con ordine. I due eroi di cui sto parlando sono Wytse Wellinga, olandese, e Björn Staschen, tedesco. Si tratta di due tra i maggiori esperti del mobile journalism in circolazione, i quali si sono cimentati, lo scorso aprile, nell’impresa di far uscire un manuale di mobile journalism che si intitola “Mobile Storytelling:A journalist’s guide to smartphone galaxy“.  

    Io lo sto studiando, non senza difficoltà visto il carattere approfondito e preciso dell’opera, redatta in inglese, in questi giorni. Più vado avanti nelle pagine, più mi convinco che i due colleghi abbiano centrato un’impresa straordinaria. Sono, infatti, riusciti a salire al piano di sopra della manualistica universitaria rispetto ai due grandi che li hanno preceduti, vale a dire Ivo Burum e Stephen Quinn, autori di “The Mojo Handbook”

    Perché sono due pazzi.

    Bjorn e Wytse sono due pazzi perché fare un manuale di mobile journalism è una assurda corsa contro il tempo per cercare di fotografare una materia fluida e in velocissimo cambiamento. “Mentre lo stavamo scrivendo – mi ha raccontato Staschen – ci siamo accorti di quanto velocemente cambi questa materia. Incredibile. Quanti cambiamenti abbiamo dovuto notare e quindi mettere nel libro in poco tempo. Abbiamo faticato a stare dietro al mojo: difficile e bello”. Non contenti del fatto che sfidavano la sorte e la logica, cosa che peraltro sto facendo anche io da un’annetto, i due alfieri della cultura mojo hanno anche fatto… di peggio. Se lo sono pubblicati da soli via Amazon. “Beh, esperienza dura – ha detto Staschen – ma abbiamo avuto anche la possibilità di cambiarlo e di farlo evolvere in corso d’opera. E’ bello poter pensare che hai un libro che puoi aggiornare quando vuoi”. Ora, adesso, velocemente, con pochi costi: insomma mojo.

    Perché sono due eroi.

    Davvero non so cosa li abbia guidati, ma sono riusciti a spiegare tutta la materia in modo approfondito senza scivolare nel tecnico o senza perdersi troppo in particolari su app e software che cambiano dopo poco. Hanno scritto tutto, tutti i fondamentali, tutte le caratteristiche di tutte le app più importanti, di tutti i modi e i consigli per fare mobile storytelling senza esagerare.

    Senza incorrere nell’errore di essere troppo precisi e troppo tecnici, cosa che avrebbe di fatto messo in pericolo il loro libro. Il motivo? Sarebbe diventato vecchio in due mesi. Invece non lo è. Davvero prezioso, pieno di testimonianze dei grandi interpreti della mobile content creation. Se uno vuole studiare mobile journalism qui trova la mojo bibbia. “Volevamo diffondere la conoscenza del mobile journalism che molti colleghi ci hanno regalato – mi ha raccontato Wytse Wellinga – e aiutare chi legge a trovare il suo mojo. Speriamo possa essere un manuale di mobile journalism utile a chi vuole trovare la via per raccontare le sue storie. In modo unico”. Un libro meraviglioso.

  • Taz Goldstein: “Hollywood ha paura degli smartphone nel cinema”

    Taz Goldstein: “Hollywood ha paura degli smartphone nel cinema”

    A Hollywood c’è un visionario di nome Taz Goldstein.

    Già, proprio un pazzo, un rivoluzionario. Sto parlando di un quieto signore americano di mezza età che risponde al nome di Taz Goldstein e che è di diritto nella storia del mobile journalism e della mobile content creation per quello che ha deciso di fare. Di cosa sto parlando? Sto parlando del fatto che ha cominciato un blog sul filmmaking con gli smartphone nel 2009 (!), che ha “catechizzato” verso la mobile content creation moltissimi videomaker indipendenti e che ha lui stesso introdotto nel suo lavoro molti criteri di produzione e realizzazione delle immagini con device e app mobili.

    Il suo blog si chiama Handeld Hollywood e da quel blog è nato un libro capolavoro (a dire la verità un minimo datato, ma ancroa di valore) che si intitola “Filmaking with an iPhone or an iPad”. Ti metto qui il link al blog che ricorda gli elementi, i concetti e le app che ha descritto nella sua presentazione di Galway nella quale ha svelato i segreti del filmmaker in mobile.

    Un signore del grande, medio e piccolissimo schermo.

    Taz Goldstein è uno che ha lavorato per Universal, Sony e Fox, lasciando la sua firma anche nel mondo delle aziende con “commercials” come Google, Adobe o Microsoft. Quello che stupisce, però, è come consideri il linguaggio visuale mojo come qualcosa di assolutamente naturale e imprescindibile per il presente e il futuro del cinema. Quando gli chiedo consigli, infatti, dimostra di essere assolutamente al servizio della cosa più importante, qualsiasi sia  lo schermo che tu stai usando per riprendere la scena che hai davanti.

    Di cosa sto parlando? “Della storia – dice -. E’ la storia che importa, non la macchina con cui la riprendi. Certo è, tuttavia, che il mobile ha dato un grande impulso alla creatività e ha “liberato” le teste. Ora, infatti, tutti sono liberi di provare, sperimentare, tentare e anche di sbagliare. Ecco, se posso dare un consiglio, dico ‘buttatevi’ e siate liberi di sbagliare! Poi aggiungo: usate il mobile, anche se non filmerete in mobile. Vi permette delle cose pazzesche anche in fase produttiva. Però la cosa che piace di più a me del girare in mobile è la possibilità di sbagliare serenamente: ecco, sbagliate e riprovate”. Un signore del grande, medio, piccolo e piccolissimo  schermo.

    Bada a dove lo metti!

    Sentire parlare Goldstein è un sollievo. “Un’altra cosa che dico – aggiunge – è di preoccuparsi di dove si mette la camera, il mobile. Già, perché gli smartphone possono darti delle prospettive uniche di una scena e puoi regalare a chi vede prospettive che non sapeva di poter avere. Direi che questo è fantastico e ti libera, quando stai creando”.

    Non ho potuto non sfruttare l’occasione di chiedere a Goldstein consigli su come un filmmaker possa “monetizzare” seriamente i suoi progetti, ora che la mobile content creation regala possibilità incredibili a costi più contenuti. “Non crediate di poterci campare da subito – dice chiaramente Taz -, ma ci sono delle opportunità nuove che fornisce il mojo e che vanno sfruttate. Io lavoro a Hollywood e vedo centinaia di storie che non vengono raccontate in cinemascope perché Hollywood lavora solo con certe logiche o avrebbero bisogno di certi macchinari per essere girare. Beh, ora questo può cambiare”.

    I soldi arrivano tra costi abbattuti e nuovi canali di pubblicazione.

    “Oggi, infatti – racconta Goldstein – le cose si stanno modificando e il fatto che puoi risparmiare sulla produzione effettiva del film usando il mobile libera delle risorse che puoi utilizzare facendo auto pubblicazione o diffusione attraverso canali diversi dal passato. Ora non hai bisogno di budget tremendi per fare un film. L’introduzione di un approccio low budget è liberating, ti apre la mente e ti fa ingegnare anche quando devi distribuire il film, visto che di piattaforme ora ce ne sono parecchie”.

    “Certo, non ci fai tonnellate di soldi – continua -, ma ci sono iniziali esempi brillantissimi come Tangerine (film girato con iPhone 5s nel 2015). Anche in quel film, però, come ho già accennato, era la storia bellissima a comandare. Poi il regista Sean Baker è stato bravo, perché non ha badato ad altro che ha “massimizzare” la resa degli iPhone mentre riprendeva, senza pensare che erano iPhone”.

    E poi è arrivata la meteora Soderbergh.

    Beh, si, ok. Ci sono stati degli esploratori, come Goldstein stesso, come Koerbel e come Baker, ma a aun certo punto è arrivato un tale di nome Steven Soderberg con il suo Unsane, girato con iPhone 7 Plus. “Le reazioni sono state di due tipi – mi ha raccontato Goldstein -. Quella dei registi è stata timidamente incuriosita: tutti hanno pensato alle potenzialità che offre il mezzo, alle nuove inquadrature e ai nuovi linguaggi e molti hanno detto “mmm, quasi quasi ci provo”.

    “Poi c’è stata la gelida reazione dei produttori – aggiunge -, quelli che devono continuare a badare alla loro macchina da cinema così vecchia e costosa. Quelli hanno fatto finta che il film non esistesse… attanagliati dalla paura di dover cambiare e fare a meno di tutta quella costosissima macchina produttiva che hanno sulle spalle. Eh, ma il problema è che prima o poi dovranno rendersi conto che la rivoluzione è cominciata”.

    Si, ok, ma sti diavolo di produttori di telefonini continuano a occuparsi di foto.

    Ho chiesto a Goldstein di chiarirmi come vede la tendenza del mercato dei produttori di telefoni che fanno fotocamere pazzesche, ma non si dedicano alla parte video. Geniale la sua risposta: “Penso che sia perché il consumatore ha paura – ha raccontato chiudendo la nostra chiacchierata – perché tutti si sentono capaci di fare una foto, ma in pochi si sentono in grado di fare un buon video. Vedrete, però, che la generazione dei nostri figli spazzerà via tutto. Il motivo? Loro parlano con i video, loro sanno fare video senza che nessuno glielo spieghi. Loro sono dei videographer nati e lo sono… con lo smartphone”. Mi sento decisamente meglio.

    L’intervista a Taz Goldstein.

  • Mojofest 2018: la lezione di Glen Mulcahy e il futuro del nostro mestiere

    Mojofest 2018: la lezione di Glen Mulcahy e il futuro del nostro mestiere

    Sono tornato in Italia dopo il Mojofest 2018.

    Ho portato a casa una profonda lezione su questa professione e un nuovo percorso. Avrai presto notizie, ma mi permetto di iniziare da qualche appunto utile per tutti e da qualche provocazione

    La community vale sempre di più.

    La grande lezione del Mojofest e di Glen Mulcahy, il suo fondatore, è legata al valore della comunità. Quello che è successo a Mojofest, infatti, è per me una conferma. Vuoi sapere a cosa penso? Penso alla quantità di scambi, di consigli, di insegnamenti dati e ricevuti, che si sono sviluppati in quell’evento, con persone di tutto il mondo,  in quella città, in quelle sale, con quei magnifici esponenti della community mojo di tutto il mondo.

    Una quantità enorme che mi ha fatto tornare a casa con un tale tesoro di nozioni e informazioni che mi basterà per un anno intero, aumenterà la mia ricchezza personale ed economica, amplierà la mia rete di contatti e le opzioni per far crescere il mobile journalism in Italia. Provo un sincero dispiacere per chi non c’era. Provo un sincero dispiacere anche per chi, nei gruppi che frequento, sta a guardare senza agire, prende senza dare. Io so dove sto andando e vedo anche dove va il giornalismo italiano. Probabilmente, almeno per ora, abbiamo due direzioni diverse.

    Pensavo fosse paura

    Cavolaccio, pensavo che la community di Mojofest si parlasse addosso un po’ troppo e avevo paura. Lo confesso, ho pensato che fossimo una bolla dalla quale dovevamo uscire, dobbiamo uscire. Lo penso ancora per quanto riguarda la necessità di aprire il dialogo sulla mobile content creation ad attori che non erano presenti alla conferenza. Non vedendo media company, non vedendo dirigenti di compagnie telefoniche, non vedendo studiosi e accademici, andavo in giro ripetendomi “Manca qualcuno qui..”. Per un certo verso è vero e spero che Glen Mulcahy apra tavoli di discussione con le media company, con tv, siti e giornali di tutto il mondo per espandere la comunità e creare un nuovo mondo dei media.

    Invece è altro.

    Però da questa intervista di Glen Mulcahy alla nostra Giulia Bassanese di Italian Mojo ho capito che la mia paura è altro. Prima di scriverti quello che penso ti estraggo la frase chiave:

    Abbiamo incontrato molti giornalisti mojoer, ma quasi nessuno lavora per i principali player dell’informazione. Una questione di snobismo o i grandi editori continuano a non voler sentire parlare di mobile journalism?

    Domanda interessante. Certamente le tecniche e la filosofia mojo contageranno anche i grandi player dell’informazione in futuro, ma è un percorso lungo. Non credo vedremo molti rappresentanti dei media mainstream neppure alla prossima edizione. Anche per questo motivo ho intenzione di includere ancora più sessioni indirizzate ai business, magari introducendo una giornata dedicata esclusivamente alle imprese. La sfida per me è riuscire a creare dei panel quanto più diversificati possibile, senza tagliare quella fetta di mercato come i content creator, che hanno formato il nucleo storico di Mojofest.

    Le aziende sono media company.

    Capito l’antifona? Io mi sbagliavo e pensavo ai media che non c’erano. Lui ha già guardato in questa edizione e nella prossima guarderà ancora di più alle aziende. Ha ragione lui. I media non guardano da questa parte per paura. Loro sì hanno paura, io avevo paura perché guardavo la cosa dallo stesso punto di vista rimanendo smarrito davanti all’assenza delle aziende editoriali a Mojofest. Mi sbagliavo. I media sono assenti perché temono questo cambiamento. Quando il 5g spazzerà via tutto, vedremo cosa rimane. In quel momento le aziende ne avranno già approfittato e i media forse saranno meno utili di prima. Non so se è un bello scenario, ma è lo scenario.

    Cerco una scuola di giornalismo.

    Sono tornato in Italia e sono pronto a operare alcuni cambiamenti. A partire da questo blog, a partire dal linguaggio e dalle operazioni che ruotano attorno a me e all’associazione Italian Mojo. Il primo passo è la ricerca di una scuola di giornalismo o di comunicazione, un’accademia, insomma, che mi dia modo di espandere la tipologia di corso di mobile journalism che ho improntato finora e che ho intenzione di cambiare, puntando a una netta evoluzione.

    In questo senso registro che le istituzioni dell’Ordine Lombardo, sebbene io mi faccia sentire spesso, non danno risposte e seguito a quanto più volte accennato. Non c’è problema, si va avanti. Punto a raffinare ulteriori contatti avuti in questo periodo e sono disponibile a parlare con chiunque voglia approntare una casa accademica del mobile journalism assieme a me. Non ho tempo di aspettare. Devo trovare un posto dove costruire il futuro di una professione che è morta in Italia. Altrimenti ho già pronte altre vie.

    Il mio incontro con Nico Piro.

    Ho passato l’esperienza di Mojofest con Nico Piro, giornalista di Rai Tre che condivide con me l’esperienza di essere leader di questa materia in Italia. Ho dato molto a Nico e Nico ha dato molto a me e stiamo lavorando già per unificare il più possibile la comunità italiana del mobile journalism e della mobile content creation. Ci saranno indubbiamente delle novità, ma per ora mi limito a condividere un pensiero.

    Nei nostri due gruppi, nel lavoro di Nico e mio, nelle mie relazioni internazionali, nella sua conoscenza della materia e nella cultura che stiamo diffondendo c’è molto del rinnovamento della professione giornalistica in Italia. Penso fermamente che sia il caso che Ordine, scuole, università e accademie di ogni tipo, lo sappiano e lo sfruttino. Prima che sia troppo tardi. E’ proprio il caso di smettere di preparare i nuovi giornalisti con le apparecchiature del broadcasting televisivo che impongono un modo di fare la professione che sta per morire. Gli atenei che mi hanno accolto (e che ringrazio) lo hanno capito, ma ora è il momento di prendere la nostra conoscenza, quella mia e di Nico, per sparpagliarla in ogni dannato corso di giornalismo. Prima che sia troppo tardi. Per te.[:]

  • Drone per imparare? Il DJI Tello, palestra per un nuovo lavoro

    Drone per imparare? Il DJI Tello, palestra per un nuovo lavoro

    Ho scoperto qual è il drone per imparare davvero: è il Dji Tello, non ha avversari.

    Il drone per imparare era ed è una mia fissa, dopo che ho iniziato questo percorso per diventare un #drojo (drone journalist) di cui forse hai letto (o vuoi leggere) la mia prima puntata.

    Il motivo per cui penso che sia utile, anzi necessario, avere un drone giocattolo con cui “farsi le ossa” è molto semplice. Mi sto avvicinando a questo mondo con gli occhi liberi da pregiudizi e da idee di casta o di combriccola che spesso valgono molto in contesti come questi. Penso che ci siano molte cose dette male, molte cose che non si conoscono, molte storture e molta negatività in un mondo che potrebbe essere una grande opportunità professionale e di passione perché vive con le immagini.

    Avrai letto, forse, che ho già fatto un minimo di chiarezza.

    Nel primo pezzetto che ho fatto sull’argomento, questo qui, ho già messo in fila alcune nozioni sul mondo dei droni che sconfessano luoghi comuni, sfatano miti e smontano leggende. Più sono andato avanti negli esercizi, però, è più mi è sembrato chiaro che avere una palestra in piccolo di quello che poi ti fa fare lo Spark, serviva e serve. Molto. Anche in questo mondo e in questo particolare linguaggio delle immagini, quello che conta e conterà nella mia divulgazione della materia non è la tecnologia, ma il modo con cui si racconta una storia. Nel mondo dei droni, però, la tecnologia, visto che parliamo di macchine volanti, conta e molto.

    Dopo tanti fallimenti ho trovato il divertimento vero.

    Ho presto tre tipi di drone diversi tra i 32 e i 59 euro, comprati tutti su Amazon. Ebbene, si sono rivelati tutti un fallimento, rotti al primo urto o “uccisi” dalla loro scarsa qualità. Ho provato a sparare più in alto e, con 109 euro (ma su Amazon si trova a qualche cosina meno, ho trovato la perfetta palestra per il mio percorso da neofita del drone. Sto parlando del Dji Tello, il nuovo arrivato “basic” di casa Dji. E’ un drone fatto in collaborazione con la Ryze Electronics che monta circuiti della Intel, ha una macchina fotografica da 5 megapixel in grado di fare tranquillamente video 1280×720.

    L’esperienza di volo, specialmente se fatta con il controller Gamesir T1d, è da urlo.

    Essendo molto fedele alle manovre, con il Dji Tello viene facile fare in piccolo tutti quei movimenti di camera che sono utili per fare delle buone riprese aeree. E’ resistente, piccolo, fermo in volo e leggero. E’ un vero spasso, ma per chi vuole fare il drone journalism una tappa obbligata per capire come si fa. L’ho provato, vissuto, smontato, rimontato. Ebbene: ho trovato la palestra perfetta per fare allenamento e quello che ci vuole per imparare a volare con suo fratello maggiore, lo Spark.

  • Microfono per Smartphone?  iRig Mic HD2, soluzione perfetta per le news

    Microfono per Smartphone? iRig Mic HD2, soluzione perfetta per le news

     Microfono per smartphone: l’offerta si fa sempre più ricca.

    La questione dell’audio, te l’ho sempre detto, è assolutamente centrale se vuoi fare mobile journalism seriamente.

    Dall’inizio di questo progetto fino a oggi mi è capitato di avere per le mani molte soluzioni microfoniche che hanno soddisfatto diversi tipi di necessità di un mobile journalist o di un mobile videomaker.

    Oggi ti parlo di iRig Mic HD2, evoluzione dei microfoni a filo della iK Multimedia, azienda italiana che sta facendo uno strepitoso lavoro negli hardware di acquisizione audio, soprattutto nell’ambito della musica.

    Ho incrociato la strada di questa azienda molte volte per più di un tipo di supporto per il mojo. Treppiedi, amplificatori microfoni lavallier (i mitici iRig Mic Lav di cui parlo spesso nei miei corsi). Ora arriva il microfono per smartphone perfetto se fai il cronista di strada e hai bisogno di registrare velocemente.

    Il controllo assoluto del suono

    Se segui questo sito lo sai: anche per questo microfono per smartphone, come per gli altri sponsored post, non mi va di fare l’unboxing. Per cui ti dico che nella scatola trovi il microfono, l’astuccio, il filo di connessione al PC (comunque a USB) e il filo con la presa lightning per adattare questo microfono per smartphone a tutti i telefoni del mondo iOS.

    Grazie a convertitori a 24 bit di alta qualità, sample rate fino a 96kHz, un preamplificatore con bassissimo rumore di fondo, una nuova capsula gold-sputtered a condensatore e un’uscita cuffie integrata per il monitoring, iRig Mic HD 2 offre qualità e versatilità senza rivali ad un prezzo imbattibile

    I suoi ampi ambiti di utilizzo.

    La iK multimedia ne descrive così le caratteristiche principali che fanno di questo microfono lo strumento ideale per le news, per le interviste, per veloci stand up in primo piano, per registrazioni audio, per podcast, per live via social, ma anche . Il suo preamplificatore (con segnalatore multicolore a led) e la sua uscita cuffie fanno poi in modo che, se lo usi, tu abbia completa consapevolezza di quello che sta accadendo al tuo audio mentre lo registri. Nota ulteriore: ha la phantom e quindi prende energia dal telefono stesso.

    Con una controindicazione: ho verificato che, nel momento in cui parte lo standby del telefono, l’energia di alimentazione del microfono viene meno. Se non fai attenzione, quindi, specialmente quando stai registrando cose lunghe (in audio) potresti perdere pezzi. Ho fatto video, interviste, interviste con gente lontana, Facebook live.

    L’unico difetto…

    La resa mi sembra di quelle da urlo per un microfono per smartphone che ha un solo vero difetto. Volete sapere quale? Non è per telefoni Android e per come è messo il mercato italiano dei telefoni mi sembra una cazzata. Cara iK Multimedia, ti prego fanne una versione che sia “comprensiva” di un cavo Android (micro usb? Usb C?).

    Sono comunque ammirato da questo microfono per smartphone: da quando ho iniziato a produrre materiale per le mie Italian Mojo Stories non sono mai più uscito senza. Vale la pena, anche se il prezzo non è dei più bassi.

  • L’immagine visuale di un professionista: un lavoro mojo

    L’immagine visuale di un professionista: un lavoro mojo

    Sviluppare l’immagine visuale di un professionista è un altro dei lavori nei quali sto testando sul campo i vantaggi dell’essere un mojoer.

    Mi spiego subito. Sto affrontando questo percorso con lo Studio Della Valle.

    Lo sto affrontando per valorizzare l’immagine visuale della professionista Sabrina Della Valle e creare nuovi canali di comunicazione e di interazione con clienti esistenti e potenziali. Raccolgo qui, se le vuoi utilizzare, le prime impressioni e le prime valutazioni di un lavoro che faccio sul campo. Invitandoti, se sei un professionista che vuole migliorare la sua presenza visuale nel digitale, a contattarmi. Se invece sei un giornalista o un produttore di contenuti ti sottopongo questo pensiero: molti, moltissimi sono i potenziali clienti che hanno bisogno di un consulente per la propria immagine visuale.

    Prima considerazione: il contenuto serve.

    I numeri della mia precedente esperienza con C1V Edizioni (un piccolo brand editoriale), ma anche quelli che sto vedendo nelle interazioni con gli organi social e web di questo studio professionale di Milano, lo Studio Della Valle, fanno capire molte cose. Una sopra le altre: il contenuto conta. Conta il racconto, contano le informazioni, i consigli, la cultura che si distribuisce su un determinato argomento. Vengono da una fonte mediatica? Da un’azienda? Da un professionista? Le buone informazioni servono sempre. L’esempio lo puoi vedere qui sotto.

    Nell’immagine visuale di un professionista conta più quello che dice e quello che dà di come lo dice. I contenuti, i consigli, le dritte che può fornire, ma anche il racconto veritiero di quello che è e di quello che ha fatto, di quello che lo diverte e di quello che lo appassiona, tende a dare un posizionamento web e una resa migliore di qualsiasi altra operazione mediatica, magari associata all’advertising.

    Seconda considerazione: il racconto serve.

    Ecco, mi sto accorgendo giorno dopo giorno che per un professionista vale anche il racconto che riesce a proporre. Vale perché scatena un effetto nelle proprie conoscenze che si riverbera ampliandole e attivando legami deboli. In quella regione delle proprie reti di relazioni possono emergere persone interessate ai servizi o a una relazione di partnership che diventa un lead e poi un cliente. Il racconto serve, anche per creare una continuità di appuntamento e di relazione per via “social” o attraverso il sito internet dello studio professionale. Il racconto è creazione di fiducia e la creazione di fiducia è creazione di rapporto e invito alla collaborazione.

    Terza considerazione: il personal branding serve.

    Nella creazione dell’immagine visuale di un professionista è basilare che esca allo scoperto un brand personale. Si, quella caratteristica unica che fa emergere un lavoratore piuttosto che un altro. Sto parlando di quella somma di esperienze, competenze e bagaglio culturale e di vita che rende una persona differente da qualsiasi altro essere umano.

    Se sei nel campo dei professionisti e dei consulenti è abbastanza semplice creare un brand personale, scegliendo tra quelle competenze che rendono particolare ogni esponente di un dato campo del lavoro. In questo possono aiutare libri come quelli di Riccardo Scandellari dei quali ho parlato in questo pezzo. Raccontano di come crearsi un brand personale che sia un racconto di quello che si è veritiero e positivo, ma anche un racconto della propria unicità personale che ci rende la soluzione per coloro che hanno quel determinato problema da risolvere nel quale siamo esperti.

    Quarta considerazione: tu sei unico e questo serve.

    Questo tipo di immagine visuale vale anche se le nostre peculiarità professionali siano magari condivise con tanti altri potenziali concorrenti nel nostro mercato del lavoro. Il motivo? Beh, semplice. Sarà il nostro racconto personale a renderci appetibili al mercato. Per avere un’immagine visuale efficace e in grado di creare accrescimento professionale, l’apporto determinante di un produttore di contenuti che coordini la crescita di un racconto pubblico del proprio lavoro e della propria persona, è molto più determinante di tante altre possibilità di investimento sulla propria figura professionale. Pensaci e poi lavoriamoci su.

    Come? Con gli strumenti e le tecniche del mobile journalism. Con quei modi, infatti, si può arrivare a un fitta e proficua interazione con il cliente, tale da permettere al produttore di contenuti mojo di immedesimarsi totalmente nella persona e nel lavoratore che egli deve rappresentare.

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