Autore: Francesco Facchini

  • Adornato: “Giornalisti e mojo, si può vivere senza editori”

    Adornato: “Giornalisti e mojo, si può vivere senza editori”

    Giornalisti e mojo: c’è una via per esistere anche senza editori.

    Ho avuto la fortuna di incontrare di persona l’amico ed eminente professore di Ithaca College Anthony Adornato. Il docente e scrittore (qui puoi trovare la sua straordinaria opera di cui ho già fatto una review) sta sviluppando una didattica di insegnamento della disciplina del giornalismo del tutto innovativa, prendendo come concetto principale l’idea di insegnare ai nuovi giornalisti a produrre contenuti e prodotti editoriali per il mondo delle news con i mezzi del mobile al fine di destinare il proprio lavoro a tutti i tipi di piattaforme. Il cuore dell’intervista? C’è un modo per essere giornalisti senza passare per forza dagli editori.

    Lo smartphone resta al centro.

    Nella lunga chat che puoi trovare qui sotto, Adornato ha affrontato alcuni temi centrali del nuovo modo di lavorare che devono avere i giornalisti di oggi. “Insegniamo ai nostri ragazzi come gestire una storia – ha raccontato Adornato – per tutte le piattaforme di destinazione possibili, perché ora è questo il nostro lavoro. I giornalisti devono saper dialogare con i lettori e creare fiducia e credibilità. Prima eravamo noi a stabilire quale è la news del giorno, ora il giornalismo è una conversazione e il giovane giornalista deve essere consapevole di questo. Naturalmente facciamo questo percorso didattico facendo rimanere al centro del lavoro dei giornalisti lo smartphone, strumento centrale del lavoro di giornalista ora”.

    Creare una comunità per vivere senza un editore.

    “Saper creare una comunità è anche saper creare fiducia. Questo è il primo passaggio – ha sottolineato Adornato – per essere riconosciuti quali giornalisti come fonte di informazione autorevole e diretta. Il tutto se si è capaci di creare una community che ci segue attorno a un determinato argomento. Noi imponiamo questo passaggio ai nostri studenti, vale a dire che creino la propria nicchia per essere seguiti e riconosciuti, per diventare un brand del campo specifico nel quale si devono specializzare. Questo serve per pubblicare senza aver bisogno di un editore, ma anche per essere adocchiati dagli editori che vogliono ‘prendere’ un determinato giornalista proprio per la community che ha e che lo segue”. Il resto? Goditi la chiacchierata.

  • L’incredibile giorno della morte della tv (e delle homepage… e dei feed)

    L’incredibile giorno della morte della tv (e delle homepage… e dei feed)

    E’ morta la tv, ma non sembra se ne siano accorti in tantissimi…

    Oggi è il giorno in cui è morta la televisione, ma tutto sembra andare bene. Oggi è il giorno in cui il telefonino ha deciso di restare verticale e di costringere tutti a diventare… dritti e non orizzontali come siamo sempre stati. Oggi è il giorno in cui va in pensione in modo permanente la preminenza (era ora) di un modo di vedere e di fare i video che è figlio della tv.

    La tv è morta oggi e si è portata dietro il punto di vista che abbiamo sempre avuto, quel 16/9 che ha sempre ripetuto l’immagine acquisita, appunto, dall’occhio umano che vede, a causa del doppio campo visivo, in orizzontale e non… verticale. Oggi il mondo, però è andato a mettersi in piedi e ha liberato tutti dalla necessità di avere davanti gli schermi in orizzontale. Ma cosa è successo? Dai che lo sai…

    E’ nata IGTV

    Ieri a San Francisco, ma era già oggi in Italia, Kevin Stystrom, fondatore e CEO di Instagram, ha ribaltato il mondo dei social media annunciando il raggiungimento del miliardo di iscritti da parte del social più visuale, ma ha fatto anche di più. In un evento live su Instagram che puoi trovare qui, ha presentato a tutti IGTV, una applicazione di Instagram stand alone che è una vera televisione multicanale piena di contenuti magnifici e di canali creati in queste ore dalle star della rete per dare ai nuovi video addicted un portfolio di possibilità davvero impressionanti. Con IGTV si possono caricare video anche fino a un’ora, pre montati, e creano, assieme alle dirette, il proprio canale video su Instagram.

    L’era degli schermi verticali.

    Nelle ore in cui sbarca in Italia Youtube Music Instagram (di proprietà di Facebook) è andato a intaccare il regno dei video che è del social di Google. Bene, si muove tutto l’universo, ma resta il messaggio chiaro. Quale? Il moto dei video a diventare verticale subirà un’accelerazione violenta e metterà in crisi anche tutto quell’apparato delle TV che ha dettato legge finora.

    Perché adesso è chiaro ed è sancito dal secondo più importante social del mondo: i video si guardano in verticale.

    Tutta la grammatica che abbiamo conosciuto fino a oggi possiamo metterla nel cassetto. Gli schermi che guardiamo più spesso sono in verticale. Bisognerà adeguarsi. D’altronde andate in giro e trovatemi una persona che tiene il telefonino in orizzontale per vedere una cosa: non c’è.

    La televisione è morta oggi, spero le facciano il funerale, perché insomma, mi ha fatto piacere viverla per un po’. Ora facciamo senza.

    Bisogna avere un’idea.

    Per stare su IGTV, però, bisogna avere un’idea e averla precisa. Sai qual è il successo di Instagram? Semplice: dal punto di vista della narrazione della nostra storia o delle storie ci ha regalato la cosa più importante: una porta per entrare nella vita degli altri, ma davvero.

    Per questo se vuoi inventare qualcosa di nuovo devi avere bene in mente come far entrare dentro la porta di casa tua chi ti segue. Io ho deciso di farlo con lo strumento degli Spectacles per raccontare storie, incontri, avventure e giornate mojo. Se vuoi mi trovi su IGVT all’indirizzo @frafacchini. Ti farò vedere anche come costruirò il mio linguaggio verticale proprio grazie a Instagram.

    Il perché del decesso della tv.

    Questa provocazione della morte della tv non è mia ma è di Rudy Bandiera che ha aperto anche lui le danze su IGTV facendo questa boutade, ma motivandola non solo con il cambiamento dell’inquadratura, ma anche con il trionfo dei contenuti a richiesta che IGTV sviluppa. Già, perché in questa niuova finestra sul mondo vedi quello che vuoi tu e quando lo vuoi tu. Dopo Netflix, quindi, la nascita di questa app che ha ribaldato l’inquadratura e fatto esplodere le possibilità di contenuti da vedere in un giorno, c’è da decretare il decesso della tv anche perché nessuno vorrà più aspettare l’orario per vedere una cosa che potrà e vorrà vedere, da oggi sempre di più e sempre in verticale, quando desidera.

    Ecosistema mobile, ma anche i post sono morti (e le homepage)

    Poi va detta anche questa: con questa apertura delle storie a video precaricati di un’ora e visibili solo sulla app per smartphone, l’ecosistema mobile ha, di fatto, creato un mondo che della tv non ha bisogno, ma ha anche messo in pensione i feed, visto che ora sono molto più importanti le stories dei post. Anche il Feed, quindi, è morto, -assieme alle home page dei siti che, ormai, non servono più a nulla. Lo dicevo nel 2015 e oggi si è abbondantemente realizzato il destino delle  pagine iniziali dei siti web che, ormai, non frequenta più nessuno. Ormai andiamo diretti alla fonte o al contenuto passando dai social o guardando chi vogliamo noi, all’ora che vogliamo noi, sullo schermo mobile che vogliamo noi, possibilmente in verticale. Siamo nell’era della post televisione. Benissimo. E’ un’era mojo.

  • Mobile Storytelling: il manuale di mobile journalism perfetto

    Mobile Storytelling: il manuale di mobile journalism perfetto

    Se scrivi un manuale di mobile journalism sei un pazzo.

    Se riesci a scrivere un manuale di mobile journalism che diventa una bibbia sei un eroe. E qui, in questa storia, di eroi ne abbiamo due. Guarda caso come ne avevamo due nella prima storia di un manuale di mobile journalism.

    Andiamo con ordine. I due eroi di cui sto parlando sono Wytse Wellinga, olandese, e Björn Staschen, tedesco. Si tratta di due tra i maggiori esperti del mobile journalism in circolazione, i quali si sono cimentati, lo scorso aprile, nell’impresa di far uscire un manuale di mobile journalism che si intitola “Mobile Storytelling:A journalist’s guide to smartphone galaxy“.  

    Io lo sto studiando, non senza difficoltà visto il carattere approfondito e preciso dell’opera, redatta in inglese, in questi giorni. Più vado avanti nelle pagine, più mi convinco che i due colleghi abbiano centrato un’impresa straordinaria. Sono, infatti, riusciti a salire al piano di sopra della manualistica universitaria rispetto ai due grandi che li hanno preceduti, vale a dire Ivo Burum e Stephen Quinn, autori di “The Mojo Handbook”

    Perché sono due pazzi.

    Bjorn e Wytse sono due pazzi perché fare un manuale di mobile journalism è una assurda corsa contro il tempo per cercare di fotografare una materia fluida e in velocissimo cambiamento. “Mentre lo stavamo scrivendo – mi ha raccontato Staschen – ci siamo accorti di quanto velocemente cambi questa materia. Incredibile. Quanti cambiamenti abbiamo dovuto notare e quindi mettere nel libro in poco tempo. Abbiamo faticato a stare dietro al mojo: difficile e bello”. Non contenti del fatto che sfidavano la sorte e la logica, cosa che peraltro sto facendo anche io da un’annetto, i due alfieri della cultura mojo hanno anche fatto… di peggio. Se lo sono pubblicati da soli via Amazon. “Beh, esperienza dura – ha detto Staschen – ma abbiamo avuto anche la possibilità di cambiarlo e di farlo evolvere in corso d’opera. E’ bello poter pensare che hai un libro che puoi aggiornare quando vuoi”. Ora, adesso, velocemente, con pochi costi: insomma mojo.

    Perché sono due eroi.

    Davvero non so cosa li abbia guidati, ma sono riusciti a spiegare tutta la materia in modo approfondito senza scivolare nel tecnico o senza perdersi troppo in particolari su app e software che cambiano dopo poco. Hanno scritto tutto, tutti i fondamentali, tutte le caratteristiche di tutte le app più importanti, di tutti i modi e i consigli per fare mobile storytelling senza esagerare.

    Senza incorrere nell’errore di essere troppo precisi e troppo tecnici, cosa che avrebbe di fatto messo in pericolo il loro libro. Il motivo? Sarebbe diventato vecchio in due mesi. Invece non lo è. Davvero prezioso, pieno di testimonianze dei grandi interpreti della mobile content creation. Se uno vuole studiare mobile journalism qui trova la mojo bibbia. “Volevamo diffondere la conoscenza del mobile journalism che molti colleghi ci hanno regalato – mi ha raccontato Wytse Wellinga – e aiutare chi legge a trovare il suo mojo. Speriamo possa essere un manuale di mobile journalism utile a chi vuole trovare la via per raccontare le sue storie. In modo unico”. Un libro meraviglioso.

  • Taz Goldstein: “Hollywood ha paura degli smartphone nel cinema”

    Taz Goldstein: “Hollywood ha paura degli smartphone nel cinema”

    A Hollywood c’è un visionario di nome Taz Goldstein.

    Già, proprio un pazzo, un rivoluzionario. Sto parlando di un quieto signore americano di mezza età che risponde al nome di Taz Goldstein e che è di diritto nella storia del mobile journalism e della mobile content creation per quello che ha deciso di fare. Di cosa sto parlando? Sto parlando del fatto che ha cominciato un blog sul filmmaking con gli smartphone nel 2009 (!), che ha “catechizzato” verso la mobile content creation moltissimi videomaker indipendenti e che ha lui stesso introdotto nel suo lavoro molti criteri di produzione e realizzazione delle immagini con device e app mobili.

    Il suo blog si chiama Handeld Hollywood e da quel blog è nato un libro capolavoro (a dire la verità un minimo datato, ma ancroa di valore) che si intitola “Filmaking with an iPhone or an iPad”. Ti metto qui il link al blog che ricorda gli elementi, i concetti e le app che ha descritto nella sua presentazione di Galway nella quale ha svelato i segreti del filmmaker in mobile.

    Un signore del grande, medio e piccolissimo schermo.

    Taz Goldstein è uno che ha lavorato per Universal, Sony e Fox, lasciando la sua firma anche nel mondo delle aziende con “commercials” come Google, Adobe o Microsoft. Quello che stupisce, però, è come consideri il linguaggio visuale mojo come qualcosa di assolutamente naturale e imprescindibile per il presente e il futuro del cinema. Quando gli chiedo consigli, infatti, dimostra di essere assolutamente al servizio della cosa più importante, qualsiasi sia  lo schermo che tu stai usando per riprendere la scena che hai davanti.

    Di cosa sto parlando? “Della storia – dice -. E’ la storia che importa, non la macchina con cui la riprendi. Certo è, tuttavia, che il mobile ha dato un grande impulso alla creatività e ha “liberato” le teste. Ora, infatti, tutti sono liberi di provare, sperimentare, tentare e anche di sbagliare. Ecco, se posso dare un consiglio, dico ‘buttatevi’ e siate liberi di sbagliare! Poi aggiungo: usate il mobile, anche se non filmerete in mobile. Vi permette delle cose pazzesche anche in fase produttiva. Però la cosa che piace di più a me del girare in mobile è la possibilità di sbagliare serenamente: ecco, sbagliate e riprovate”. Un signore del grande, medio, piccolo e piccolissimo  schermo.

    Bada a dove lo metti!

    Sentire parlare Goldstein è un sollievo. “Un’altra cosa che dico – aggiunge – è di preoccuparsi di dove si mette la camera, il mobile. Già, perché gli smartphone possono darti delle prospettive uniche di una scena e puoi regalare a chi vede prospettive che non sapeva di poter avere. Direi che questo è fantastico e ti libera, quando stai creando”.

    Non ho potuto non sfruttare l’occasione di chiedere a Goldstein consigli su come un filmmaker possa “monetizzare” seriamente i suoi progetti, ora che la mobile content creation regala possibilità incredibili a costi più contenuti. “Non crediate di poterci campare da subito – dice chiaramente Taz -, ma ci sono delle opportunità nuove che fornisce il mojo e che vanno sfruttate. Io lavoro a Hollywood e vedo centinaia di storie che non vengono raccontate in cinemascope perché Hollywood lavora solo con certe logiche o avrebbero bisogno di certi macchinari per essere girare. Beh, ora questo può cambiare”.

    I soldi arrivano tra costi abbattuti e nuovi canali di pubblicazione.

    “Oggi, infatti – racconta Goldstein – le cose si stanno modificando e il fatto che puoi risparmiare sulla produzione effettiva del film usando il mobile libera delle risorse che puoi utilizzare facendo auto pubblicazione o diffusione attraverso canali diversi dal passato. Ora non hai bisogno di budget tremendi per fare un film. L’introduzione di un approccio low budget è liberating, ti apre la mente e ti fa ingegnare anche quando devi distribuire il film, visto che di piattaforme ora ce ne sono parecchie”.

    “Certo, non ci fai tonnellate di soldi – continua -, ma ci sono iniziali esempi brillantissimi come Tangerine (film girato con iPhone 5s nel 2015). Anche in quel film, però, come ho già accennato, era la storia bellissima a comandare. Poi il regista Sean Baker è stato bravo, perché non ha badato ad altro che ha “massimizzare” la resa degli iPhone mentre riprendeva, senza pensare che erano iPhone”.

    E poi è arrivata la meteora Soderbergh.

    Beh, si, ok. Ci sono stati degli esploratori, come Goldstein stesso, come Koerbel e come Baker, ma a aun certo punto è arrivato un tale di nome Steven Soderberg con il suo Unsane, girato con iPhone 7 Plus. “Le reazioni sono state di due tipi – mi ha raccontato Goldstein -. Quella dei registi è stata timidamente incuriosita: tutti hanno pensato alle potenzialità che offre il mezzo, alle nuove inquadrature e ai nuovi linguaggi e molti hanno detto “mmm, quasi quasi ci provo”.

    “Poi c’è stata la gelida reazione dei produttori – aggiunge -, quelli che devono continuare a badare alla loro macchina da cinema così vecchia e costosa. Quelli hanno fatto finta che il film non esistesse… attanagliati dalla paura di dover cambiare e fare a meno di tutta quella costosissima macchina produttiva che hanno sulle spalle. Eh, ma il problema è che prima o poi dovranno rendersi conto che la rivoluzione è cominciata”.

    Si, ok, ma sti diavolo di produttori di telefonini continuano a occuparsi di foto.

    Ho chiesto a Goldstein di chiarirmi come vede la tendenza del mercato dei produttori di telefoni che fanno fotocamere pazzesche, ma non si dedicano alla parte video. Geniale la sua risposta: “Penso che sia perché il consumatore ha paura – ha raccontato chiudendo la nostra chiacchierata – perché tutti si sentono capaci di fare una foto, ma in pochi si sentono in grado di fare un buon video. Vedrete, però, che la generazione dei nostri figli spazzerà via tutto. Il motivo? Loro parlano con i video, loro sanno fare video senza che nessuno glielo spieghi. Loro sono dei videographer nati e lo sono… con lo smartphone”. Mi sento decisamente meglio.

    L’intervista a Taz Goldstein.

  • Mojofest 2018: la lezione di Glen Mulcahy e il futuro del nostro mestiere

    Mojofest 2018: la lezione di Glen Mulcahy e il futuro del nostro mestiere

    Sono tornato in Italia dopo il Mojofest 2018.

    Ho portato a casa una profonda lezione su questa professione e un nuovo percorso. Avrai presto notizie, ma mi permetto di iniziare da qualche appunto utile per tutti e da qualche provocazione

    La community vale sempre di più.

    La grande lezione del Mojofest e di Glen Mulcahy, il suo fondatore, è legata al valore della comunità. Quello che è successo a Mojofest, infatti, è per me una conferma. Vuoi sapere a cosa penso? Penso alla quantità di scambi, di consigli, di insegnamenti dati e ricevuti, che si sono sviluppati in quell’evento, con persone di tutto il mondo,  in quella città, in quelle sale, con quei magnifici esponenti della community mojo di tutto il mondo.

    Una quantità enorme che mi ha fatto tornare a casa con un tale tesoro di nozioni e informazioni che mi basterà per un anno intero, aumenterà la mia ricchezza personale ed economica, amplierà la mia rete di contatti e le opzioni per far crescere il mobile journalism in Italia. Provo un sincero dispiacere per chi non c’era. Provo un sincero dispiacere anche per chi, nei gruppi che frequento, sta a guardare senza agire, prende senza dare. Io so dove sto andando e vedo anche dove va il giornalismo italiano. Probabilmente, almeno per ora, abbiamo due direzioni diverse.

    Pensavo fosse paura

    Cavolaccio, pensavo che la community di Mojofest si parlasse addosso un po’ troppo e avevo paura. Lo confesso, ho pensato che fossimo una bolla dalla quale dovevamo uscire, dobbiamo uscire. Lo penso ancora per quanto riguarda la necessità di aprire il dialogo sulla mobile content creation ad attori che non erano presenti alla conferenza. Non vedendo media company, non vedendo dirigenti di compagnie telefoniche, non vedendo studiosi e accademici, andavo in giro ripetendomi “Manca qualcuno qui..”. Per un certo verso è vero e spero che Glen Mulcahy apra tavoli di discussione con le media company, con tv, siti e giornali di tutto il mondo per espandere la comunità e creare un nuovo mondo dei media.

    Invece è altro.

    Però da questa intervista di Glen Mulcahy alla nostra Giulia Bassanese di Italian Mojo ho capito che la mia paura è altro. Prima di scriverti quello che penso ti estraggo la frase chiave:

    Abbiamo incontrato molti giornalisti mojoer, ma quasi nessuno lavora per i principali player dell’informazione. Una questione di snobismo o i grandi editori continuano a non voler sentire parlare di mobile journalism?

    Domanda interessante. Certamente le tecniche e la filosofia mojo contageranno anche i grandi player dell’informazione in futuro, ma è un percorso lungo. Non credo vedremo molti rappresentanti dei media mainstream neppure alla prossima edizione. Anche per questo motivo ho intenzione di includere ancora più sessioni indirizzate ai business, magari introducendo una giornata dedicata esclusivamente alle imprese. La sfida per me è riuscire a creare dei panel quanto più diversificati possibile, senza tagliare quella fetta di mercato come i content creator, che hanno formato il nucleo storico di Mojofest.

    Le aziende sono media company.

    Capito l’antifona? Io mi sbagliavo e pensavo ai media che non c’erano. Lui ha già guardato in questa edizione e nella prossima guarderà ancora di più alle aziende. Ha ragione lui. I media non guardano da questa parte per paura. Loro sì hanno paura, io avevo paura perché guardavo la cosa dallo stesso punto di vista rimanendo smarrito davanti all’assenza delle aziende editoriali a Mojofest. Mi sbagliavo. I media sono assenti perché temono questo cambiamento. Quando il 5g spazzerà via tutto, vedremo cosa rimane. In quel momento le aziende ne avranno già approfittato e i media forse saranno meno utili di prima. Non so se è un bello scenario, ma è lo scenario.

    Cerco una scuola di giornalismo.

    Sono tornato in Italia e sono pronto a operare alcuni cambiamenti. A partire da questo blog, a partire dal linguaggio e dalle operazioni che ruotano attorno a me e all’associazione Italian Mojo. Il primo passo è la ricerca di una scuola di giornalismo o di comunicazione, un’accademia, insomma, che mi dia modo di espandere la tipologia di corso di mobile journalism che ho improntato finora e che ho intenzione di cambiare, puntando a una netta evoluzione.

    In questo senso registro che le istituzioni dell’Ordine Lombardo, sebbene io mi faccia sentire spesso, non danno risposte e seguito a quanto più volte accennato. Non c’è problema, si va avanti. Punto a raffinare ulteriori contatti avuti in questo periodo e sono disponibile a parlare con chiunque voglia approntare una casa accademica del mobile journalism assieme a me. Non ho tempo di aspettare. Devo trovare un posto dove costruire il futuro di una professione che è morta in Italia. Altrimenti ho già pronte altre vie.

    Il mio incontro con Nico Piro.

    Ho passato l’esperienza di Mojofest con Nico Piro, giornalista di Rai Tre che condivide con me l’esperienza di essere leader di questa materia in Italia. Ho dato molto a Nico e Nico ha dato molto a me e stiamo lavorando già per unificare il più possibile la comunità italiana del mobile journalism e della mobile content creation. Ci saranno indubbiamente delle novità, ma per ora mi limito a condividere un pensiero.

    Nei nostri due gruppi, nel lavoro di Nico e mio, nelle mie relazioni internazionali, nella sua conoscenza della materia e nella cultura che stiamo diffondendo c’è molto del rinnovamento della professione giornalistica in Italia. Penso fermamente che sia il caso che Ordine, scuole, università e accademie di ogni tipo, lo sappiano e lo sfruttino. Prima che sia troppo tardi. E’ proprio il caso di smettere di preparare i nuovi giornalisti con le apparecchiature del broadcasting televisivo che impongono un modo di fare la professione che sta per morire. Gli atenei che mi hanno accolto (e che ringrazio) lo hanno capito, ma ora è il momento di prendere la nostra conoscenza, quella mia e di Nico, per sparpagliarla in ogni dannato corso di giornalismo. Prima che sia troppo tardi. Per te.[:]

  • Drone per imparare? Il DJI Tello, palestra per un nuovo lavoro

    Drone per imparare? Il DJI Tello, palestra per un nuovo lavoro

    Ho scoperto qual è il drone per imparare davvero: è il Dji Tello, non ha avversari.

    Il drone per imparare era ed è una mia fissa, dopo che ho iniziato questo percorso per diventare un #drojo (drone journalist) di cui forse hai letto (o vuoi leggere) la mia prima puntata.

    Il motivo per cui penso che sia utile, anzi necessario, avere un drone giocattolo con cui “farsi le ossa” è molto semplice. Mi sto avvicinando a questo mondo con gli occhi liberi da pregiudizi e da idee di casta o di combriccola che spesso valgono molto in contesti come questi. Penso che ci siano molte cose dette male, molte cose che non si conoscono, molte storture e molta negatività in un mondo che potrebbe essere una grande opportunità professionale e di passione perché vive con le immagini.

    Avrai letto, forse, che ho già fatto un minimo di chiarezza.

    Nel primo pezzetto che ho fatto sull’argomento, questo qui, ho già messo in fila alcune nozioni sul mondo dei droni che sconfessano luoghi comuni, sfatano miti e smontano leggende. Più sono andato avanti negli esercizi, però, è più mi è sembrato chiaro che avere una palestra in piccolo di quello che poi ti fa fare lo Spark, serviva e serve. Molto. Anche in questo mondo e in questo particolare linguaggio delle immagini, quello che conta e conterà nella mia divulgazione della materia non è la tecnologia, ma il modo con cui si racconta una storia. Nel mondo dei droni, però, la tecnologia, visto che parliamo di macchine volanti, conta e molto.

    Dopo tanti fallimenti ho trovato il divertimento vero.

    Ho presto tre tipi di drone diversi tra i 32 e i 59 euro, comprati tutti su Amazon. Ebbene, si sono rivelati tutti un fallimento, rotti al primo urto o “uccisi” dalla loro scarsa qualità. Ho provato a sparare più in alto e, con 109 euro (ma su Amazon si trova a qualche cosina meno, ho trovato la perfetta palestra per il mio percorso da neofita del drone. Sto parlando del Dji Tello, il nuovo arrivato “basic” di casa Dji. E’ un drone fatto in collaborazione con la Ryze Electronics che monta circuiti della Intel, ha una macchina fotografica da 5 megapixel in grado di fare tranquillamente video 1280×720.

    L’esperienza di volo, specialmente se fatta con il controller Gamesir T1d, è da urlo.

    Essendo molto fedele alle manovre, con il Dji Tello viene facile fare in piccolo tutti quei movimenti di camera che sono utili per fare delle buone riprese aeree. E’ resistente, piccolo, fermo in volo e leggero. E’ un vero spasso, ma per chi vuole fare il drone journalism una tappa obbligata per capire come si fa. L’ho provato, vissuto, smontato, rimontato. Ebbene: ho trovato la palestra perfetta per fare allenamento e quello che ci vuole per imparare a volare con suo fratello maggiore, lo Spark.