Autore: Francesco Facchini

  • Podcast sul mobile journalism: ecco Italian Mojo stories

    Podcast sul mobile journalism: ecco Italian Mojo stories

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    Podcast sul mobile journalism: le storie di Italian Mojo.

    Una di queste notti mi è partito un podcast sul mondo del mojo, è partito in sordina e con l’idea di continuare anche su un altro canale il dialogo con te che mi leggi e che ti servi delle poche o tante cose utili che racconto. E’ partito perché parlare di mobile journalism e di mobile content creation, parlare del giornalismo che cambia e  di innovazione nei media in generale è quello che mi riesce meglio. Italian Mojo, la community fondata assieme a un team di altri colleghi, ne è il simbolo più evidente. Per continuare a chiacchierare con chi si interessa di mojo, quindi, ho deciso che Italian Mojo Stories dovesse essere il modo migliore per titolare un programma radiofonico che mi fa ritornare alle origini, visto che ho cominciato, nel 1989, proprio parlando davanti a un microfono, il mio lungo viaggio.

    Filosofia poca, riflessioni molte, notizie utili tantissime.

    Ho fatto stasera la mia terza puntata e ho già capito il filo rosso che le unirà tutte. Vuoi sapere qual è? E’ la volontà di essere utile, di raccontare con un mezzo efficacissimo e in un tempo ragionevolmente breve, le notizie che vengo a sapere a tutta la mia community, a quel gruppo di Italian Mojo di cui sono l’ispiratore, sì, ma anche la fonte di news.

    Il podcast è immediato, intimo, affabile, è come un amico che ti spaccia consigli, ti gira le dritte, ti regala le chicche. Ecco, voglio essere così e spero di riuscirci. Se volete seguirmi la home del mio podcast è questa. E’ su Anchor perché quello strumento è completamente mojo e può regalare interazione con i messaggi che gli ascoltatori possono lasciarmi. Il mezzo, quindi, è anche un modo per continuare ad alimentare l’architrave del nuovo giornalismo, il fatto di conversare con la propria community.

    Sono Italian Mojo e risolvo problemi.

    La puntata che mi è piaciuta di più è quella nella quale ho parlato dei grossi problemi di Filmic Pro con l’audio, patiti in questo periodo. Se vuoi sapere tutti i segreti ascoltala e capirai anche lo scopo di Italian Mojo Stories e la sua missione: spacciare dritte e news utili.

    Qui, nel breve volgere di 6-7 minuti, puoi sapere cosa è successo e cosa sta succedendo sulla app di Filming fatta a Seattle dal team di Bonagurio e Barnham. Ecco, moltiplica questo e episodio del podcast per mille e avrai la strada che ho deciso di intraprendere per il mio nuovo gingillo mojo. Sono Italian Mojo e te lo racconto, alla vecchia, chiacchierando davanti a un microfono. E’ un mondo per stare insieme. Aspetto messaggi, ci sentiamo presto. Diciamo una volta ogni due giorni.

    Ehi, sulle immagini c’è il super corso di Ranfi.

    A proposito di immagini, molto probabilmente si parlerà di questi problemini anche al primo corso di Filming che Italian Mojo, la mia associazione, ti offre per questo sabato, 24 marzo 2018, con alla docenza il professor Fabio Ranfi. Per l’iscrizione, puoi cliccare qui.

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  • Come si fa un ufficio stampa con il mobile journalism

    Come si fa un ufficio stampa con il mobile journalism

    Come si fa un ufficio stampa? Col mobile sto cercando di rompere gli schemi.

    La casa editrice C1V Edizioni di Roma mi ha affidato, alla fine del mese di gennaio 2018, il compito di rifondare la comunicazione, con l’obiettivo di far puntare l’attenzione dei media sul Secondo Congresso Nazionale di Medicina e Pseudoscienza che andrà in scena dal 6 all’8 aprile 2018 e sul quale puoi trovare tutte le informazioni necessarie a questo link. Dopo un mese e mezzo di lavoro voglio raccontarti un po’ di concetti messi in campo per rivedere tutti gli schemi classici dell’ufficio stampa e dirti come farò a coprire l’evento con quello che penso (ma spero sempre di essere smentito) sia il primo ufficio stampa in totalmojo, almeno della storia dell’editoria italiana. Forse non so rispondere in valore asssoluto alla domanda “ Come si fa un ufficio stampa” oggi, ma posso spiegarti quale è la mia personale ricetta.

    Il press office deve dare notizie.

    Ho fatto il giornalista per 30 anni, poi, per fortuna ho smesso. In quella fase della mia vita ho ricevuto 300-400 email al giorno. Di queste sono meno del 30% quelle di cui ho guardato l’oggetto, il 10% quelle che ho letto. Forse meno quelle nelle quali sono riuscito ad arrivare alla fine. In mezzo a questo mare di parole perdute, sono migliaia i comunicati stampa che sono spariti nel nulla.

    Quando ho iniziato il progetto con l’editore Cinzia Tocci ho espresso subito anche a lei il concetto di base sul quale volevo lavorare: il press office deve dare notizie. “Il progetto di Francesco mi è piaciuto subito – ha raccontato la dottoressa Tocci – perché ho compreso velocemente la sua innovatività”. Questo target ha aperto un’interazione più proficua con i colleghi che si sono interessati all’evento che, tra l’altro, raccoglie il meglio della medicina italiana su un tema determinante come l’alimentazione. Io fornisco notizie che arrivano dai contenuti del congresso e risolvo un problema al collega che contatto. Con una notizia in mano il giornalista tende ad ascoltarmi.

    Non faccio comunicati stampa.

    L’ufficio stampa è cambiato e si è aperto alle digital PR. Io ho deciso di fare un po’ di passi in più. Non faccio comunicati stampa, ma ho deciso di affidarmi a una produzione continua di contenuti (distribuita nelle sezioni news dei due siti aziendali e inviabile in modo diretto a chi lo richieda) che crea un rapporto continuo con i media coinvolti e a target per il piano di diffusione. La content production viene direzionata anche sui canali sociali con la creazione di un racconto continuo, con una preminenza sulla pagina Facebook aziendale della casa editrice motivata dal fatto che i principali destinatari della comunicazione (e possibili iscritti al congresso) sono nella fascia di età presente sul social network di Menlo Park.

    Non faccio conferenze stampa.

    Un altro caposaldo del progetto di comunicazione realizzato per la C1V passa dal preservarsi dal dispendio di energie che comporta fare una conferenza stampa. Abbiamo tutti i contenuti, le informazioni, i valori del congresso sulle diverse sezioni del sito. Cosa può aggiungere una conferenza stampa? A proposito: se le conferenze stampa non sono mainstream, quanti colleghi puoi pensare di raccogliere? Quali obiettivi pensi di poter raggiungere? Anche in questo caso la scelta è coraggiosa e può essere recepita in modo critico dall’ambiente “ma se si vuol fare informazione in maniera innovativa – sottolinea la dottoressa Tocci, editore di C1V – bisogna correre il rischio di far diventare il futuro, presente, vincendo le diffidenze ambientali”.

    Il primo live coverage di un evento con 5 iPhone e un iPad Pro.

    La nostra più importante realizzazione sarà nell’ambito della copertura dell’evento. Assieme al collega Fabio Ranfi siamo progettando un evento coperto totalmente con degli smartphone e senza stampare un foglio. La cartella stampa, infatti, sarà un’area privata nel sito del convegno, mentre la copertura dell’evento sarà assicurata da una regia mobile che governerà 3 iPhone da remoto in due diverse posizioni. Si potrà vedere l’interno della sala, ma si offrirà al pubblico un format live su Facebook che racconta il foyer della kermesse senza andare a scoprire troppo di quanto gli iscritti al congresso potranno vedere in esclusiva. Da queste produzioni  verrà generato un flusso di contenuti, i quali saranno posti nell’area riservata per i media in tempo reale, ma anche pubblicati sui canali sociali.

    Sto parlando, quindi, di un impianto innovativo del press office che sfrutta tecnologie per creare un’interazione proficua con i media in avvicinamento e che li serve in modo dedicato durante la manifestazione.

  • Connessione: ecco un altro big issue del mobile journalist

    Connessione: ecco un altro big issue del mobile journalist

    Connessione internet: la velocità adeguata, questa sconosciuta.

    Se vogliamo parlare di efficienza della connessione al world wide web che caratterizza le nostre vite e il nostro lavoro, parliamone. Cercando, però, di non sparare menzogne. Se sei un mobile journalist e lavori in mobilità totale, hai bisogno che attorno a te ci sia una connessione, possibilmente wireless (o cellulare) la quale segua molto fedelmente la velocità del tuo lavoro e lo spostamento dei dati che provochi da un posto all’altro. In Italia abbiamo un combinato disposto di “truffe legalizzate” nelle offerte, di infrastrutture non rispondenti alle necessità e di overload delle celle di comunicazione dati via LTE, quella del cellulare, il quale pone l’effettiva operatività della connessione che i poveretti come me e te hanno a livelli inferiori di quanto viene annunciato dagli operatori.

    La situazione italiana, tra cartelli e truffe legalizzate.

    La rete italiana, va detto, ha un grosso problema ambientale rispetto al suo posizionamento e alla sua efficienza. Di cosa sto parlando? Della composizione orografica del terreno. Si fa troppo rapidamente dalla profonda pianura alle Alpi da 4 mila metri per poter avere una distribuzione omogenea dei segnali di diffusione del traffico dati, sia sottoterra, sia in aria. La seconda problematica è l’impunità. Di cosa sto parlando? Delle compagnie internet che fanno per la connessione prezzi simili, si chiama cartello, ma hanno una cosa esattamente uguale: la tua connessione internet non è mai come ti hanno detto che deve essere.

    Una serie di bugie interminabile.

    Ti promettono fino a un giga (come la Fastweb che ho a casa mia) poi non mantengono nemmeno metà della potenza. Col Wifi di ordinanza, poi, trasmesso da un router che può essere soltanto quello che ti danno in dote, riducono notevolmente la potenza anche sotto i 300 mega è la portanza dei router più performanti. Le altre connessioni sono uguali e costano tutte tra i  26 e i 30 euro mese. Le ADSL ormai non sono utili a lavorare. Inutile prendersi in giro.

    Poi, per esempio, ti sposti in una scuola superiore di San Donà di Piave (a due passi da Venezia) e scopri che per fare una diretta Facebook non c’è nemmeno una linea (chiederla decente è poi chimerico…). Per chiudere con le linee fisse, dimmi se hai mai trovato un posto come si deve per lavorare e mandare le cose quando sei “on the road”.  Poi ti rivelo un’altra cosa per la quale spero di essere smentito. Anche le linee di terra dei dati sono “ridotte” rispetto alla reale potenza erogabile per motivi di doppini o perché i contratti di fibra sono ancora pochi per quel tale doppino cui è attaccata c

    La situazione della connessione cellulare.

    Insomma, il Paese cambia e si riempie di lavoratori mobili come i mojoer e le infrastrutture sono lontanissime da un livello che permetta di lavorare. Quindi? Urgono rimedi... Tanto tempo fa avevo anche pensato a provocare una mappatura autonoma da parte tua e mia con uno sforzo da mettere a fattor comune. Non so se si può fare e non so se vale la pena di affidarsi alle app di reperimento wifi che ci sono, ma sono convinto che era una buona idea. Perché solo chi lavora con il mobile sa quanti dati sposta e come considerare buona o meno una wifi per consigliarla ai colleghi. Però il mondo dei giornalisti e popolato di individualisti e indifferenti. Quindi…

    Il caso dei Giga che spariscono.

    Quindi meglio avere una connessione cellulare, ma anche qui la questione è complicata. Le coperture non riflettono mai la verità, il 4G in posti normalissimi, anche in mezzo a cittadine (rifaccio l’esempio di San Donà perché l’ho vissuto), spesso è un sogno. Bisogna, per forza, avere più di una connessione per non restare a piedi e i pacchetti dati costano e spesso spariscono anche solo per un settaggio di una app che succhia un sacco di dati o chissà quale altro magheggio dei server.

    La scorsa estate i 37 giga che avevo a disposizione nelle mie connessioni (Tre e Vodafone) sparivano in un lampo (tipo 10 giorni). Anche in questo campo il cartello è chiaro (basta guardare i prezzi), ma è chiara anche la scorrettezza che avevo evidenziato qui ( fatturazione a 4 settimane) e che è passata solo perché sono tornati alla tariffazione a mese solare. Con un piccolo problemino: i costi sono rimasti aumentati dell’ 8,6%, un aumento incredibilmente alto rispetto al costo della vita. 

    Io voto per qualcuno che mi garantisca un futuro diverso.

    Chiacchiere a parte, con questa situazione, ai miei consigli va aggiunto un avvertimento. Quando sei in giro a lavorare in mojo ricordati di portare la connessione con te per non restare appeso a quelle lunghe ore che passi guardando il wetransfer che tenta di trasferire il tuo video al capoccia. Io voglio andare a votare, oggi, a votare qualcuno che non differisca gli interventi nel miglioramento dell’infrastruttura. Perché se no, quando arriva il 5 G, noi resteremo fuori dalla società dei Gigabit e il cambiamento volerà via senza di noi.

  • Il mobile journalism è l’Uber del giornalismo? Ecco perché no

    Il mobile journalism è l’Uber del giornalismo? Ecco perché no

    Uberization: la cosa riguarda anche il mojo?

    Dopo la conferenza di Parigi, cui ho partecipato, ho letto e visto articoli che parlano del momento del mobile journalism e ho avvicinato il concetto che il mojo possa essere un Uber del giornalismo. Voglio fare questo ragionamento e proporre una soluzione per spiegare che, a mio avviso, il mobile journalism è quanto di più lontano ci sia dall’ Uber della professione dei media. Insoma la uberization del lavoro non riguarda anche il mojo.

    Eppure sembra il contrario, il mojo sembra Uber

    Conosci il concetto di uberization? Sicuro? E’ un processo che sta riguardando molte professioni, ma parte dal business sviluppato dalla famosissima applicazione che mette in comunicazione gli autisti di vetture con chi ha bisogno di passaggi. Uber è stata una rivoluzione nel mondo del trasporto di persone e anche un terremoto nel mondo del lavoro. Dalla nascita di quella applicazione in poi sono stati molti i campi lavorativi colpiti dalla disintermediazione. Una parentesi: va spiegato anche il termine disintermediazione, perché altrimenti non si capisce un tubo.

    In generale, si parla di disintermediazione per spiegare come, nel processo di sviluppo di un lavoro o della creazione di un  prodotto o servizio, siano stati tolti dei passaggi per merito della tecnologia. In tanti settori, dalla grande distribuzione ai trasporti, dall’ospitalità ai media, sono comparsi nuovi flussi di lavoro e di produzione di ricchezza che hanno tolto passaggi intermedi e portato molto più vicino offerta e domanda di un determinato bene o servizio.

    Nel giornalismo è successo di tutto.

    Nel giornalismo è successo di tutto. Il salto della mediazione giornalistica quando sono comparsi i primi contenuti generati dagli utenti è stato immediato. Dai primi video su Youtube e sui social è stato un attimo considerare il giornalista sorpassato. Qualsiasi possessore di telefonino è in grado di fornire una notizia e qualsiasi medium online è in grado di pubblicarla al volo. In questo nuovo scenario i media si sono ritirati sulla torre d’avorio di una cultura “tv o computer centrica”, mentre gli operatori dell’informazione hanno coltivato l’idea della minaccia dello status quo e del linguaggio “corretto” del video da parte degli aggeggi che hanno trasformato tutti in reporter.

    Ora ci si mette pure il mojo.

    In questo marasma disintermediato ci si mette pure il mobile journalism che è una cultura professionale che vuole ripensare il mestiere collegato ai media come un mestiere da ricodificare con il linguaggio che producono telefonini e tablet. Ho avuto molte esperienze dirette su come viene percepito il mojo dalla generalità dei lavoratori dei media. Viene percepito come un Uber (oddio devo fare tutto da solo) o come un gadget, come un qualcosa in più nel quale rifugiarsi quando non si riesce a fare le cose come si deve. In ogni caso, il mojo è considerato come un linguaggio inferiore e meno qualitativo rispetto al videomaking giornalistico con le attrezzature classiche (parlo di videocamera e computer).

    Ho anche verificato con testimonianze dirette come il mobile journalism non venga percepito come un’esigenza in strutture grosse. Il motivo? Culturale: il mojo non è mainstream perché la preoccupazione principale delle newsroom italiane (e non solo) e quella di autogustificare lo status quo e i meccanismi produttivi che impegnano le redazioni da anni nello stesso modo, con lo stesso linguaggio. Non c’è, in Italia, un medium che produca contenuti giornalistici ed editoriali interamente realizzati con lo smarphone. Il tutto in un mercato che è quello di un popolo intero che vede le informazioni, le notizie, i video, i programmi, insomma, tutto, da un telefonino. Perché? Perché i video sono un linguaggio tv anche sui siti web o nelle app?

    Ecco perché Uber non c’entra.

    Il mobile journalism non è l’uber del giornalismo e ora comincio a spiegare perché. Lo ha anticipato Nick Garnett facendo un ragionamento un po’ diverso da questo in un pezzo che parlava di morte del mojo, cui io ho anche risposto in questo modo. In questo scambio non si parlava del mojo come dell’Uber del giornalismo, ma proprio dell’essenza del mobile journalism che deve sapersi presentare sinceramente e senza necessità di giustificazioni come nuovo giornalismo (e basta). Io non posso permettermi, noi non possiamo permetterci di equiparare il mojo al giornalismo normale in Italia.

    Il mojo italiano deve ancora nascere?

    La cultura del mobile journalism nostrano deve ancora nascere. C’è un passaggio, però, che è molto importante e fa capire in un colpo come il mojo non sia il mezzo ma un linguaggio nuovo. Sì, possiamo anche definirlo come assolutamente disintermediato nei passaggi di produzione perché ormai il mobile journalist è in grado, come un’autista Uber, di fare tutti i passaggi del suo lavoro, fino alla pubblicazione, quindi alla definitiva consegna del proprio prodotto, da solo.

    Però quello che è successo non è stata una uberization del giornalismo, ma un completo smarrimento dello stesso di fronte a un cambiamento di linguaggio. Nick Garnett fa del mobile journalism una fotografia chiara, la quale dovrebbe rasserenare tutti dall’ipotesi di automatizzazione del giornalista. Visto che la tecnologia che ci offre il telefonino è uguale e potentissima per tutti, dice il giornalista della BBC, si può dire che siamo tornati all’anno zero del giornalismo, quello nel quale avevamo tutti in mano la stessa arma. Quale? Un taccuino, una penna, venti pence per fare una telefonata e dettarla al collega dimafonista. Allora abbiamo bisogno di questo:

    The training we need to give now is not how to create the content. We can all create.  There is still a need to explain and ease the editing process – it’s getting easier but the learning curve is a steep one but, more importantly, we have a duty to those who are joining us to explain the nuts and bolts of truth, self-editing, an awareness of journalistic law, of defamation, of libel, of the importance of cultivating contacts, about responsibility and the pre-requisite of desire to uncover the things that people don’t want you to talk about.  We need to be able to tell people what’s happened.

    Il nostro taccuino è il telefono.

    Ecco perché il mobile journalism non è l’Uber del giornalismo. Perché taglierà, come Uber, molti passaggi, ma resta solo un mezzo e un linguaggio nuovo per ricominciare, su mezzi diversi di diffusione, ma ugualmente destinati all’uomo, a raccontare le storie, le notizie, la realtà. Il mobile journalism, quindi, è quanto di più lontano da Uber esista ed è un movimento culturale che sta riportando il giornalismo alla sua essenza, condita solamente da un cambio di oggetto di registrazione e produzione del contenuto tra le mani. Una volta era il taccuino, oggi è il telefono. Ecco, già che ci siamo. Ora che siamo tutti alla pari, ora che abbiamo tutti condizioni simili di partenza, beh, proviamo a vedere chi è davvero bravo a spacciare giornalismo?

  • Ordine dei Giornalisti, Parigi e una nuova visione del mojo

    Ordine dei Giornalisti, Parigi e una nuova visione del mojo

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    Ordine dei Giornalisti: bisogna dare una mano prima di parlare.

    Come giornalista mi vergogno. Anche come internauta italiano mi vergogno. Perfino come uomo del digitale mi vergogno, perché vedo molta ciarlataneria e poca voglia di creare valore aggiunto in questo web che utilizziamo al massimo solo come discarica della nostra frustrazione. Come giornalista e come uomo, però, ho deciso di restare dentro le istituzioni come l’Ordine dei Giornalisti e di aiutare. L’ho fatto, lo rifarò, anche se critico, qualche volta urlo, generalmente non capisco la situazione alla deriva di questa istituzione. Però te lo dico, caro collega, è da vigliacchi proprio criticare l’Ordine, urlare la sua inutilità, sparare sulla categoria senza restare dentro a cercare di cambiare le cose.

    Ho toccato il fondo, poi sono tornato su…

    Nella mia carriera ho toccato il cielo, il fuoco Olimpico, il sogno e l’inferno. Sì, caro, ho toccato il fondo ho mangiato la merda e sono risalito. Ho anche fatto l’imprenditore e capito in che modo vanno le cose. Vanno in un modo che mi ha imposto l’operazione di lasciare tutto e andarmene. Ho visto anche come vanno le cose nell’Ordine dei Giornalisti e ho deciso che devo stare dentro, vicino, accanto. Anche se faccio fatica a pagare la quota, anche se mi fanno incazzare. Lo devo fare per offrire all’Ordine dei Giornalisti tutto l’apporto possibile per migliorare la situazione di questa professione minacciata, in crisi, devastata. Boh, sarà che sono un romantico, uno matto (come dice il Presidente dell’ODG Lombardia Alessandro Galimberti), ma io lo devo fare. Tra l’altro, non so se hai visto, la cosa ha dato i primi frutti.

    La trasferta a Parigi assieme al Presidente Galimberti.

    Con il collega Fabio Benati e grazie all’organizzazione di Video Mobile 2018 abbiamo lavorato per molto tempo all’organizzazione di una trasferta che doveva vedere il Presidente dell’OdG Lombardia Galimberti con me a Parigi a vedere con i suoi occhi la comunità mojo in azione. Innanzitutto devo ringraziare Alessandro per la visione che ha avuto e per il coraggio che ha mostrato esprimendo il forte desiderio di conoscere il mondo dei mobile journalist. Il nostro è stato un giorno pieno di significato, per quello che esso può rappresentare non solo per noi, ma per tutto il movimento. Da Parigi sono tornato con la consapevolezza che il lavoro inizia adesso, se voglio far diventare il progetto di portare il mojo dentro le scuole di giornalismo una realtà. Ti prometto che non mollerò. Credo che non mollerà nemmeno Alessandro Galimberti, il quale, dopo la conferenza parigina parlava così.

    Una nuova visione del mojo

    Il pensiero e le riflessioni del Presidente della Lombardia Alessandro Galimberti sono finite anche sul sito dell’Ordine milanese e su News Italia Live ai link che puoi leggere qui e qui. Il mio pensiero sull’argomento lo conosci da tempo: vado dritto al punto e finché non avrò piena apertura dalle scuole di giornalismo non avrò pace. Non lo faccio solo per me, ma per tutti quelli che vivono il mondo del giornalismo italiano e sono in difficoltà. Il mojo ha fatto risorgere me dalla cenere, può essere un’arma per molti. Ecco perché lo stiamo portando fino alle aule delle università. Cercando anche di avere una nuova visione del mojo, come del nuovo giornalismo di cui la nostra epoca ha bisogno. Indipendentemente da un telefonino.

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  • Is Mobile Journalism dead? A letter to Nick Garnett

    Is Mobile Journalism dead? A letter to Nick Garnett

    [Ti faccio una premessa: mi dispiace, ma devo scrivere questo post in inglese, già, nel mio inglese pieno di errori, per poter rispondere adeguatamente a questo articolo di Nick Garnett, uno dei maestri mondiali del mojo, il quale ha parlato di morte del mobile journalism con una riflessione straordinariamente interessante che ti invito a leggere. Il mobile journalism, però, va trattato con un po’ più di rispetto prima dare la notizia delle esequie che, a mio avviso non sono lontanissime, ma non vanno certamente avvicinate con questi modi.  Mobile journalism is dead? No!

    Mobile journalism id dead? My answer to Nick (and, first of all, thanks for your post)

    Dear Nick,

    first of all my excuses for the bad english that you will see in these lines, but after I read your lines in the blog I’ve heard from my heart the need to answer you. For multiple reasons, but first off all because I am one of those guys that are developing the mobile journalism culture in Italian language and the project is about at the beginning. In my opinion you putted me in a little danger writing what you wrote and now I will explain the reason why.

    The community I met in Paris.

    Thursday 8th of february I was in Paris, invited to attend at La Video Mobile conference, to tell the story about the project of Italian Mojo association and my target to import this culture in Italy, in a hostile country. When I was there, at la Cité Universitaire, I looked the community and I found a different one comparing of that one that was in front of my eyes in Galway at Mojocon 2017. I saw new countries growing,

    I saw african colleagues, I saw the absence of my country, I saw, just to tell you, the non mojo world that tries to become mojo. Reading your words was dangerous in my prespective because I am a mojo guy in a non mojo world and before telling my alumni, my colleagues, my environement that mojo is dead, I have to spread the story that mojo is born.

    Italy is not a democratic country…

    In a country that has old-fashioned market of media, old and devastated market in the journalistic job, in a country that is not a democratic country because journalism is one of the worst paid categories in job market, I can’t have the luxury chance to tell that mojo is dead but I have to carry the mojo disruptive message in the best way that I can’t and then say: Ok, this is the mojo message, but If you can look just a little more you can find that journalism has changed“.

    The Bel Paese situation.

    In Italy there are two communities that are doing a super job in Rome and in Milan. They are trying to spread the message that mojo is something new, peculiar, useful, immediately operative, something that could change careers or help freelance to gain more money from their work because of the easy, technically perfect, peculiar way to product their contents. Can you imagine what will be your announcement to this brand new mojo people??? Listen, Nick I totally agree wth you, but this was not the right way.

    Before announcing the death please allow new mojo countries to come on the field. If not, a lot of people in Italy and other nations will say You see!! I thought it was a geek game, something not serious!. This is not: this is a game changer of my job and a state of mind. Is your sentence that I usually spread to my colleagues.

    Probably the debate is another

    In my modest opinion we have to clarify many things but starting from some others point of view. I try to pose some questions to you and the community, hope someone will answer:

    How can we help the media market to find out profitable business models based on mojo? I had the first answer from this post on medium by Michael Rosenblum.

    How can we clarify what is mojo and what is not mojo? I think, to be clear, that every stuff you make passing, even for one passage, in to a personal computer before publication, is not mojo. And you? What do you think?

    How can we avoid the confusion of putting an overload of technologies on our smartphones to clarify that this (and here I agree with you) is simply a new journalism?

    Nick, thanks: I hope you’ll understand my message.

    Nick I close my post saying that I am very sorry for my horrific English and I absolutely respect your job, the things you made for us and for mojo and our community and our new friendship. But I wrote you something that I hope you will find coming from heart and soul of Italian Mojo, the guy who is trying (with a crew of other pioneers) to give the mojo in Italy see the light. I don’t want that the baby becomes in a while a baby born dead.