Autore: Francesco Facchini

  • Il mobile journalism è l’Uber del giornalismo? Ecco perché no

    Il mobile journalism è l’Uber del giornalismo? Ecco perché no

    Uberization: la cosa riguarda anche il mojo?

    Dopo la conferenza di Parigi, cui ho partecipato, ho letto e visto articoli che parlano del momento del mobile journalism e ho avvicinato il concetto che il mojo possa essere un Uber del giornalismo. Voglio fare questo ragionamento e proporre una soluzione per spiegare che, a mio avviso, il mobile journalism è quanto di più lontano ci sia dall’ Uber della professione dei media. Insoma la uberization del lavoro non riguarda anche il mojo.

    Eppure sembra il contrario, il mojo sembra Uber

    Conosci il concetto di uberization? Sicuro? E’ un processo che sta riguardando molte professioni, ma parte dal business sviluppato dalla famosissima applicazione che mette in comunicazione gli autisti di vetture con chi ha bisogno di passaggi. Uber è stata una rivoluzione nel mondo del trasporto di persone e anche un terremoto nel mondo del lavoro. Dalla nascita di quella applicazione in poi sono stati molti i campi lavorativi colpiti dalla disintermediazione. Una parentesi: va spiegato anche il termine disintermediazione, perché altrimenti non si capisce un tubo.

    In generale, si parla di disintermediazione per spiegare come, nel processo di sviluppo di un lavoro o della creazione di un  prodotto o servizio, siano stati tolti dei passaggi per merito della tecnologia. In tanti settori, dalla grande distribuzione ai trasporti, dall’ospitalità ai media, sono comparsi nuovi flussi di lavoro e di produzione di ricchezza che hanno tolto passaggi intermedi e portato molto più vicino offerta e domanda di un determinato bene o servizio.

    Nel giornalismo è successo di tutto.

    Nel giornalismo è successo di tutto. Il salto della mediazione giornalistica quando sono comparsi i primi contenuti generati dagli utenti è stato immediato. Dai primi video su Youtube e sui social è stato un attimo considerare il giornalista sorpassato. Qualsiasi possessore di telefonino è in grado di fornire una notizia e qualsiasi medium online è in grado di pubblicarla al volo. In questo nuovo scenario i media si sono ritirati sulla torre d’avorio di una cultura “tv o computer centrica”, mentre gli operatori dell’informazione hanno coltivato l’idea della minaccia dello status quo e del linguaggio “corretto” del video da parte degli aggeggi che hanno trasformato tutti in reporter.

    Ora ci si mette pure il mojo.

    In questo marasma disintermediato ci si mette pure il mobile journalism che è una cultura professionale che vuole ripensare il mestiere collegato ai media come un mestiere da ricodificare con il linguaggio che producono telefonini e tablet. Ho avuto molte esperienze dirette su come viene percepito il mojo dalla generalità dei lavoratori dei media. Viene percepito come un Uber (oddio devo fare tutto da solo) o come un gadget, come un qualcosa in più nel quale rifugiarsi quando non si riesce a fare le cose come si deve. In ogni caso, il mojo è considerato come un linguaggio inferiore e meno qualitativo rispetto al videomaking giornalistico con le attrezzature classiche (parlo di videocamera e computer).

    Ho anche verificato con testimonianze dirette come il mobile journalism non venga percepito come un’esigenza in strutture grosse. Il motivo? Culturale: il mojo non è mainstream perché la preoccupazione principale delle newsroom italiane (e non solo) e quella di autogustificare lo status quo e i meccanismi produttivi che impegnano le redazioni da anni nello stesso modo, con lo stesso linguaggio. Non c’è, in Italia, un medium che produca contenuti giornalistici ed editoriali interamente realizzati con lo smarphone. Il tutto in un mercato che è quello di un popolo intero che vede le informazioni, le notizie, i video, i programmi, insomma, tutto, da un telefonino. Perché? Perché i video sono un linguaggio tv anche sui siti web o nelle app?

    Ecco perché Uber non c’entra.

    Il mobile journalism non è l’uber del giornalismo e ora comincio a spiegare perché. Lo ha anticipato Nick Garnett facendo un ragionamento un po’ diverso da questo in un pezzo che parlava di morte del mojo, cui io ho anche risposto in questo modo. In questo scambio non si parlava del mojo come dell’Uber del giornalismo, ma proprio dell’essenza del mobile journalism che deve sapersi presentare sinceramente e senza necessità di giustificazioni come nuovo giornalismo (e basta). Io non posso permettermi, noi non possiamo permetterci di equiparare il mojo al giornalismo normale in Italia.

    Il mojo italiano deve ancora nascere?

    La cultura del mobile journalism nostrano deve ancora nascere. C’è un passaggio, però, che è molto importante e fa capire in un colpo come il mojo non sia il mezzo ma un linguaggio nuovo. Sì, possiamo anche definirlo come assolutamente disintermediato nei passaggi di produzione perché ormai il mobile journalist è in grado, come un’autista Uber, di fare tutti i passaggi del suo lavoro, fino alla pubblicazione, quindi alla definitiva consegna del proprio prodotto, da solo.

    Però quello che è successo non è stata una uberization del giornalismo, ma un completo smarrimento dello stesso di fronte a un cambiamento di linguaggio. Nick Garnett fa del mobile journalism una fotografia chiara, la quale dovrebbe rasserenare tutti dall’ipotesi di automatizzazione del giornalista. Visto che la tecnologia che ci offre il telefonino è uguale e potentissima per tutti, dice il giornalista della BBC, si può dire che siamo tornati all’anno zero del giornalismo, quello nel quale avevamo tutti in mano la stessa arma. Quale? Un taccuino, una penna, venti pence per fare una telefonata e dettarla al collega dimafonista. Allora abbiamo bisogno di questo:

    The training we need to give now is not how to create the content. We can all create.  There is still a need to explain and ease the editing process – it’s getting easier but the learning curve is a steep one but, more importantly, we have a duty to those who are joining us to explain the nuts and bolts of truth, self-editing, an awareness of journalistic law, of defamation, of libel, of the importance of cultivating contacts, about responsibility and the pre-requisite of desire to uncover the things that people don’t want you to talk about.  We need to be able to tell people what’s happened.

    Il nostro taccuino è il telefono.

    Ecco perché il mobile journalism non è l’Uber del giornalismo. Perché taglierà, come Uber, molti passaggi, ma resta solo un mezzo e un linguaggio nuovo per ricominciare, su mezzi diversi di diffusione, ma ugualmente destinati all’uomo, a raccontare le storie, le notizie, la realtà. Il mobile journalism, quindi, è quanto di più lontano da Uber esista ed è un movimento culturale che sta riportando il giornalismo alla sua essenza, condita solamente da un cambio di oggetto di registrazione e produzione del contenuto tra le mani. Una volta era il taccuino, oggi è il telefono. Ecco, già che ci siamo. Ora che siamo tutti alla pari, ora che abbiamo tutti condizioni simili di partenza, beh, proviamo a vedere chi è davvero bravo a spacciare giornalismo?

  • Ordine dei Giornalisti, Parigi e una nuova visione del mojo

    Ordine dei Giornalisti, Parigi e una nuova visione del mojo

    [fusion_builder_container hundred_percent=”no” equal_height_columns=”no” menu_anchor=”” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” class=”” id=”” background_color=”” background_image=”” background_position=”center center” background_repeat=”no-repeat” fade=”no” background_parallax=”none” parallax_speed=”0.3″ video_mp4=”” video_webm=”” video_ogv=”” video_url=”” video_aspect_ratio=”16:9″ video_loop=”yes” video_mute=”yes” overlay_color=”” video_preview_image=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” padding_top=”” padding_bottom=”” padding_left=”” padding_right=””][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ layout=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” border_position=”all” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding_top=”” padding_right=”” padding_bottom=”” padding_left=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” center_content=”no” last=”no” min_height=”” hover_type=”none” link=””][fusion_text]

    Ordine dei Giornalisti: bisogna dare una mano prima di parlare.

    Come giornalista mi vergogno. Anche come internauta italiano mi vergogno. Perfino come uomo del digitale mi vergogno, perché vedo molta ciarlataneria e poca voglia di creare valore aggiunto in questo web che utilizziamo al massimo solo come discarica della nostra frustrazione. Come giornalista e come uomo, però, ho deciso di restare dentro le istituzioni come l’Ordine dei Giornalisti e di aiutare. L’ho fatto, lo rifarò, anche se critico, qualche volta urlo, generalmente non capisco la situazione alla deriva di questa istituzione. Però te lo dico, caro collega, è da vigliacchi proprio criticare l’Ordine, urlare la sua inutilità, sparare sulla categoria senza restare dentro a cercare di cambiare le cose.

    Ho toccato il fondo, poi sono tornato su…

    Nella mia carriera ho toccato il cielo, il fuoco Olimpico, il sogno e l’inferno. Sì, caro, ho toccato il fondo ho mangiato la merda e sono risalito. Ho anche fatto l’imprenditore e capito in che modo vanno le cose. Vanno in un modo che mi ha imposto l’operazione di lasciare tutto e andarmene. Ho visto anche come vanno le cose nell’Ordine dei Giornalisti e ho deciso che devo stare dentro, vicino, accanto. Anche se faccio fatica a pagare la quota, anche se mi fanno incazzare. Lo devo fare per offrire all’Ordine dei Giornalisti tutto l’apporto possibile per migliorare la situazione di questa professione minacciata, in crisi, devastata. Boh, sarà che sono un romantico, uno matto (come dice il Presidente dell’ODG Lombardia Alessandro Galimberti), ma io lo devo fare. Tra l’altro, non so se hai visto, la cosa ha dato i primi frutti.

    La trasferta a Parigi assieme al Presidente Galimberti.

    Con il collega Fabio Benati e grazie all’organizzazione di Video Mobile 2018 abbiamo lavorato per molto tempo all’organizzazione di una trasferta che doveva vedere il Presidente dell’OdG Lombardia Galimberti con me a Parigi a vedere con i suoi occhi la comunità mojo in azione. Innanzitutto devo ringraziare Alessandro per la visione che ha avuto e per il coraggio che ha mostrato esprimendo il forte desiderio di conoscere il mondo dei mobile journalist. Il nostro è stato un giorno pieno di significato, per quello che esso può rappresentare non solo per noi, ma per tutto il movimento. Da Parigi sono tornato con la consapevolezza che il lavoro inizia adesso, se voglio far diventare il progetto di portare il mojo dentro le scuole di giornalismo una realtà. Ti prometto che non mollerò. Credo che non mollerà nemmeno Alessandro Galimberti, il quale, dopo la conferenza parigina parlava così.

    Una nuova visione del mojo

    Il pensiero e le riflessioni del Presidente della Lombardia Alessandro Galimberti sono finite anche sul sito dell’Ordine milanese e su News Italia Live ai link che puoi leggere qui e qui. Il mio pensiero sull’argomento lo conosci da tempo: vado dritto al punto e finché non avrò piena apertura dalle scuole di giornalismo non avrò pace. Non lo faccio solo per me, ma per tutti quelli che vivono il mondo del giornalismo italiano e sono in difficoltà. Il mojo ha fatto risorgere me dalla cenere, può essere un’arma per molti. Ecco perché lo stiamo portando fino alle aule delle università. Cercando anche di avere una nuova visione del mojo, come del nuovo giornalismo di cui la nostra epoca ha bisogno. Indipendentemente da un telefonino.

    [/fusion_text][/fusion_builder_column][/fusion_builder_row][/fusion_builder_container]

  • Is Mobile Journalism dead? A letter to Nick Garnett

    Is Mobile Journalism dead? A letter to Nick Garnett

    [Ti faccio una premessa: mi dispiace, ma devo scrivere questo post in inglese, già, nel mio inglese pieno di errori, per poter rispondere adeguatamente a questo articolo di Nick Garnett, uno dei maestri mondiali del mojo, il quale ha parlato di morte del mobile journalism con una riflessione straordinariamente interessante che ti invito a leggere. Il mobile journalism, però, va trattato con un po’ più di rispetto prima dare la notizia delle esequie che, a mio avviso non sono lontanissime, ma non vanno certamente avvicinate con questi modi.  Mobile journalism is dead? No!

    Mobile journalism id dead? My answer to Nick (and, first of all, thanks for your post)

    Dear Nick,

    first of all my excuses for the bad english that you will see in these lines, but after I read your lines in the blog I’ve heard from my heart the need to answer you. For multiple reasons, but first off all because I am one of those guys that are developing the mobile journalism culture in Italian language and the project is about at the beginning. In my opinion you putted me in a little danger writing what you wrote and now I will explain the reason why.

    The community I met in Paris.

    Thursday 8th of february I was in Paris, invited to attend at La Video Mobile conference, to tell the story about the project of Italian Mojo association and my target to import this culture in Italy, in a hostile country. When I was there, at la Cité Universitaire, I looked the community and I found a different one comparing of that one that was in front of my eyes in Galway at Mojocon 2017. I saw new countries growing,

    I saw african colleagues, I saw the absence of my country, I saw, just to tell you, the non mojo world that tries to become mojo. Reading your words was dangerous in my prespective because I am a mojo guy in a non mojo world and before telling my alumni, my colleagues, my environement that mojo is dead, I have to spread the story that mojo is born.

    Italy is not a democratic country…

    In a country that has old-fashioned market of media, old and devastated market in the journalistic job, in a country that is not a democratic country because journalism is one of the worst paid categories in job market, I can’t have the luxury chance to tell that mojo is dead but I have to carry the mojo disruptive message in the best way that I can’t and then say: Ok, this is the mojo message, but If you can look just a little more you can find that journalism has changed“.

    The Bel Paese situation.

    In Italy there are two communities that are doing a super job in Rome and in Milan. They are trying to spread the message that mojo is something new, peculiar, useful, immediately operative, something that could change careers or help freelance to gain more money from their work because of the easy, technically perfect, peculiar way to product their contents. Can you imagine what will be your announcement to this brand new mojo people??? Listen, Nick I totally agree wth you, but this was not the right way.

    Before announcing the death please allow new mojo countries to come on the field. If not, a lot of people in Italy and other nations will say You see!! I thought it was a geek game, something not serious!. This is not: this is a game changer of my job and a state of mind. Is your sentence that I usually spread to my colleagues.

    Probably the debate is another

    In my modest opinion we have to clarify many things but starting from some others point of view. I try to pose some questions to you and the community, hope someone will answer:

    How can we help the media market to find out profitable business models based on mojo? I had the first answer from this post on medium by Michael Rosenblum.

    How can we clarify what is mojo and what is not mojo? I think, to be clear, that every stuff you make passing, even for one passage, in to a personal computer before publication, is not mojo. And you? What do you think?

    How can we avoid the confusion of putting an overload of technologies on our smartphones to clarify that this (and here I agree with you) is simply a new journalism?

    Nick, thanks: I hope you’ll understand my message.

    Nick I close my post saying that I am very sorry for my horrific English and I absolutely respect your job, the things you made for us and for mojo and our community and our new friendship. But I wrote you something that I hope you will find coming from heart and soul of Italian Mojo, the guy who is trying (with a crew of other pioneers) to give the mojo in Italy see the light. I don’t want that the baby becomes in a while a baby born dead.

  • Prendere l’audio da mixer o da radiomicrofono: ecco come si fa

    Prendere l’audio da mixer o da radiomicrofono: ecco come si fa

    Prendere l’audio da un mixer con lo smartphone: non è un’impresa.

    Dico spesso nei miei corsi: il 90% di un buon video è l’audio. In questo blog hai, molto probabilmente, visto riferimenti a microfoni per smartphone (come questo) o sentito parlare, in generale, di hardware per la registrazione dell’audio con il telefonino o il tablet. Il mondo del mobile journalism, però, non si limita a questo e regala anche la possibilità di prendere l’audio da un mixer o da un radio microfono normale. Se pensi che sia un’impresa ti sbagli, ma devi comunque stare attento a quello che fai. Ecco perché…

    Ti manca solo un oggetto.

    Già, non ti manca molto. Ti manca solo un oggetto per creare l’interazione giusta tra una fonte audio che esce con un cavo xrl e il tuo telefono che ha un jack 3,5 oppure, addirittura una lightning. L’oggetto che ti manca è un pre-amplificatore, che per prendere l’audio da un xrl è un apparecchio determinante. Il segnale che arriva da quei cavi, infatti, è amplificato e va ridirezionato verso la ricezione audio del device che usi.

    Il migliore su piazza è senza dubbio l’ultimo nato della IK Multimedia, sto parlando dell’ IRig Pre Hd, una device che regola molto fedelmente l’entrata dell’audio nel telefono e che dispone della phantom, del controllo del gain e di un sistema a led che cambia colore se va in distorsione. Per farti vedere i facilissimi passaggi di montaggio e farti capire la resa e la differenza del suono, davvero notevole, ho fatto una breve diretta ieri sulla fan page che puoi vedere qui sotto. I procedimenti ci sono tutti e la resa è ottimale e adeguatamente controllata (e controllabile).

    Un piccolo consiglio ulteriore.

    Per prendere l’audio da mixer è un’operazione che fai molto spesso se sei un giornalista che fa news e deve andare a una conferenza stampa. Ascolta uno stupido, come diceva mio padre: ti serve anche questo qui, un signor cavo molto lungo. Con questo sarà affrontabile il posizionamento in qualsiasi sala più vicino al tavolo della conferenza stampa rispetto agli altri colleghi, magari laterale o magari seduto in prima fila tenendo il telefono basso per non impallare i colleghi.

  • Switcher Studio una app che regala un mercato

    Switcher Studio una app che regala un mercato

    Switcher Studio: le mani sopra mi fanno pensare.

    Sono antipatico, non seguo costumi, abbatto i luoghi comuni, rompo indugi, diplomazie, modi, etichette, qualifiche. Non so se sono un giornalista, ma mi sento un giornalista. Sono un producer, uno che attraversa qualsiasi mezzo e comunica, racconta, parla, scrive, riprende. Guardo il mondo del giornalismo e mi metto a pensare spesso che sono fuori posto.

    Succede ogni volta che cambio (e in questo periodo basta guardarmi negli occhi per capire che cambio proprio velocemente), ma anche ogni volta che metto le mani su uno strumento nuovo o su una app nuova.  Con Switcher Studio è stato così: mi sono sentito fuori posto e ho cominciato a studiarla, a metterci le mani sopra e a pensare..

    Switcher Studio è solo un modo per essere diversi.

    Con questa applicazione puoi proporre diversi tipi di prodotti e andare a piazzarli sul mercato, ma soprattutto, con le occasioni che Swticher Studio regala, puoi essere diverso tu. Se sei un videomaker o un giornalista in senso classico, sederti dietro un iPad per governare due iPhone e riprendere un evento con un buon audio, è soltanto un modo diverso di produrre quello che hai sempre fatto e di farlo in diretta.

    Il resto deve essere un processo che ti fa cambiare abitudini, clienti, modi, marciapiedi, gruppi, ambienti in cui ti proponi come giornalista in maniera moderna. Già, perché forse il giornalista, quel giornalista che hai in testa, è una figura che non esiste più. Ora c’è il producer. Uno che fa video, sì, ma anche testi, foto o audio. Uno che governa o prova dirette live di Facebook, le titola, le graficizza, le rende professionali e, soprattutto, le vende. Ti fa schifo la prospettiva? A me no e visto che ci sono posso dirti che sto per far entrare le dirette Facebook formattate anche nel mio nuovo ufficio stampa di cui ho scritto qui.

    Scopri una app? Pensa se è un prodotto.

    Mii preme sottolineare una cosa: il live è un prodotto, ma i prodotti sono potenzialmente infiniti. Lo dico perché possono essere l’incrocio tra la tua professionalità, le app e gli strumenti nuovi che hai e l’esigenza del cliente. Per cominciare a venderli basta fare due cose: la prima è smettere di essere come sei stato. E’ stato bello, ma quel mondo che hai in testa è morto. La seconda è che a ogni app che scopri, puoi scoprire anche un prodotto. Pensaci.

  • Il furto della privacy? Lo permettiamo ogni giorno dal telefono

    Il furto della privacy? Lo permettiamo ogni giorno dal telefono

    Furto della privacy e dei dati: glielo permettiamo noi.

    Ti sembra una cosa strana? Guarda, ti consiglio di darti una letta a questo pezzo, una guardata al video e di prendere tutto il tempo necessario per approfondire la cosa. Nel frattempo ti do una mano grazie a un incontro che ho fatto qualche giorno fa a un convegno di un’azienda. L’argomento era il nuovo regolamento GDPR che riadeguerà in seno alle aziende la gestione dei dati della privacy e di tutto quanto gli ruota attorno. A un certo punto ha preso parola un avvocato di Vignola, Rossella Masetti, il cui sito è questo,  e ha parlato di dati personali e di privacy  come del più importante e rilevante, anche economicamente, bene immateriale della nostra epoca.

    Ho subito pensato a quanto ci fottono della nostra vita.

    Mentre la sentivo parlare pensavo al mio telefonino e alla pazzesca pervasivita del collezionamento dei dati personali che fa ogni luridissima app, perpetrandoci, col nostro ignaro consenso, il furto della privacy con cadenza giornaliera. Sono subito volato a presentarmi e l’ho fermata per farla parlare di questo e della sua ricaduta sulla nostra vita e sui nostri figli.  Già, perché se sei un genitore digitale deiv essere ben conscio di questo: ti fottono la vita (e quella di tuo figlio che gli interessa molto di più) con il tuo consenso. O, perlomeno, con il tuo silenzio. Ecco la choccante verità dell’avvocato Masetti.

    Adesso, però, non chiudiamoci in casa col telefonino spento.

    Non serve (tanto saresti tracciabile anche lì). Devi piuttosto fare attenzione a quello che stai facendo e a quello che farai quando scarichi una app. Siccome, tuttavia, il furto della privacy è praticamente inevitabile, ti rimando al link del pezzo che avevo scritto qualche tempo fa sul bike sharing a rilascio libero. Il pensiero era questo: se queste app ti perpetrano il furto della privacy senza manco chiederti il consenso e ci fanno i miliardi, perché non possiamo condividere il risultato economico? Perché, detta da poveretto, non mi cacci la lira per questo furto legalizzato della privacy? D’altronde l’avvocato Masetti sostiene, con grande senso, che i dati personali sono il bene immateriale più prezioso che hai. Vuoi cederlo? Almeno vendilo. E bene.