Autore: Francesco Facchini

  • Il montaggio lineare: linguaggio di vita e di mojo

    Il montaggio lineare: linguaggio di vita e di mojo

    [fusion_builder_container hundred_percent=”no” equal_height_columns=”no” menu_anchor=”” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” class=”” id=”” background_color=”” background_image=”” background_position=”center center” background_repeat=”no-repeat” fade=”no” background_parallax=”none” parallax_speed=”0.3″ video_mp4=”” video_webm=”” video_ogv=”” video_url=”” video_aspect_ratio=”16:9″ video_loop=”yes” video_mute=”yes” overlay_color=”” video_preview_image=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” padding_top=”” padding_bottom=”” padding_left=”” padding_right=””][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ layout=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” border_position=”all” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding_top=”” padding_right=”” padding_bottom=”” padding_left=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” center_content=”no” last=”no” min_height=”” hover_type=”none” link=””][fusion_text]

    Montaggio Lineare, questo sconosciuto.

    Dai, te lo confesso, di montaggio lineare ne so poco. Però ci sto mettendo mano e mi rendo conto che è un metodo che produce un linguaggio visuale, produce dei video, che sono come lo sguardo che i nostri occhi danno alla vita reale. Per questo motivo è molto mojo ed è molto importante avere padronanza di tutti i fondamentali del montaggio lineare e dei punti di vista che questo costringe a coltivare. Il montaggio lineare è la realtà raccontata con la stessa successione cronologica e non può sfuggire da questo senso di marcia temporale e dall’uso dei tagli e dell’audio direttamente conseguente a chiudere lo sviluppo nello spazio e nel tempo di un’azione.

    E’ il più importante linguaggio di editing per il mobile journalism.

    Certo, non è il linguaggio visuale che abbiamo imparato a conoscere nelle redazioni o in tv dove l’accompagnamento con le coperture di voci a supporto della storia ha fatto allontanare i video dal logico susseguirsi di fatti e di eventi. In questo senso si vede ben poco nei siti di informazione italiani o nelle tv che non sia NON lineare. Anzi, il montaggio lineare viene considerato come qualcosa di inferiore rispetto al montaggio asincrono, quasi di basico. Eh, c’è un problemino, però: il montaggio lineare è il montaggio con il quale ci scorre davanti la vita. Quindi?

    Roba da totalmojo.

    E’ con il montaggio lineare che crei storie che abbiano un ritmo parallelo alla vita che ci piomba nello smartphone. I video così sono i pezzi del nostro racconto, delle notizie, del nostro modo di essere storyteller che, poi, devono essere piazzati sul mercato. Il montaggio lineare e quel vedere e vivere anche la fase di produzione delle immagini come un flusso, magari alternato tra campi stretti e larghi, nel quale io, per raccontare una storia devo solo seguirla e fare due cose. Sapere quando schiacciare “Rec”, sapere quando schiacciare “Stop”. Il montaggio lineare, di conseguenza è l’apriscatole per aprire il vaso di pandora del proprio stile di montaggio. Se non ti confronti con quello non sei ancora dentro il mondo del mobile journalism fino al collo.

    Il montaggio lineare ti regala due possibilità.

    Il montaggio lineare ti regala sue possibilità. La prima è quella di prepararti e, come ho già scritto in questo post qui, la cosa è molto importante se sei un mojoer. La facilità della traccia, specialmente se a sviluppo cronologico, ti permette di sapere bene, quando sei sul campol, cosa devi riprendere e come. La seconda è che il montaggio lineare ti dona la possibilità di inciampare….

    Già sto parlando proprio di quello: imbattersi, scontrarti. Solo se stai seguendo un montaggio lineare e sei su una strada di Bristol, in Inghilterra, nella quale stai raccontando la storia di un quartiere che chiude una vita per far giocare i bambini una volta alla settimana, puoi accorgerti con facilità di questo, di quello di cui si è accorto il genio del mobile journalist Dougal Shaw. Preciso che lui non ha fatto un montaggio lineare, ma nel servizio precedente a quello che vedi, che ha provocato questo, la linearità della sua storia ha fatto in modo che potesse prendersi anche il tempo per ascoltare, col cuore e con le immagini, quest’altra.

    Sono praticamente certo (e mi baso su una trentina d’anni di lavoro scarsi) che un montaggio non lineare avrebbe tenuto occupata la testa di Dousgal in modo sufficiente a fargli ciccare questa storia. O forse avrebbe, di fatto complicato la sua possibilità.

    Lineare come la vita, impreciso come i nostri giorni.

    Ho cominciato (dovresti farlo anche tu) a pensare che il montaggio classico imparato e anche insegnato ai mojoer in questo primo anno vada completamente ripensato. Io devo ricominciare da zero a pensare al montaggio. Il nostro linguaggio video è quello del film, ma quello che vediamo non è un film, è la realtà. Quindi ragazzo, te lo dico: mi sono sbagliato…

    Nel cinema degli anni ’50 si faceva così.

    Dai, no, scherzi a parte, il montaggio asincrono e gli strumenti per farlo in mobile che ho insegnato in questo anno passato sono gli strumenti principali con cui lavorano i colleghi giornalisti e con cui rispondono alle esigenze dei loro clienti. Mi sono, però messo in discussione quando ho visto come sta cambiando il nostro modo di fruire certi contenuti, anche di base.

    Li vediamo dal cellulare e non abbiamo bisogno di essere presi per il culo da una replica in piccolo del linguaggio video da tg. Abbiamo bisogno di verità. Abbiamo bisogno di quella linearità che vediamo con gli occhi tutti i giorni e quella imprecisione che nei nostri giorni è la normalità. Con l’overload di comunicazione che riceviamo, infatti, la vita di sottopone a continui riadattamenti e a modificazioni dei programmi. Inciampi, imprevisti e sorprese che solo la cronologicità del racconto video con montaggio lineare può regalare. D’altronde, se ci pensi, anche con il cinema era così, quando si lavorava in pellicola. Monta così. d’ora in poi: lineare e impreciso. Nei prossimi post ti dirò qualcosa anche sugli strumenti.

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  • Il lato B del mobile journalism: la solitudine

    Il lato B del mobile journalism: la solitudine

    Lato B: questa volta ne parlo male…

    Sai, mi sono accorto stamani che non parlo mai male del mobile journalism e della mobile content creation. Ecco, lo faccio ora, dopo che sono andato da un cliente rimediando una sontuosa figura di merda e non per colpa mia. Per fortuna il cliente è una persona a me amica e la cosa è passata via senza danni. Tuttavia proprio in questo periodo, che ricominciano le attività di Italianmojo, che il movimento cresce, che l’attenzione sulla community italiana sta per accendersi anche dall’estero, ho deciso di parlar male del mio amato mojo.

    Il grosso dilemma si chiama…

    Ci ho pensato e ho pensato all’effetto boomerang sulla materia che il mio pezzetto che stai leggendo può avere. Poi ho anche pensato ai mojo enthusiasts che ho conosciuto, alla passione dei miei corsisti, dei miei studenti, delle istituzioni e degli ambienti che sono venuti a contatto con la mobile content creation e ho pensato che una bella sproloquiata in negativo sulla mobile content creation andava fatta. Anche perché è una materia così bella, nuova, chiara e semplice che se non avesse un lato negativo, un lato b, sarebbe finta. Vuoi sapere qual è quel suo maledetto lato negativo? E’ la solitudine. Già, la solitudine maledetta del mojoer.

    Non mi riferisco alla solitudine mentre lavori, ma a ben altro.

    Quando parlo di solitudine del mobile journalist non mi riferisco alla solitudine del lavoro. D’altronde il mio mobile è talmente semplice e basico che quando sono in produzione mi sento davvero nel mood di chi crea, senza badare a tecnicismi o alla “pesantezza” operativa delle macchine. Pensa che l’ultimo lavoro l’ho fatto con due cellulari contemporaneamente per campo e controcampo…

    Mi riferisco a situazioni come la figura di merda che ho appena vissuto. Vado a trovare il cliente, un importante studio di commercialista di Milano, per la realizzazione di alcuni video. Mi preparo, monto, faccio brigo, disfo e il risultato è una serie di video con una valanga di problemi di frequenze, di muto, di salti. Ecco, quello è il punto: la solitudine del mobile journalist inizia lì.

    Ti salva soltanto una cosa che io non ho: la logica.

    In quelle situazioni non sai che fare e non puoi nemmeno dare una giustificazione sensata, se non con dovizia di particolari, al cliente. Ti salva soltanto la capacità di risalire indietro nel tempo e ripensare che cosa è successo. Vuoi sapere cosa è successo? La mia app di filming aveva perso, chissà come mai, tutti i settaggi corretti. Non contenta, faceva fatica a riconoscere (cosa che riesce sempre molto bene) il microfono digitale.

    Risultato: un disastro. Niente di perso se non qualche ora di lavoro, ma non ti dico le prove, le mail, le chiacchierate con i colleghi di ogni parte del mondo. Motivo? A quanto si è capito il motivo è stato l’ultimo aggiornamento di iOS 11, quello anti Spectre, per intenderci.

    Il grosso grasso problemone mojo

    In sintesi, qual è il problema? E’ questo: questa cultura sta beneficiando del genio di grandi sviluppatori di software e di hardware che stanno rivoluzionando mercato e modi di fare content creation. Questi sviluppatori, tuttavia, vanno sempre un pochino oltre il limite delle macchine, ma soprattutto si scontrano con i limiti dei sistemi operativi del mondo di cui fanno parte. A ogni rilascio di sistema nuovo, quindi, le applicazioni che girano sul tuo telefono devono essere adeguate, riprogettate, upgradate (che parola di merda…). Ecco il grosso grasso problemone mojo: quando finisci nel contrasto tra l’ultimo aggiornamento del tuo OS e la tua app magari non ancora messa alla pari, succedono i disastri. E ti senti solo.

    Se sei italiano la solitudine è doppia.

    Ti senti solo soprattutto se sei italiano e stai lottando per la crescita di una nuova cultura del lavoro giornalistico. Già, perché la community ancora riceve molto e poca interfaccia regala, quando c’è da discutere un problema.

    Per fortuna i colleghi stranieri, gli amici delle App, i colleghi delle aziende, non sono italiani e condividono. Specialmente quando qualcuno è nei guai: lo sa bene il mio amico Bill Booz di Somerset in Pennsylvania con cui h chiacchierato perché aveva anche lui problemi similari.

    Oh, ti basta come lato b? Ecco, mi sono sforzato di parlarne male (infatti anche in occasioni come queste mi diverto come un pazzo per trovare rimedi): adesso basta.

     

  • La sfida : un press office in “total mojo” per C1V Edizioni

    La sfida : un press office in “total mojo” per C1V Edizioni

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    Press office mojo: cambia il linguaggio dell’ufficio stampa.

    Da poche ore ho raggiunto un accordo di collaborazione che mi permetterà di partecipare a una grande sfida. Di cosa sto parlando? Da poche ore sono diventato il capo delle relazioni esterne multimediali (il capo del press office, quindi) della casa editrice romana C1V Edizioni, fenomeno interessante nel panorama editoriale italiano.

    Qual è la sfida? Quella che mi ha dato l’editore Cinzia Tocci firmando il contratto domenica scorsa, vale a dire quella di cambiare totalmente il linguaggio dell’ufficio stampa e di farlo con delle tecniche #totalmojo. Fino al 15 di aprile, quindi, sarò il punto di riferimento di questa azienda editoriale che si trasforma, nel nome delle ultime tendenze, in una piccola media company che produrrà contenuti visuali per creare interesse e ingaggio con i propri lettori e i propri clienti.

    L’obiettivo? Creare valore e promuovere un grande evento.

    Questo accordo è finalizzato alla cura del press office della casa editrice, ma soprattutto del suo evento più importante. Di cosa si tratta? Del secondo Congresso Nazionale di Medicina e Pseudoscienza che avrà luogo a Roma, dal 6 all’8 aprile 2018.  Il tema dell’alimentazione sarà il centro di un progetto editoriale che svilupperemo e che dovrà portare all’attenzione dei media l’evento e i suoi messaggi, ma anche i protagonisti stessi della manifestazione che intreccerà diversi tipi di comunicazione scientifica accomunati dall’obiettivo del combattere la Pseudoscienza.

    “Dal piano presentatomi – mi ha raccontato l’editore Cinzia Tocci – ho subito compreso l’innovatività delle tecniche e del modus operandi, ma anche la peculiarità del linguaggio. Non è difficile pensare, infatti, che la nostra azienda, con questa possibilità di produrre contenuti con smartphone e tablet, arriverà più vicina alle storie, ai valori, alle persone. In una sola frase, arriverà più vicina ai nostri lettori e a coloro che seguono i nostri eventi. Per comunicare, senza finzioni, la nostra divulgazione scientifica”.

    Per seguire l’evento e la casa editrice ti puoi rivolgere, oltre ai già citati siti, anche alla pagina Facebook della C1V Edizioni e al canale Twitter. Naturalmente questo rappresenta anche un importante caso di studio per questa nuova filosofia di lavoro, perfettamente adattabile al mondo delle aziende, della mobile content creation. Seguimi e ne scoprirai delle belle.

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  • Montaggio con lo smartphone: Luma Fusion ci ha fatto superare i PC

    Montaggio con lo smartphone: Luma Fusion ci ha fatto superare i PC

    Montaggio con lo smartphone: ora ci divertiamo davvero.

    Mi viene da ridere perché un mondo intero di professionisti del visual, da giornalisti a videomaker, da montatori a tecnici, fino ai registi di chiara fama, non ha ancora compreso che il montaggio con lo smartphone è a un livello di qualità altissimo. In queste ore, poi, ha fatto un ulteriore passo in avanti e si è posizionato, a mio avviso, davanti al montaggio con il personal computer e le sue più evolute suite di montaggio. Non ci crederai, ma è così. E io lo avevo già scritto mesi fa.

    Quando parlavo di worflow, parlavo di questo…

    Nel mese di settembre del 2017, dall’IBC di Amsterdam, ho scritto del cambiamento che le due principali applicazioni di montaggio con lo smartphone stavano per fare. Se vuoi andare a riprenderti l’articolo puoi cliccare qui. Ebbene, da alcune ore, Luma Fusion ha rilasciato l’aggiornamento 1.5 che cambia per sempre l’approccio con l’editing sul telefonino e sul tablet.

    Qui sotto puoi trovare un video con i miglioramenti rilasciati nella nuova versione, ma è molto importante, visto che ti sto parlando di flusso di lavoro e di montaggio con lo smartphone, fare caso a questa nuova caratteristica che si nota nelle spiegazioni dell’App Store sulla creatura di Chris Demiris e Terri Morgan. Di cosa sto parlando? Di questo:”Si può esportare filmati renderizzati e archivi di progetto nella library dell’applicazione, in modo da poterli poi prendere se s vogliono effettuare passaggi di device, di hardware, mentre si monta”.

    Questo cambia proprio tutto.

    E’ arrivato, quindi, il momento in cui dal campo possiamo impostare anche il montaggio delle storie per poi passare progetto e file annessi in redazione per fare in modo che il processo sia completato dalla newsroom senza perdere un file e avendo il semilavorato aperto da chiudere, magari anche solo con la titolazione o con qualche taglio finale per farlo entrare nei format di un tg o di un rotocalco. Si può, quindi, lavorare in esterna e inviare non solo il video chiuso (che reputo la soluzione migliore sempre), ma anche il video aperto, per dare la chiusura a qualcun altro, comodamente seduto sulla scrivania.

  • Facebook: cambia algoritmo, meno news e più mobile journalism

    Facebook: cambia algoritmo, meno news e più mobile journalism

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    Facebook cambia algoritmo: una splendida notizia (anche se tutti pensano il contrario)

    Hai letto bene, che Facebook cambi algoritmo e lo faccia privilegiando il giro degli amici rispetto ai contenuti che arrivano da entità seconde o terze rispetto a noi, è una notizia pazzesca in positivo che, a una prima lettura, suona come il de profundis del mondo dei media che si sono occupati di eseguire reiterate genuflessioni al gigante di Menlo Park in questi periodi. Effettivamente son qui che picchio sui tasti e ridacchio pensando ai numeri di traffico dei siti e alla loro drammatica contrazione nei prossimi giorni, almeno per quanto riguarda l’arrivo di click regalato dagli amici di Faccialibro con copiosa generosità in questi anni. Mi vien da dire? Cosa faranno ora i media? Si, voglio proprio chiedermelo, ora che Facebook gli ha dato il benservito.

    I media devono svegliarsi.

    Ecco, adesso che non c’è mamma Facebook voglio davvero capire dove minchia vanno a parare siti, giornali e televisioni di mezzo mondo, dopo aver fatto traffico senza sporcarsi le mani per farlo. Penso che sarà il caso, per loro, di ricominciare a fare prodotti editoriali di qualità e sostenibili, format profondi, innovativi, fatti di esperienza sul web, se appena, appena vogliono riprendersi un pubblico. Lo penso e lo dico perché se non sarà così, Facebook razzierà il mercato dell’utente “permanente” ancora di più chiudendo i suoi due miliardi di avventori nelle bolle autoriferite delle loro cerchie. Con l’obiettivo di non farli più uscire da li. Ti ricordo (e l’ho scritto nell’articolo che puoi leggere qui) che Facebook sta lanciando Watch e sta entrando nel mercato degli hardware per la visione dei suoi contenuti.

    La più grande media company del mondo.

    Facebook è il più grande spacciatore di video del mondo ed è la più grande media company del mondo. Adesso vuole i suoi adepti intenti a stare seduti a passare i pop corn ai parenti, mentre ti propone quello che dice lei: vale a dire chi paga o chi fa parte del circo scelto dal giro Watch o simili. Vedrai che andrà così. Siccome la più grande media company del mondo è anche una delle più ricche aziende del pianeta, chi si stupisce del movimento di questo algoritmo, le cui nuove funzionalità sono sotto test dallo scorso ottobre, è una verginella che scende dalle montagne del sapone. Sono disposto a rischiare il mio braccio sinistro che andrà così, ma ci sono un paio di risvolti molto interessanti.

    Tanti giornalisti, pochi editori.

    Boh, non so se l’ho detto o l’ho scritto qui su queste colonne, ma lo riscrivo. Sogno un mondo pieno di giornalisti e senza editori. Ecco, con la svolta di Facebook più dedito alle sue bolle (echo chambers, per dirla come quelli fighi), ci sarà lavoro per i mobile journalist come mai ce n’è stato prima. Anzi potrebbe esserci proprio una nuova categoria di giornalisti, vale a dire quella che dovrà interpretare, dentro queste community, il ruolo di chi deve far comprendere la realtà. Mi spiego meglio e dico che i giornalisti avranno il compito sempre più importante, nelle loro comunità di Facebook, di rappresentare la corretta informazione e di invitare a uscire dalle bolle. Come? Con la conversazione. Estraggo due passaggi di un pezzo di Jeff Jarvis su Medium. Molto interessanti:

    I wish that Facebook would work with journalists to help them learn how to use Facebook natively to inform the public conversation where and when it occurs. Until now, Facebook has tried to suck up to media companies (and by extension politicians) by providing distribution and monetization opportunties through Instant Articles and video. Oh, well. So much for that. Now I want to see Facebook help news media make sharable journalism and help them make money through that. But I worry that news organizations will be gun-shy of even trying, sans rug.

    Il giornalismo è conversazione, te lo ricordi?

    Questo il primo contributo di Jarvis, preso da un articolo che riporta in auge il fatto che il giornalismo, in questo momento, è diventato una conversazione. Allora dobbiamo conversare. Se poi Facebook dice che abbiamo a disposizione le nostre bolle per farlo e per ingenerare una nuova cultura, beh, allora abbiamo anche il campo di conversazione. Già, perché il lavoro del giornalista, proprio nella definizione di Jarvis, esce un filo diverso dal consueto cliche che eri abituato a vedere finora. Ecco la definizione, adattissima per i mojoer stante l’agilità dello strumento.

    My new definition of journalism: convening communities into civil, informed, and productive conversation, reducing polarization and building trust through helping citizens find common ground in facts and understanding.

    Si possono anche fare affari.

    Se il nostro nuovo lavoro sarà questo, beh allora posso dire che il nuovo Facebook ci mette nelle migliori condizioni per poterlo fare e per farci anche qualche soldino onestamente. La creazione delle comunity attorno a noi sarà molto importante e ci sono i metodi per renderla profittevole. Con il mobile journalism, poi, ci sarà da trottare per raccontare le storie di chi non ha voce.

    Faccio un ultimo passaggio prima di chiudere. Si paventano scenari gotici dell’aumento dell’importanza delle fake news, nonostante la riduzione del numero che provocherà il cambiamento dell’algoritmo. Contro questo c’è solo la cultura, ma anche l’idea di poter prendere, finalmente, sul serio quello che è un social network come quello di Menlo Park. Un moltiplicatore di relazioni che crea valore se gli si consegna valore.

    Solo le aziende sveglie sopravviveranno.

    I miei amici agenti immobiliari spero lo comprendano presto visto che proprio nelle loro cerchie, piene di legami deboli, c’è il cliente che gli darà un mandato a vendere. E con un video lo farà più voltentieri.

    Dico questo come spero anche che le aziende comprendano presto che se Facebook non è più gratuito loro dovranno imparare a dialogare con i loro clienti in modo diretto scambiando valore e calore. Già, perché solo così si è visti senza aggiungere denaro. Altrimenti si tace e si paga: Facebook non è una onlus. In questa ottica per i mojoer brand journalist c’è trippa. Tanta.

    Concludo con una frase del Fatto Quotidiano, strepitosa:

    L’ultimo aggiornamento del News Feed ci ricorda che i social network per sopravvivere devono restare luoghi di conversazione tra persone. Le aziende che riusciranno a umanizzarsi si inseriranno in questa conversazione per trarne i frutti, senza disturbare. Tutte le altre resteranno a piangere sui cambiamenti di Facebook, dimenticando che in casa degli altri non si comanda. Al massimo si ringrazia per l’ospitalità

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  • Business model e mobile journalism: alcuni consigli utili

    Business model e mobile journalism: alcuni consigli utili

    Business model: il grande boh del giornalismo e dei giornalisti.

    Me lo chiedono sempre, probabilmente me lo hai chiesto anche tu se ci conosciamo di persona. Cosa? La domanda suona più o meno così:

    “Si, ok, mojo, tutto fico, ma come ci campo?”

    Ecco, parlare di business model ai giornalisti e a chi fa professioni visuali come la mia, sembra una sorta di delirio. Però te lo dico: è la domanda che tutti, specialmente i freelance, dovrebbero farsi ogni mattina prima di inventarsi qualcosa per lavorare e pagare le bollette e la spesa. In questo articolo provo a suggerirti consigli utili e notizie che ti facciano collegare i punti tra le cose per creare proposte di servizi e di prodotti che possano rappresentare un business model sostenibile, un modo di lavorare che ti faccia guadagnare.

    Cambia modo di pensare.

    Ricordo molto bene quando facevo il collaboratore di giornali e il mio capo mi chiamava dicendo “Hai 40 righe”. Ora mi viene da dirti che se sei in quella situazione dovresti scappare a gambe levate. La prima cosa che devi fare per avere un business model vincente nella tua attività giornalistica, quindi, è cambiare il modo in cui pensi il tuo lavoro e il modo in cui lo fai. Devi andare a cercare i soldi perché solo con quelli puoi andare avanti e devi farlo scardinando i comuni binari dell’editoria che hanno portato a situazioni devastanti come quella che puoi leggere qui, egregiamente affrontata dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia nella persona del Presidente Alessandro Galimberti.  Per mettere in atto il tuo “follow” the money devi smettere di pensarti come un giornalista e basta e iniziare a pensarti come un produttore di contenuti.

    Il cliente di un giornalista? Chiunque.

    Se smetti di pensarti come qualcuno che deve lavorare in un Ufficio Stampa-Tv-Giornale-Sito-Ente-Istituzione e cominci a pensarti come qualcuno che può lavorare per chiunque (viste le rivoluzioni avvenute con il marketing di contenuto e con il giornalismo di brand), perfino per i tuoi colleghi o per chiunque voglia avere una corretta immagine pubblica. Pensati come qualcuno che possa fare da facilitatore o da produttore, da insegnante o normalizzatore, da creatore di progetti editoriali a scrittore, da videomaker ad audiomaker.

    Nelle mie fatture dello scorso anno ci sono servizi di consulenza editoriale per persone fisiche e corsi di formazione, produzioni di brand journalism e realizzazioni video per campagne di crowdfunding. Ti può bastare come esempio? Il tuo business model deve essere basato su due concetti: o vendi la tua unicità o vendi servizi che puoi e sai fare bene in mercati che non sono il tuo o in modi non classici di prendere il denaro da qualche parte. Come? Pensaci. Pensa chi può avere bisogno dei tuoi servizi o chi (o cosa) possa darti talmente tanto seguito da rappresentare un driver di traffico tale che le tue piattaforme possano generare guadagni o le tue pubblicazioni essere vendute attraverso qualche servizio di direct publishing.

    Le piattaforme di pubblicazione? Creano per te dei business model.

    Già molto tempo fa avevo parlato del mondo del self publishing in questo articolo nel quale c’è una ottima intervista a Giulia Poli, al tempo (e forse ancora) Head of Kindle Content per l’Italia. Quel tipo di business model, quello che arriva dal pensarsi come un editore piccolissimo, è uno di quelli che sta iniziando a funzionare e funzionerà sempre di più. Ce ne sono molti altri e molti passano anche dagli stessi meccanismi che hanno arricchito gli Youtuber. Se ce la fanno loro, anche la tua professionalità può dare al tuo pubblico prodotti per i quali vale la pena pagare. Le piattaforme di pubblicazione, quindi, creano per te dei business model interessanti. Io, per esempio, ho aperto proprio in questi minuti Gumroad, che è una piattaforma che facilita la distribuzione di contenuti a pagamento verso il tuo pubblico. Il consiglio che ti do, tuttavia, è quello di essere tu protagonista nella ricerca dei canali che ti fanno creare il tuo business model sostenibile e duraturo. Altrimenti resterai sempre in difetto in un atteggiamento fondamentale della professione, specialmente ora. Di cosa sto parlando? Del cambiamento continuo sul quale devi “basare” la tua professionalità e il tuo lavoro di ogni giorno.

    Guarda fuori, guarda al mondo.

    Analizza le situazioni e i nuovi prodotti proposti dai media di tutto il mondo. Ti dico di più analizza gli errori. Te ne spiego uno che riguarda Snapchat e una delle televisioni più importanti del mondo, la CNN. Il network di Ted Turner ha chiuso il suo canale di storie via Snapchat.

    Business model e social: un mondo da esplorare
    Se cerchi la CNN su Snapchat non la trovi più

    La CNN fa flop su Snap.

    Istintivamente ti verrebbe da pensare: se la CNN ha chiuso, allora non vale la pena sprecare parole o atti per cercare. Ecco: è esattamente vero il contrario perché i grandi media stanno sbagliando tutto, a cominciare dai linguaggi. Per questo val la pena guardarli e guardare le loro mosse e la loro incapacità di cambiare linguaggio, per vedere e verificare dove la nuova domanda di lavori e di prodotti strani incontrerà la tua offerta. Perché sbaglia la CNN che, come vedi da questa foto, ha chiuso la sua finestra su Snapchat? Perché voleva replicare su Snapchat i linguaggi della tv. Ecco, appunto. E chiedersi prima cosa gliene poteva fregare ai ragazzi che snappano di un tg della CNN, no?

    Conosci Facebook Watch?

    In generale sai che sogno un mondo pieno di giornalisti e senza editori. Ecco uno dei modi per realizzare questo sogno è Facebook Watch di cui il professor Quinn aveva dissertato con me nel pezzo che puoi leggere qui. Se non lo conosci sarà il caso che tu ti sforzi, perché potrebbe cambiare molte cose, proprio nei giorni in cui Facebook riduce le speranze delle pagine delle aziende di comparire “da sole” (cioè senza pagare) nelle timeline dei clienti.

    Alcuni stanno già gufando…

    Su Facebook Watch ci sono tam tam che raccontano di nasi storti e di un business che stenta a decollare, come puoi vedere qui. Il fenomeno, però, è talmente embrionale che giudicarlo frettolosamente rischia di essere una cantonata. Ti racconto un paio di cosette in più sul fenomeno. Ebbene, le revenue saranno del 55% per il creatore di video e del 45% per il social, quindi se riesci ad avere i numeri per entrare nel giro avrai Zuck come socio di minoranza! Scherzi a parte questa app va nella direzione che è ben delineata nella testa del ragazzotto di Menlo Park. Una direzione che porta alla replica di Youtube e alla sostituzione, assieme allo stesso tubo, ai colossi dello streaming e a Amazon, dell’intero ecosistema della tv.

    Non sei ancora convinto? Sai che Amazon ha creato Echo Show e Facebook ha già iniziato a rispondere? Ti sembrano farneticazioni? Spiegoti e chiudo qui, invitandoti a pensare il business model in modo diverso. Da subito. Allora, il riccastro Jeff Bezos ha trasformato il suo spacciatore di contenuti di Amazon, Eco, in un diffusore di contenuti con lo schermo, il quale si chiama Echo Show.  Ebbene, ti do per certo che Facebook risponderà con Portal, un hardware che apre lo scrigno dei contenuti di Faccia Libro. Penso che tu ne abbia abbastanza per pensare business model vincenti da qui al 2090.