Autore: Francesco Facchini

  • Flash storage per telefonino: la salvezza del mojo

    Flash storage per telefonino: la salvezza del mojo

    Flash storage: prima la definizione.

    Spetta, non te ne andare. Prima ti dico cosa è il flash storage e a cosa serve. Poi parliamo della sua grande importanza per il lavoro in mobilità, per il lavoro da mobile journalist. Insomma, dai parliamo papale, papale. Mi sto riferendo alla memoria flash, quella delle chiavette, la quale è stata di recente orientata anche al mercato degli smartphone con evidenti effetti positivi sul lavoro e sulla capacità di questi ultimi di prendere immagini. Faccio una cosa banale per chiarire il tipo di memoria di cui parlo. “La memoria flash, anche chiamata flash memory, è una tipologia di memoria a stato solido, di tipo non volatile, che per le sue prestazioni può anche essere usata come memoria a lettura-scrittura“: faccio una cosa bruttina, vale a dire copiare la definizione di Wikipedia, ma spero ti aiuti a capire.

    Uno dei limiti fisici del telefono.

    La memoria limitata dei telefoni, anche se dai 256 giga in più potremmo mettere in discussione la definizione di memoria limitata, è uno dei limiti fisici del telefono nel suo lavoro da filming machine. Il flash storage viene in soccorso in modo egregio e aiuta quando ci manca lo spazio per continuare a contenere nel telefono la produzione di immagini.

    Va detto che, quando uno parte per fare una mojostory, deve partire con almeno tre giga di memoria (tra l’altro, anche quella che c’è dentro il telefono è flash storage) liberi nel telefono. Se non li ha consiglio di fermarsi a scaricare in una flash storage il girato, catalogandolo subito, per poi riprendere. Quali sono gli strumenti utili del flash storage?

    La chiavetta santa.

    Per me che produco in iOS e edito in Luma Fusion la chiavetta santa è questa. Si tratta della Sandisk Usb-Lightning che può operare direttamente in collegamento con l’iPhone tramite una app che si chiama Sandisk iXpand e che puoi trovare qui. Si tratta di un prodotto veloce ed efficiente, uno strumento che può aiutare anche una prima catalogazione delle immagini che risulta poi importante quando passi a una app di montaggio e devi lavorare a una mojo story. Non so se lo hai letto, ma ti parlo qui di una chiavetta da rifuggire come la peste: questa. Si tratta di una chiavetta wi-fi della Sandisk, decantata come utile da molti grandi del mobile journalism. Per me è una disgrazia e ora ti spiego perché.

    Le chiavette wi-fi sono un grande bluff.

    La trasmissione dati wi-fi è una trasmissione molto, molto più lenta della trasmissione fisica dei dati che avviene quando il vostro telefono è collegato all’unità di flash storage che deve recepirne le immagini. E’ una cosa molto banale, ma che va ribadita per non perdere il contatto con il fatto che la velocità è una delle caratteristiche importanti del mobile journalism. In generale la trasmissione per via aerea, dunque, ha protocolli di trasferimento dei dati peggiori del trasferimento fisico, specialmente in memorie flash che hanno la capacità di fare lettura e scrittura in un solo flusso. Per questo motivo chiavette come quella che ti ho fatto vedere nel link di sopra sonno perfino in grado di fare streaming in un iphone o in un iPad di film interi senza occupare la memoria della device.

    Nel mondo Android scelgo una strada diversa.

    Il mondo Android è quello che più si avvicina ai computer. Per questo motivo, visto anche il fatto che il file classico di uscita dei telefoni Android è il .mp4, preferisco suggerirti una chiavetta “lettore” che non ha memoria interna, ma può trasferire i file presenti nel tuo smartphone a una flash storage di tipo SD o, addirittura, microsd. E’ la soluzione migliore per passare i tuoi file, per esempio, da una camera DSRL al telefono o al tablet per montarli. Oppure per passare dal telefono al computer (e qui non continuo perché penso tu sappia, se mi segui, che io il computer non lo prevedo). Ce ne sono tante, non sai quante. Io ne ho una che ha una app di lettura solo in cinese e mi sono fatto dire dal negoziante sotto casa come si faceva a usarla.

    Ultimo suggerimento (ovvio ma non troppo).

    Per trasferire i file usate degli storage online che non comprimano la qualità del video, riducendola. Drive, Wetransfer, Dropbox, vattelapesca cosa. Soprattutto non fare la cazzata di trasferire contenuti per uso professionale con app di messaging come Whattsap, Messenger, Skype o Telegram. E’ indubbio che comprimano e riducano la bontà dell’immagine che fai.

  • Mercato immobiliare: il mobile journalism sbarca tra le case

    Mercato immobiliare: il mobile journalism sbarca tra le case

    Mercato Immobiliare? Uno dei tanti campi ottimi per il mojo.

    Se ci pensi è proprio così. Il mercato immobiliare è un settore del lavoro che racconta storie “decisive” più di tanti altri. Se una persona costruisce, vende o compra una casa, beh, la sua vita cambia. In questo mercato la figura degli agenti è una di quelle che più di può giovare del fatto di avere una buona immagine digitale e un linguaggio visuale professionale corretto. Pensaci un attimo: saper raccontare una villa, un appartamento, un immobile, in un video, può aumentare vertiginosamente le possibilità di venderlo e quindi di costruire valore aggiunto sullo stesso.

    C’è di più: per la necessità innata dell’uomo di raccontare una storia, chi sa raccontare la storia di un bell’appartamento, dei suoi plus e del suo stile, verrà subito ritenuto come l’interlocutore giusto se io quell’appartamento lo si vuole vendere. Per questo e tanti altri motivi il mobile videomaking applicato al mercato immobiliare è un’idea vincente.

    La Remax Loserimm, prima in Italia.

    Mi sembra strano raccontarti questa novità, mentre il mercato dell’editoria e i media italiani non si sono ancora accorti della dirompenza della mobile content creation nel rinnovamento della produzione di news. Però è sostanzialmente la verità. Ecco la notizia: c’è un’agenzia immobiliare di Rho, la Remax Loserimm, che mi ha aperto le porte per organizzare un corso di formazione per i suoi agenti e per professionisti affini con l’obiettivo di creare una piccola squadra di mojoer che, invece di raccontare notizie, racconterà il mercato immobiliare della zona. Una vera primizia in Italia, per quel poco che mi è dato di sapere.

    Obiettivo dichiarato: regalare ai suoi professionisti una formazione di base e un’impostazione corretta al fine di far loro avere un nuovo linguaggio visuale a disposizione con cui migliorare la loro professione. Sto parlando del parco clienti, dei mandati a vendere, dei filmati degli immobili in portafoglio, degli speech di presentazione o di racconto di un immobile di pregio.

    Agenti come brand: questa è la missione.

    Cercheremo insieme di far uscire allo scoperto le professionalità di ognuno e di metterle in evidenza con le immagini giuste, corrette, ferme. Conosceremo storia e strumenti, hardware e software, tecniche e trucchi per fare ottimi video con le device mobili. Il tutto puntando a trasformare in piccoli brand del mercato immobiliare territoriale tutti i professionisti che parteciperanno.

    L’appuntamento? E’ previsto per il 14 dicembre verso le 9 o giù di lì: caffé e poi giù per un viaggio dentro la mobile content creation messa al servizio del mercato immobiliare. Un binomio vincente. A proposito: se questo articolo ti ha fatto venire un’idea per la formazione nella tua azienda non hai che da contattarmi alla mail francesco@francescofacchini.it, ma per ora non hai che da segnarti qui e sperare che ci siano posti disponibili.

  • Giornalismo: con il mojo si moltiplicano i punti di vista

    Giornalismo: con il mojo si moltiplicano i punti di vista

    Giornalismo in carca di nuovo linguaggio.

    Io insegno mobile journalism, scrivo di mobile journalism, vivo di mobile journalism. Tutti i giorni che dio manda in terra metto le mani sulle potenzialità di questa nuova cultura della mobile content creation che cerco di incastonare nel mio modo di fare giornalismo. Parto da un dato di fatto: il giornalismo ripete in modo sistematico e, a questo punto della tecnologia, erroneo, schemi che ormai non fanno rima con i mezzi di comunicazione di oggi.  Vedo a ogni angolo delle mie ricerche di notizie o di informazioni, cliché della tv ripetuti sui siti, linguaggi sei social sdoganati sui giornali, format tv fotocopiati sul web, format del web riadattati alla tv. Una corsa matta e disperatissima alla ricerca del pubblico che cambia, della popolazione giovane, dei disillusi dalla tv che oggi sono tutti su Netflix.

    Nessuno sembra farsi la domanda giusta.

    Già, per quanto riguarda il nuovo giornalismo nessuno sembra farsi la domanda giusta che penso possa suonare più o meno così: come si può cambiare? Ho consumato centinaia e centinaia di ore a cercare, leggere, pensare a un nuovo modo di fare giornalismo anche per me. Non credo che la strada sia facile, perché vengo da lontano, ho una cultura vecchia e “costumi” oculari consolidati. Non credo sia facile anche perché i nuovi strumenti che provo sono molto distanti da me, quindi tutti da imparare e da vivere. Se non sono distanti dal mio giornalismo, sono magari “doppioni” del mio linguaggio visivo.

    Il messaggio di Yusuf Omar colpisce ancora.

    Detto con sincerità, ci sono pochissimi punti di riferimento che stanno cambiando il paradigma del futuro del giornalismo. Anche stasera non mi sposto molto da quelli che ho indicato qualche tempo fa in questo articolo. Tuttavia devo ancora una volta fare menzione dell’amico Yusuf Omar e del suo progetto HastaghOurStories. Yusuf è il solo al mondo che sta ribaltando tutti i linguaggi possibili e facendo del giornalismo moltiplicato dai diversi punti di vista una grande missione sociale. E’ un uomo in grado di cambiare il mondo e di dare voce al mondo con un telefonino e qualche altro aggeggio tipo un drone.

    Giornalismo multipoint: unica strada possibile.

    La moltiplicazione delle voci e dei punti di vista è la sola maniera per rinnovare il linguaggio del giornalismo che si è consegnato ai soldi e al potere. Per farlo Yusuf usa tecniche di wearable journalism, di mobile journalism, di drone journalism e mixa, facendo campo e controcampo di ogni notizia, messaggio, voce. Nella sua missione più sociale, invece, usa il mobile per dare voce a chi non ha voce: l’ho visto coi miei occhi andare a cercare gli homeless di San Francisco. Insomma, il giornalismo deve tornare a informare le persone mettendo una camera (o uno smartphone o una snap cam o degli spectacles o quello che vuoi tu) per far vedere la realtà da ogni angolazione.

    Io sono ancora ai primi test.

    Seguendo un punto di riferimento come Yusuf ho deciso di procedere con tre campi nuovi rispetto al giornalismo classico. Il primo è quello del giornalismo immersivo, sul quale ho fatto già qualche mese fa i primi test, il secondo è quello del wereable journalism, il terzo è quello del drone journalism. Sto provando, sto testando, sto iniziando a imparare una grammatica che è sconosciuta anche ai massimi esperti, come quella dei video a 360 gradi. Anche il wereable journalism, per dirla papale papale, il giornalismo fatto con le camere che si mettono addosso, può avere un grande sviluppo, aldilà dei clichet soliti del giornalismo investigativo.

    Può essere fatto anche semplicemente per far capire diversi punti di vista. A me è capitato di provalo e di capirlo mettendo una camera portabile sul petto di mio figlio di 5 anni. Questo risultato è un test, ma pensa se dovessi pensarlo in chiave giornalistica per far comprendere tutti i passaggi del vivere civile o di una città nei quali essere basso come un bambino di 5 anni è faticoso. Scopriremmo insieme, io e te, che mettersi addosso una camera è far cambiare a tutti punto di vista. Ritornando al centro del giornalismo. Vuoi scommettere?

     

  • La follia di Trump, il Facebook Bias e la salvezza nel mobile journalism

    La follia di Trump, il Facebook Bias e la salvezza nel mobile journalism

    Proprio in questa notte di follia di Trump.

    Proprio in questa notte in cui Donald Trump apre le trombe della sua antipolitica folle spaccando il fragile equilibrio del Medio Oriente forse per sempre (“Riconosciamo l’ovvio, vale a dire che la capitale di Israele è Gerusalemme”) viene perfetto cercare di dare una risposta all’amica Simonetta che, qualche ora fa, si è chiesta come mai il giornalismo, in particolare modo quello italiano, non funzioni più nel modo obiettivo con il quale funzionava 40-50 anni fa. Le ho promesso che avrei risposto sul blog e, sinceramente, non pensavo di essere aiutato in un modo talmente evidente proprio da quell’idiota del 45esimo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

    Trump è il prodotto di un algoritmo pagato o “diretto”.

    Bene, la malattia dei media è iniziata più o meno una trentina d’anni fa quando qualcuno ha pensato che l’informazione potesse anche essere spettacolo. Al nascere dell’ infotainment, vale a dire di quella serie di programmi e di format, ma anche di media, di siti e di riviste che coniugavano e coniugano ancora l’informazione con l’intrattenimento, sono crollate le cinque W che reggevano il sistema di un informazione corretta. Prima c’era solo il fatto, riferito e connotato, corredato al massimo di tutte le voci pro e contro una determinata situazione.

    Da quel momento in poi Trump e i suoi cloni (Berlusconi in Italia) hanno costruito un nuovo archetipo dell’informazione che ha rinunciato a quello per creare community che rappresentassero un tipo di cliente “profilato” cui destinare una certa pubblicità, piuttosto che un’altra. La neutralità dei media è diventata discrezionalità, i giornali e le tv hanno iniziato a dire da che parte si doveva stare. I Trump e i suoi cloni sono diventati prima i proprietari, poi addirittura i prodotti di un algoritmo pagato o, comunque, diretto a creare bacini e comunità di consenso.

    Con i social media è poi il “bias” è diventato parte di noi.

    I social media hanno preso possesso dell’informazione mondiale travolgendo tutto il resto e lo abbiamo visto proprio con Trump. Il nostro ha spinto sull’acceleratore del populismo usando il bias alimentato dagli algoritmi, adeguatamente allestiti o “pagati”, delle piattaforme di scambio sociale sul web. Ma che diavolo è il “bias”, diventato parte integrante nella nostra vita proprio con i social? E’ un errore cognitivo basato sul fatto che preferiamo sviluppare interpretazioni sulla base delle informazioni che abbiamo in possesso di un determinato accadimento. Il mancato approfondimento dato dalla necessità di ricevere conferma della nostra corretta visione delle cose, porta distorsioni nel campo cognitivo e falsificazione della realtà.

    Facebook ha molte colpe

    Il social che più ci attira è Facebook, perché ci mette dentro un mondo di rassicurante vicinanza a noi, appunto grazie a un algoritmo che ha il merito (o meglio il demerito) di creare un onda di bias costante. Questo crea community sempre vicine e autoreferenziali e media che hanno cominciato a intrattenere una relazione con i propri lettori o spettatori sempre più distorta. Di Facebook Bias ne parla molto bene il New York Times in questo articolo, ma è sempre più chiaro che, nella pancia del social di Zuck o delle timeline di Twitter si sia creato questo mostruoso caso di antipolitico al potere che si chiama Trump. E’ come se il buon Donald avesse prima instillato la distorsione nei media con l’infotainment, poi si fosse messo a cavalcarla, nel mare del web, fino ad arrivare, cavallone dopo cavallone, alla Casa Bianca.

    Come il bias governato ad arte può cambiare il mondo.

    Se vuoi comprendere bene cosa sia successo e stia succedendo nella politica dei social network anche questo pezzo del Washington Times aiuta molto. Anche Google e tutti gli altri mostri del web hanno le leve del condizionamento in mano e creano bias ad arte, vere e proprie distorsioni. La cosa che mi turba più di tanto è che del bias parlano in pochi, ma condiziona tutti, delle fake news (che sono sinceramente un problema del cazzo) parlano in tanti e condiziona pochi. Un bias può cambiare il mondo per sempre, basta vedere la pazzesca operazione di cui ho parlato all’inizio che, stasera, non farà chiudere occhio soprattutto agli americani, ben consci della gravità delle azioni di governo di questo folle che è Donald Trump.

    Questa distorsione dei media, basata su errori cognitivi collegati alla necessità di essere rassicurati e accondiscesi, all’interno di community autoreferenziali come le nostre comunità social, è la grande malattia di oggi che deve essere guarita con un antidoto. Quale? La ricerca della diversità, della moltiplicazione delle voci, del ritorno dei campi e dei controcampi, dei punti di vista a 360°, dell’immersione esperienziale nei fatti e non nell’angolo guidato da una telecamera.

    Qual è la possibile salvezza?

    Stiamo raggiungendo livelli di disordine nel mondo pari ai tempi della guerra fredda o peggiori. Queste distorsioni sono all’ordine del giorno e ci impongono di essere attori della corretta informazione. Il mobile journalism e la sua capacità di far vedere più lati di un fatto con estrema facilità è un antidoto importante, ma è ancora più importante la formazione di una cultura digitale coerente che diventi al più presto materia del nostro vivere corrente e delle nostre scuole. Contro la distorsione delle comunità social nelle quali viviamo, le quali danno ragione al nostro pensiero senza metterlo in discussione, dobbiamo cercare la diversità, costruire la diversità, amare la diversità. Solo così ci potremo salvare da Donald Trump e da tutte quelle stanze dei social network che ci danno ragione. Mio figlio non ha bisogno di avere ragione, mio figlio ha bisogno di visione multipla della realtà. E io gliela darò. Voi?

    Simonetta, spero di averti spiegato come mai l’informazione è morta. E’ tutto scritto qui. Anche se forse c’è una cosa che non ti ho detto: in Italia c’è qualcosa di peggio che è l’impoverimento dei media nazionali che si seguono l’un con l’altro per paura di non avere l’uno le notizie che ha l’altro. Sai cosa succede alla fine? Che sono tutti uguali a Repubblica.it del giorno prima o di qualche ora prima. Quindi in Italia manco abbiamo solo il problema del bias, ma anche il problema di un intero mondo dell’editoria che si copia e si parla addosso, spesso dandosi ragione. Facendo morire la coscienza intera di una nazione.

  • Il mobile journalism? Semplice e in continuo cambiamento

    Il mobile journalism? Semplice e in continuo cambiamento

    [fusion_builder_container hundred_percent=”no” equal_height_columns=”no” menu_anchor=”” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” class=”” id=”” background_color=”” background_image=”” background_position=”center center” background_repeat=”no-repeat” fade=”no” background_parallax=”none” parallax_speed=”0.3″ video_mp4=”” video_webm=”” video_ogv=”” video_url=”” video_aspect_ratio=”16:9″ video_loop=”yes” video_mute=”yes” overlay_color=”” video_preview_image=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” padding_top=”” padding_bottom=”” padding_left=”” padding_right=””][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ layout=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” border_position=”all” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” center_content=”no” last=”no” min_height=”” hover_type=”none” link=””][fusion_text]

    Le indicazioni di una settimana di corsi di mobile journalism.

    La scorsa settimana ho affrontato per la prima volta l’esperienza di una docenza di livello universitario presso i Master della Iulm concernenti il mondo del “Beauty e del Wellness” e l’ambito professionale della “Food and Wine Communication“. Cosa è successo? Il finimondo naturalmente… in senso buono, un finimondo concluso con uno splendido minicorso base di mobile journalism nella community di Italianmojo, esattamente l’ultimo del 2017.

    Quello che ho visto negli occhi degli altri.

    Ti confesso: ero emozionato prima di cominciare questa esperienza, essendo completamente novizio della docenza. Niente, in pochi minuti mi sono sentito parte delle mie classi, gestendo didattica ed errori di “gioventù” (si, dai, almeno come professore sono giovane :-)) con estrema naturalezza. Ho attraversato la storia, la grammatica visuale, l’hardware, il software, il filming, l’editing, iMovie, Kinemaster, i trucchi e l’essenza di questa nuova materia con un obiettivo, sperando di raggiungerlo. Vuoi sapere qual era? Volevo che tutto sembrasse semplice. Volevo che le persone che avevo di fronte sentissero arrivare il “calore” di questa nuova cultura, la sua vicinanza e la sua immediata fruibilità, prima delle disquisizioni tecniche o di grammatica visuale. Volevo che il mobile journalism che stavo insegnando fosse semplice.

    Quello che ho visto negli occhi delle oltre 50 persone che ho incontrato nei tre giorni di insegnamento è che sono riuscito a trasmettere questo valore, quello della semplicità del mobile journalism. L’ho visto nelle giovani studentesse del mondo del beauty, nel mondo più variegato che si interessa della cucina e del vino, ma anche nel mondo dei professionisti del giornalismo che sono venuti a Italianmojo sabato. Giornalisti di esperienza o comunicatori di vaglia, studentesse del mondo della bellezza o cultori della comunicazione del mondo del vino: tutti hanno recepito la semplicità di questa materia.

    Correzioni del colore e gimbal? No, pure mojo.

    Il mobile journalism che ho cercato e cerco di diffondere è puro e tende solo a far esprimere al massimo le potenzialità dello smartphone all’atto della produzione dei contenuti editoriali che sono utili alla professionalità di chi lo interpreta. Non sono andato dentro i tecnicismi, non ho “violentato” il mobile facendolo diventare un nuovo tipo di videomaking, ma un filo più sfigato. Il mobile journalism è e resta un linguaggio unico, differente, con i suoi enormi punti di valore e i suoi limiti strutturali. Renderlo criptico con potenti soluzioni tecniche e con importanti hardware di correzione dei limiti che ha la macchina, mi sembra un esercizio di una assurdità enorme. Insomma, mojo tecnico? No, pure mojo. Io vado da quella parte…

    Il mobile journalism è una filosofia nuova e in continuo cambiamento

    E quando parli di nuova filosofia o di nuova cultura, quello che devi fare se la studi è capirne quello che di buono può essere per te. Se la insegni, invece, la devi “girare” a chi la riceve con le chiavi in mano per aprire una porta che apre un mondo semplice e utile, chiaro ed efficace. Il mobile journalism è una filosofia nuova e un nuovo linguaggio, il quale fa rima con il cambiamento della prospettiva. Il mobile journalism è questione di storie da raccontare con l’agilità e la potenza del telefono, il quale non crea immagini che “replicano” il linguaggio della telecamera, ma ne fa nascere di nuove. Il linguaggio video del mobile è più vicino, più smarcato, più agile, più profondo, più intimo e più artigianale, se vogliamo curato. Sono molto felice di essere riuscito a farlo capire ai miei studenti. Ultima nota: il mobile journalism cambia tutti i giorni e trova nuove forme e nuovi hardware. Giovedì, con il prossimo articolo, ti racconto una esperienza diretta, un altro test sul campo che, per ora, puoi trovare sulla mia fanpage di Facebook.  Il mobile journalism è anche questione di punti di visione della realtà.

    [/fusion_text][/fusion_builder_column][/fusion_builder_row][/fusion_builder_container]

  • Granovetter, il maestro dei mobile journalist per creare lavoro

    Granovetter, il maestro dei mobile journalist per creare lavoro

    Creare lavoro: il mojoer deve conoscere bene le dinamiche.

    Sono al termine di una giornata memorabile. Ho vissuto oggi il primo giorno ufficiale della mia seconda vita, quella del “prof”. L’ho vissuto da docente-testimone di un master in Management e Comunicazione del Beauty e del Wellness presso la Iulm. Un’ emozione vera e un primo passo molto importante dentro la formazione di livello accademico per la mobile content creation italiana.

    Sono qui che scrivo con ben poca energia, ma voglio rispettare la mia scadenza di pubblicazione di giovedì, anche se per un pelo. Lo voglio fare regalandoti un contributo a mio avviso determinante per la creazione di una carriera che non arresti mai la sua crescita. Lo faccio oggi perché emozionato dal fatto che questo nuovo compito mi è stato girato da uno di quelli che il sociologo americano Mark Granovetter chiama un “legame debole”. Spero di ringraziarlo adeguatamente ripagandolo della fiducia che ha riposto in me e anche consegnandoti questo documento di valore eccezionale.

    Mi hanno fatto rialzare i legami deboli.

    In questo documento spettacolare, Mark Granovetter, ancora operativo come professore di sociologia a Stanford, racconta come, per creare lavoro, siano decisivi i legami più esterni della propria sfera di conoscenze sociali, non certo quelli più vicini. In questa rivoluzione completa della mia vita (e ancor più in questa serata) posso affermare che sono stati proprio i link con persone conosciute da poco quelli che mi hanno dato linfa, lavoro, conoscenze, valore.

    Il motivo? Semplice. Per creare lavoro bisogna scambiare valore senza paura di poter perdere posizioni, senza alcun timore di venire “fregati”. Se infatti, ci sono predatori che possono “razziare” dei link che ci siamo costruiti, è evidente nei fatti che il coltivare legami di valore e dare prima di ricevere, è un’operazione che porta frutti diversi e duraturi del “fotti fotti” tipicamente italiano. In questo anno a me è capitato decine di volte. Per creare lavoro, insomma, bisogna fare leva sulla forza dei legami deboli. Dando valore, prima di riceverlo.

    Il fondatore della sociologia economica.

    Mark Granovetter non è un sociologo qualunque. E’ forse il più importante sociologo vivente e padre della sociologia economica. E’ un punto di riferimento anche di Rudy Bandiera, grande divulgatore dei legami via reti sociali. Nel suo lavoro più importante La forza dei legami deboli, il nostro teorizza che, per citare Wikipedia, “i soggetti inseriti in legami deboli, fatti cioè di conoscenze amicali non troppo strette, hanno più possibilità di accesso ad informazioni e quindi di potenziali posizioni lavorative di proprio interesse, rispetto a coloro che investono socialmente soltanto nei legami forti, cioè i familiari, i parenti e gli amici intimi”. Ecco come si crea lavoro: coltivando e scambiando valore con i legami deboli, con le relazioni più esterne rispetto alla propria sfera.

    Vuoi il regalo? Eccoti servito: buona lettura. LA FORZA DEI LEGAMI DEBOLI.