Autore: Francesco Facchini

  • Social network live: la verità italiana? Nessuno ci sa fare

    Social network live: la verità italiana? Nessuno ci sa fare

    Social network live e altre storie sulle dirette.

    Sto testando Switcher Studio e tutte le sue applicazioni possibili, specialmente per formattare il servizio di dirette via social network (da Facebook live a Periscope, fino a Youtube live) al fine di poterlo vendere ai clienti. Di cosa sto parlando? Sto parlando di una delle migliori app per gestire dirette via piattaforme social in commercio. Se vuoi scoprire qualcosa in merito passa da qui (è un referral link).  Presto farò una approfondita review live di questo prodotto, parlando con i miei lettori delle sue “applicazioni” per la produzione e la vendita. Come sai qui parlo del mestiere e del futuro, della cultura mojo e di tante altre cose, sempre con un occhio alle cose che si possono fare per campare meglio. Guadagnando di più…

    Prima di raccontare di questo prodotto, però, mi sono trovato a pensare come si fanno in Italia i Facebook Live e le dirette social in genere. Beh, male. Io stesso non sono un granché, anche se nelle vacanze di Natale ho fatto dei lavoretti e dei piccoli investimenti per migliorare i miei live, visto che nel 2018 andrò live spessissimo. Ho esaminato con attenzione il panorama dei live di Facebook e affini, prodotto che nel nostro paese viene trattato in due modi, entrambi pessimi.

    Le scimmiottate della tv.

    Purtroppo le pagine Facebook delle maggiori testate italiane o i big della rete, in generale, riproducono dei loro live via reti sociali i format della televisione come talk show o telegiornali. Oppure danno dirette televisive come fossero un broadcaster normale. Quando non è così i giornalisti prendono in mano la situazione producendo contenuti mobile journalism, (magari durante le breaking news) che sono di qualità pessima e infinitamente più bassa rispetto alle volte in cui il segnale del social network live trasmette qualcosa di formattato. Queste scimmiottate della tv che spesso fanno poco conto (o troppo conto) dell’interazione con i lettori, sono davvero un pessimo modo di fare social network live.

    Oppure andare in diretta così, a caso…

    L’altra tendenza, soprattutto delle mezze figure del web o degli account social, è quella di schiacchiare il tasto live a capocchia. Già, hai letto bene: a cazzo. Magari senza mettere nemmeno un titolo accattivante alla propria performance, magari fatta in accappatoio uscendo dalla doccia. Lo fanno i tapini come me e te, ma lo fanno anche i grandi che vanno a braccio per minuti, per poi lasciare la netta impressione di non aver detto un beneamato ciufolo. Ecco, allora perché fare la stupidaggine di andare live senza motivo e magari senza titolo. Se lo fai è una mancanza di rispetto verso chi ti segue.

    Se vuoi andare live devi “essere un format”.

    Lo avevo già scritto in questo pezzo qui già qualche tempo fa. Si tratta di un articolo un filo datato, ma utile. Prima di schiacciare il tasto live devi essere in pieno controllo di molte cose ed essere consapevole di tutti gli strumenti che hai a disposizione. Le indicazioni di base te le fornisce Facebook in questa landing page sull’argomento, ma se vuoi avere delle indicazioni sui tipi di format da proporre per il tuo social network live, beh, puoi guardare anche questa pagina qui.

    Per sapere di più su come essere format nei social network live, ho deciso, tuttavia, di interpellare gli amici Sumaiya e Yusuf Omar del progetto HashtagOurStories. Loro due sono un format, con questo progetto strepitoso. Specialmente Sumaiya, in una diretta per la Thomson Foundation, ha regalato alcuni consigli molto importanti sull’impostazione di un Facebook Live, consigli che ha riassunto in una slide che mi sono fatto gentilmente girare.

    social network live

    Credo che il centro delle cose sia tutto qui, in questi titoli.

    Se scorri i punti di questo riassunto della slide usata da Sumaiya troverai tutto quello che serve per andare in diretta con un criterio. Oltretutto se pensi a quello che c’è scritto, beh, molto ti risulterà, diciamo, giustificato, quasi ovvio. E’ altrettanto chiaro, però, che devi andare live sui social network quando hai davvero qualcosa di formattato tra le mani. Deve essere importante il luogo, importante e precisa la titolazione, minuziosa e capillare la diffusione della trasmissione per ingaggiare più persone possibile, deve esserci una storia da raccontare, un personaggio da intervistare o un evento da far vedere.

    Il luogo conta perché è metà racconto.

    Lo schedule deve essere attento al pubblico che vuoi raggiungere, l’inquadratura ben allestita e, quando possibile, orizzontale e fornita di un buon audio. L’idea delle immagini da mostrare deve fare anche rima con una esperienza da condividere, con un posto da far vedere per il quale la sola visione possa essere qualcosa di emozionante. Sarà banale, ma se faccio un live dal mio bagno o da Piazza Duomo a Milano penso che il secondo sia più “stimolante” del primo. Ricordalo. Devi saperti ripresentare più volte, rispiegando a chi si mette in contatto a metà trasmissione il motivo di quel live, ma devi anche saper intrattenere rapporti con chi ti guarda e commenta. Magari accorpando le risposte in un momento di interazione poi continuando il tuo live. Certamente, però, non commentare quello che ti viene scritto è negativo, molto. Bisogna, però, saperlo fare senza interrompersi mille volte.

    Tempo, suspense e contenuto interessante.

    Un’ altra cosa da fare? Essere prudente nelle informazioni, nelle dichiarazioni, perfino nei movimenti. Devi anche saper creare suspense per tenere il più possibile ingaggiati i tuoi spettatori. Sinceramente il web è pieno di dirette senza nessun motivo con gente che sta in una specie di acquario e saluta chi si collega… Ecco, quello magari lasciamolo agli Youtuber di gaming…

    Il tempo è il tuo alleato principale e se tiri 10 minuti, con cambi di passo, magari con testi, con video registrati inseriti nel live o con altre truccaglie per cambiare il ritmo della tua trasmissione la strada del successo si aprirà più facilmente. Comunque la cosa più importante resta il rapporto tra luogo e contenuto che sia di qualità: il resto è contorno.

    Eccoti la bibbia del genere, se hai bisogno di un punto di riferimento.

    Content is king, quindi, un’altra volta. Se, tuttavia, hai bisogno di una vera e propria bibbia che ti introduca ai segreti del mondo del live, ti consiglio questo libro di Peter Stewart, uscito nel novembre del 2017. Si intitola “The Live-Streaming Handbook: How to create live video for social media on your phone and desktop” ed è un vero capolavoro per chi voglia conoscere tutto su questo mondo così particolare e importante per il presente e il futuro del nostro lavoro. 

     

  • Giornalismo 2018: per vivere bisogna cambiare linguaggio

    Giornalismo 2018: per vivere bisogna cambiare linguaggio

    [fusion_builder_container hundred_percent=”no” equal_height_columns=”no” menu_anchor=”” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” class=”” id=”” background_color=”” background_image=”” background_position=”center center” background_repeat=”no-repeat” fade=”no” background_parallax=”none” parallax_speed=”0.3″ video_mp4=”” video_webm=”” video_ogv=”” video_url=”” video_aspect_ratio=”16:9″ video_loop=”yes” video_mute=”yes” overlay_color=”” video_preview_image=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” padding_top=”” padding_bottom=”” padding_left=”” padding_right=””][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ layout=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” border_position=”all” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” center_content=”no” last=”no” min_height=”” hover_type=”none” link=””][fusion_text]

    Giornalismo 2018: per dare una mano cambierò nuovamente mezzi e modi.

    In questi giorni, nella penombra del mio piccolo studio, sto progettando il prossimo anno di lavoro. Lo sto progettando nei concetti, nei viaggi, nei miraggi, nei progetti e nei linguaggi. Questo 2017 è stato un anno bellissimo e ha avuto il pregio di essere un anno pionieristico. Spero di aver costruito una community interessata a questa materia e a quello che sarà il giornalismo nel 2018 e negli anni a venire. Strano, ma siamo di fronte a un cambiamento di epoca, nel quale, però, i giornalisti, specialmente italiani, stanno recitando per la massima parte il ruolo delle vittime, invece che quello dei protagonisti. Per questo motivo, nel 2018, in questo progetto in cui al centro c’è la mobile content creation e tutte le sue sfumature e ai lati l’innovazione, il mio obiettivo numero uno sarà cambiare il linguaggio, pur rimanendo nell’ambito del giornalismo.

    Ormai il giornalismo può e deve essere ovunque.

    Non comprendo più i confini di un medium e la sua necessità di esistere in quanto mezzo oppure in base al suo passato o magari in base ai poteri economici che possiede. Accetto la sfida che il giornalismo debba essere ovunque e non dentro i confini di un paradigma che ha perso peso, onestà e potenza come quello dei media come oggi li conosciamo. Nel giornalismo targato 2018 non possono esserci confini, modelli, linguaggi che siano giusti e linguaggi, confini e giornalismi sbagliati.

    Nel giornalismo 2018 posso ritenere di essere un punto di riferimento da cui si fa direttamente quando si vuole sapere qualcosa di nuovo sul mobile journalism. Ho una nicchia, una specificità e un parco dove rappresentare un porto cui approdare. Per questo motivo, nel giornalismo 2018, non credo che si possa ancora parlare di giornali buoni e giornali sbagliati, di tv buone e cattive. Il linguaggio del giornalismo deve raggiungere il lettore ovunque. Nemmeno soltanto su Snapchat o su qualche social. Il giornalismo 2018 sarà un tweet, uno snap, una storia, un reportage, ma anche dei moments, un percorso visuale, un’esperienza umana, un trasferimento di emozione. una moltiplicazione di punti di vista.

    Da una moltiplicazione di linguaggi a una moltiplicazione di modelli di business.

    Il mio guru di giornalismo Michael Rosenblum, che sia il 2018 o il 2052, dice sembre una cosa: “No money, no good journalism”. Allora il giornalismo 2018 è un giornalismo che va pagato, per farlo andare verso la metamorfosi. Un giornalismo che deve sperimentare modelli senza editori, linguaggi senza verità preconfezionate. Il tg? Forma morta. Il quotidiano? Nessuno capisce dove va. Però ci sono modelli che funzionano e che bisogna avere il coraggio di proporre al mercato. Il giornalismo 2018, per essere chiari, andrà fatto su qualsiasi mezzo e in qualsiasi modo possa rompere gli schemi. Tuttavia andrà anche pagato. Punto. Ora che non seguo più Salvini o i pedatori allo stadio, ora che non faccio servizi da tg da 1’40” non mi sento meno giornalista. Vedrete che nel 2018 mi allontanerò ancora da questo vecchiume, in un modo che non potrete dimenticare, ma non potrete non ritenere giornalismo. Tra l’altro totalmente mobile.

    Poi c’è il rivoluzionario Rosenblum che traccia un’altra strada.

    Bisogna cambiare linguaggio nel giornalismo 2018. Ho visto tutto il lancio di questa iniziativa imprenditoriale che si chiama Brooklyn Tv e che è il primo esempio di local tv crowdfunded e crowdsourced del mondo (credo). Se non lo è beh, Michael è figo lo stesso. Comunque per un territorio da oltre 20 milioni di persone il nostro si è inventato la prima Local TV crowdsourced. I cittadini verranno formati per fare i mobile journalist e pagati per i servizi che fanno. Potranno, se non ho capito male, anche detenere quote della TV ed entrare nelle stanze dei bottoni. Vedremo quando andranno “onair”, ti terrò informato.

    Concludendo, nel 2018 inizio la trasformazione e la produzione di contenuti, con nuovi linguaggi e nuovi formati. I timidi test che ho fatto sono poca, pochissima cosa. Il tutto con l’obiettivo di puntare a nuovi luoghi e nuovi modi di fare giornalismo…. attenzione, attenzione… VENDIBILI!. Confrontiamoci, parliamoci, scanniamoci, ma lasciamo a terra qualsivoglia tipo di verità costituite. Qui di verità non ce n’è più. Il primo gennaio, io, ricomincio da zero questo progetto. Vieni con me?

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  • Storytelling mojo: meglio organizzi, meno lavori

    Storytelling mojo: meglio organizzi, meno lavori

    Storytelling mojo: qualche dritta e qualche strumento.

    Mi è capitato più di una volta, parlando con studenti dei miei corsi e colleghi, di parlare dello storytelling mojo e dei suoi linguaggi, delle sue possibilità e dei suoi strumenti. Voglio darti un due dritte, qualche consiglio e uno strumento per poter organizzare al meglio le tue uscite mojo. Il motivo è semplice e, se segui il mio blog, potresti averlo capito anche da questo articolo qui, ormai datato. Quando sei sul campo, visti gli strumenti agili e per certi versi limitati che usi, non devi perdere tempo e sprecare frame.

    Ti sarà facile pensare, quindi, che meglio ti organizzi quando sei alla scrivania, pensando alla struttura del tuo pezzo, alle interviste (magari da raggruppare in un solo posto per farle tutte assieme), alle immagini di copertura che potresti fare prima, più efficace sarai quando sei onfield.

    Voci, pensa a un mix.

    Se la tua storia ha un protagonista solo, sarà facile fissare con lui un appuntamento in un luogo significativo per la sua storia, un luogo che sia poco rumoroso. Se le voci sono più di una, scegli prima se orientarle tutte a esperti o mettere anche voci della gente (sempre di impatto). Se è cosi raggruppale tutte in un posto e falle per prime, scegli un mix giusto e struttura su quelle la tua storia.

    Le coperture necessarie.

    In quel pezzetto di qualche mese fa raccontavo anche qualche tecnica per fare le immagini di copertura. Ora ti aggiungo alcune riflessioni sul fatto che anche fare le immagini di appoggio per i video deve assolutamente essere un’operazione consapevole. Per questo motivo, infatti, ti suggerisco una proporzione di 2 a 1 per il calcolo delle coperture da fare per non ritrovarti a perdere le ore sul montaggio di un pezzo. Hai un minuto di video, fai due minuti di B-Roll. Per me se stai lavorando in velocità e devi soltanto coprire un’intervista basta pure un rapporto 1,5 a 1, ma 2 a 1 e’ ottimale. Per questo, se ti sei già scritto la storia nella testa, fatti anche la lista di coperture che spunterai quando sei sul campo.

    Un ultima cosa: ci vuole lo storyboard.

    Se ti va ti do una sequenza di inquadrature interessanti che possono rappresentare l’ossatura di un pezzetto da due minuti che mantenga l’attenzione e racconti lo sviluppo di una storia.

    1. Apre un’azione che coinvolge il protagonista della storia, il succo del suo messaggio o l’evento che sta accadendo: 10/15 secondi.

    2. Frase: presentazione, messaggio, racconto della storia se essa ha un protagonista solo. Se è un evento le parole dei protagonisti 15/20 secondi.

    3. Cambio di passo: seconda azione sorprendente o significativa. 10/15 secondi. Musicata o speakerata.

    4. Seconda parte del racconto: elementi di unicità della storia o messaggi dell’evento che si sta vivendo. Altre voci di protagonisti se è un evento o ulteriore racconto se la storia ha un solo protagonista. 15/20 secondi.

    5. Ultima azione speakerata o musicata che racconti un passaggio emblematico di un evento o un posto particolare per il protagonista della storia. 15/20 secondi.

    6. Finale con ultima frase del protagonista o dei protagonisti 10 secondi.

    Questo non è il Santo Graal o la Bibbia dello storytelling mojo, anche perché lo storytelling mojo appartiene anche molto alla nostra creatività. Questo è solo uno dei modi di raccontare una storia, una storia che sia di una persona o di un evento. Trovati però il tuo, di modo di fare storytelling mojo. Scegli il tuo storyboard e ricordati solo tre cose molto importanti per tutti i video sul web:

    1. Devi far superare a chi guarda i primi tre secondi del video.

    2. Devi farlo resistere fino alla fine della curva dell’abbandono.

    3. Al 35esimo-40esimo secondo al massimo devi far cambiare passo. Il punto tre dell’elenco sopra è il più importante.

    Tuttavia l’ingrediente fondamentale di tutto resta un altro: sei tu.

  • Flash storage per telefonino: la salvezza del mojo

    Flash storage per telefonino: la salvezza del mojo

    Flash storage: prima la definizione.

    Spetta, non te ne andare. Prima ti dico cosa è il flash storage e a cosa serve. Poi parliamo della sua grande importanza per il lavoro in mobilità, per il lavoro da mobile journalist. Insomma, dai parliamo papale, papale. Mi sto riferendo alla memoria flash, quella delle chiavette, la quale è stata di recente orientata anche al mercato degli smartphone con evidenti effetti positivi sul lavoro e sulla capacità di questi ultimi di prendere immagini. Faccio una cosa banale per chiarire il tipo di memoria di cui parlo. “La memoria flash, anche chiamata flash memory, è una tipologia di memoria a stato solido, di tipo non volatile, che per le sue prestazioni può anche essere usata come memoria a lettura-scrittura“: faccio una cosa bruttina, vale a dire copiare la definizione di Wikipedia, ma spero ti aiuti a capire.

    Uno dei limiti fisici del telefono.

    La memoria limitata dei telefoni, anche se dai 256 giga in più potremmo mettere in discussione la definizione di memoria limitata, è uno dei limiti fisici del telefono nel suo lavoro da filming machine. Il flash storage viene in soccorso in modo egregio e aiuta quando ci manca lo spazio per continuare a contenere nel telefono la produzione di immagini.

    Va detto che, quando uno parte per fare una mojostory, deve partire con almeno tre giga di memoria (tra l’altro, anche quella che c’è dentro il telefono è flash storage) liberi nel telefono. Se non li ha consiglio di fermarsi a scaricare in una flash storage il girato, catalogandolo subito, per poi riprendere. Quali sono gli strumenti utili del flash storage?

    La chiavetta santa.

    Per me che produco in iOS e edito in Luma Fusion la chiavetta santa è questa. Si tratta della Sandisk Usb-Lightning che può operare direttamente in collegamento con l’iPhone tramite una app che si chiama Sandisk iXpand e che puoi trovare qui. Si tratta di un prodotto veloce ed efficiente, uno strumento che può aiutare anche una prima catalogazione delle immagini che risulta poi importante quando passi a una app di montaggio e devi lavorare a una mojo story. Non so se lo hai letto, ma ti parlo qui di una chiavetta da rifuggire come la peste: questa. Si tratta di una chiavetta wi-fi della Sandisk, decantata come utile da molti grandi del mobile journalism. Per me è una disgrazia e ora ti spiego perché.

    Le chiavette wi-fi sono un grande bluff.

    La trasmissione dati wi-fi è una trasmissione molto, molto più lenta della trasmissione fisica dei dati che avviene quando il vostro telefono è collegato all’unità di flash storage che deve recepirne le immagini. E’ una cosa molto banale, ma che va ribadita per non perdere il contatto con il fatto che la velocità è una delle caratteristiche importanti del mobile journalism. In generale la trasmissione per via aerea, dunque, ha protocolli di trasferimento dei dati peggiori del trasferimento fisico, specialmente in memorie flash che hanno la capacità di fare lettura e scrittura in un solo flusso. Per questo motivo chiavette come quella che ti ho fatto vedere nel link di sopra sonno perfino in grado di fare streaming in un iphone o in un iPad di film interi senza occupare la memoria della device.

    Nel mondo Android scelgo una strada diversa.

    Il mondo Android è quello che più si avvicina ai computer. Per questo motivo, visto anche il fatto che il file classico di uscita dei telefoni Android è il .mp4, preferisco suggerirti una chiavetta “lettore” che non ha memoria interna, ma può trasferire i file presenti nel tuo smartphone a una flash storage di tipo SD o, addirittura, microsd. E’ la soluzione migliore per passare i tuoi file, per esempio, da una camera DSRL al telefono o al tablet per montarli. Oppure per passare dal telefono al computer (e qui non continuo perché penso tu sappia, se mi segui, che io il computer non lo prevedo). Ce ne sono tante, non sai quante. Io ne ho una che ha una app di lettura solo in cinese e mi sono fatto dire dal negoziante sotto casa come si faceva a usarla.

    Ultimo suggerimento (ovvio ma non troppo).

    Per trasferire i file usate degli storage online che non comprimano la qualità del video, riducendola. Drive, Wetransfer, Dropbox, vattelapesca cosa. Soprattutto non fare la cazzata di trasferire contenuti per uso professionale con app di messaging come Whattsap, Messenger, Skype o Telegram. E’ indubbio che comprimano e riducano la bontà dell’immagine che fai.

  • Mercato immobiliare: il mobile journalism sbarca tra le case

    Mercato immobiliare: il mobile journalism sbarca tra le case

    Mercato Immobiliare? Uno dei tanti campi ottimi per il mojo.

    Se ci pensi è proprio così. Il mercato immobiliare è un settore del lavoro che racconta storie “decisive” più di tanti altri. Se una persona costruisce, vende o compra una casa, beh, la sua vita cambia. In questo mercato la figura degli agenti è una di quelle che più di può giovare del fatto di avere una buona immagine digitale e un linguaggio visuale professionale corretto. Pensaci un attimo: saper raccontare una villa, un appartamento, un immobile, in un video, può aumentare vertiginosamente le possibilità di venderlo e quindi di costruire valore aggiunto sullo stesso.

    C’è di più: per la necessità innata dell’uomo di raccontare una storia, chi sa raccontare la storia di un bell’appartamento, dei suoi plus e del suo stile, verrà subito ritenuto come l’interlocutore giusto se io quell’appartamento lo si vuole vendere. Per questo e tanti altri motivi il mobile videomaking applicato al mercato immobiliare è un’idea vincente.

    La Remax Loserimm, prima in Italia.

    Mi sembra strano raccontarti questa novità, mentre il mercato dell’editoria e i media italiani non si sono ancora accorti della dirompenza della mobile content creation nel rinnovamento della produzione di news. Però è sostanzialmente la verità. Ecco la notizia: c’è un’agenzia immobiliare di Rho, la Remax Loserimm, che mi ha aperto le porte per organizzare un corso di formazione per i suoi agenti e per professionisti affini con l’obiettivo di creare una piccola squadra di mojoer che, invece di raccontare notizie, racconterà il mercato immobiliare della zona. Una vera primizia in Italia, per quel poco che mi è dato di sapere.

    Obiettivo dichiarato: regalare ai suoi professionisti una formazione di base e un’impostazione corretta al fine di far loro avere un nuovo linguaggio visuale a disposizione con cui migliorare la loro professione. Sto parlando del parco clienti, dei mandati a vendere, dei filmati degli immobili in portafoglio, degli speech di presentazione o di racconto di un immobile di pregio.

    Agenti come brand: questa è la missione.

    Cercheremo insieme di far uscire allo scoperto le professionalità di ognuno e di metterle in evidenza con le immagini giuste, corrette, ferme. Conosceremo storia e strumenti, hardware e software, tecniche e trucchi per fare ottimi video con le device mobili. Il tutto puntando a trasformare in piccoli brand del mercato immobiliare territoriale tutti i professionisti che parteciperanno.

    L’appuntamento? E’ previsto per il 14 dicembre verso le 9 o giù di lì: caffé e poi giù per un viaggio dentro la mobile content creation messa al servizio del mercato immobiliare. Un binomio vincente. A proposito: se questo articolo ti ha fatto venire un’idea per la formazione nella tua azienda non hai che da contattarmi alla mail francesco@francescofacchini.it, ma per ora non hai che da segnarti qui e sperare che ci siano posti disponibili.

  • Giornalismo: con il mojo si moltiplicano i punti di vista

    Giornalismo: con il mojo si moltiplicano i punti di vista

    Giornalismo in carca di nuovo linguaggio.

    Io insegno mobile journalism, scrivo di mobile journalism, vivo di mobile journalism. Tutti i giorni che dio manda in terra metto le mani sulle potenzialità di questa nuova cultura della mobile content creation che cerco di incastonare nel mio modo di fare giornalismo. Parto da un dato di fatto: il giornalismo ripete in modo sistematico e, a questo punto della tecnologia, erroneo, schemi che ormai non fanno rima con i mezzi di comunicazione di oggi.  Vedo a ogni angolo delle mie ricerche di notizie o di informazioni, cliché della tv ripetuti sui siti, linguaggi sei social sdoganati sui giornali, format tv fotocopiati sul web, format del web riadattati alla tv. Una corsa matta e disperatissima alla ricerca del pubblico che cambia, della popolazione giovane, dei disillusi dalla tv che oggi sono tutti su Netflix.

    Nessuno sembra farsi la domanda giusta.

    Già, per quanto riguarda il nuovo giornalismo nessuno sembra farsi la domanda giusta che penso possa suonare più o meno così: come si può cambiare? Ho consumato centinaia e centinaia di ore a cercare, leggere, pensare a un nuovo modo di fare giornalismo anche per me. Non credo che la strada sia facile, perché vengo da lontano, ho una cultura vecchia e “costumi” oculari consolidati. Non credo sia facile anche perché i nuovi strumenti che provo sono molto distanti da me, quindi tutti da imparare e da vivere. Se non sono distanti dal mio giornalismo, sono magari “doppioni” del mio linguaggio visivo.

    Il messaggio di Yusuf Omar colpisce ancora.

    Detto con sincerità, ci sono pochissimi punti di riferimento che stanno cambiando il paradigma del futuro del giornalismo. Anche stasera non mi sposto molto da quelli che ho indicato qualche tempo fa in questo articolo. Tuttavia devo ancora una volta fare menzione dell’amico Yusuf Omar e del suo progetto HastaghOurStories. Yusuf è il solo al mondo che sta ribaltando tutti i linguaggi possibili e facendo del giornalismo moltiplicato dai diversi punti di vista una grande missione sociale. E’ un uomo in grado di cambiare il mondo e di dare voce al mondo con un telefonino e qualche altro aggeggio tipo un drone.

    Giornalismo multipoint: unica strada possibile.

    La moltiplicazione delle voci e dei punti di vista è la sola maniera per rinnovare il linguaggio del giornalismo che si è consegnato ai soldi e al potere. Per farlo Yusuf usa tecniche di wearable journalism, di mobile journalism, di drone journalism e mixa, facendo campo e controcampo di ogni notizia, messaggio, voce. Nella sua missione più sociale, invece, usa il mobile per dare voce a chi non ha voce: l’ho visto coi miei occhi andare a cercare gli homeless di San Francisco. Insomma, il giornalismo deve tornare a informare le persone mettendo una camera (o uno smartphone o una snap cam o degli spectacles o quello che vuoi tu) per far vedere la realtà da ogni angolazione.

    Io sono ancora ai primi test.

    Seguendo un punto di riferimento come Yusuf ho deciso di procedere con tre campi nuovi rispetto al giornalismo classico. Il primo è quello del giornalismo immersivo, sul quale ho fatto già qualche mese fa i primi test, il secondo è quello del wereable journalism, il terzo è quello del drone journalism. Sto provando, sto testando, sto iniziando a imparare una grammatica che è sconosciuta anche ai massimi esperti, come quella dei video a 360 gradi. Anche il wereable journalism, per dirla papale papale, il giornalismo fatto con le camere che si mettono addosso, può avere un grande sviluppo, aldilà dei clichet soliti del giornalismo investigativo.

    Può essere fatto anche semplicemente per far capire diversi punti di vista. A me è capitato di provalo e di capirlo mettendo una camera portabile sul petto di mio figlio di 5 anni. Questo risultato è un test, ma pensa se dovessi pensarlo in chiave giornalistica per far comprendere tutti i passaggi del vivere civile o di una città nei quali essere basso come un bambino di 5 anni è faticoso. Scopriremmo insieme, io e te, che mettersi addosso una camera è far cambiare a tutti punto di vista. Ritornando al centro del giornalismo. Vuoi scommettere?