Autore: Francesco Facchini

  • Facebook: cambia algoritmo, meno news e più mobile journalism

    Facebook: cambia algoritmo, meno news e più mobile journalism

    [fusion_builder_container hundred_percent=”no” equal_height_columns=”no” menu_anchor=”” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” class=”” id=”” background_color=”” background_image=”” background_position=”center center” background_repeat=”no-repeat” fade=”no” background_parallax=”none” parallax_speed=”0.3″ video_mp4=”” video_webm=”” video_ogv=”” video_url=”” video_aspect_ratio=”16:9″ video_loop=”yes” video_mute=”yes” overlay_color=”” video_preview_image=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” padding_top=”” padding_bottom=”” padding_left=”” padding_right=””][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ layout=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” border_position=”all” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding_top=”” padding_right=”” padding_bottom=”” padding_left=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” center_content=”no” last=”no” min_height=”” hover_type=”none” link=””][fusion_text]

    Facebook cambia algoritmo: una splendida notizia (anche se tutti pensano il contrario)

    Hai letto bene, che Facebook cambi algoritmo e lo faccia privilegiando il giro degli amici rispetto ai contenuti che arrivano da entità seconde o terze rispetto a noi, è una notizia pazzesca in positivo che, a una prima lettura, suona come il de profundis del mondo dei media che si sono occupati di eseguire reiterate genuflessioni al gigante di Menlo Park in questi periodi. Effettivamente son qui che picchio sui tasti e ridacchio pensando ai numeri di traffico dei siti e alla loro drammatica contrazione nei prossimi giorni, almeno per quanto riguarda l’arrivo di click regalato dagli amici di Faccialibro con copiosa generosità in questi anni. Mi vien da dire? Cosa faranno ora i media? Si, voglio proprio chiedermelo, ora che Facebook gli ha dato il benservito.

    I media devono svegliarsi.

    Ecco, adesso che non c’è mamma Facebook voglio davvero capire dove minchia vanno a parare siti, giornali e televisioni di mezzo mondo, dopo aver fatto traffico senza sporcarsi le mani per farlo. Penso che sarà il caso, per loro, di ricominciare a fare prodotti editoriali di qualità e sostenibili, format profondi, innovativi, fatti di esperienza sul web, se appena, appena vogliono riprendersi un pubblico. Lo penso e lo dico perché se non sarà così, Facebook razzierà il mercato dell’utente “permanente” ancora di più chiudendo i suoi due miliardi di avventori nelle bolle autoriferite delle loro cerchie. Con l’obiettivo di non farli più uscire da li. Ti ricordo (e l’ho scritto nell’articolo che puoi leggere qui) che Facebook sta lanciando Watch e sta entrando nel mercato degli hardware per la visione dei suoi contenuti.

    La più grande media company del mondo.

    Facebook è il più grande spacciatore di video del mondo ed è la più grande media company del mondo. Adesso vuole i suoi adepti intenti a stare seduti a passare i pop corn ai parenti, mentre ti propone quello che dice lei: vale a dire chi paga o chi fa parte del circo scelto dal giro Watch o simili. Vedrai che andrà così. Siccome la più grande media company del mondo è anche una delle più ricche aziende del pianeta, chi si stupisce del movimento di questo algoritmo, le cui nuove funzionalità sono sotto test dallo scorso ottobre, è una verginella che scende dalle montagne del sapone. Sono disposto a rischiare il mio braccio sinistro che andrà così, ma ci sono un paio di risvolti molto interessanti.

    Tanti giornalisti, pochi editori.

    Boh, non so se l’ho detto o l’ho scritto qui su queste colonne, ma lo riscrivo. Sogno un mondo pieno di giornalisti e senza editori. Ecco, con la svolta di Facebook più dedito alle sue bolle (echo chambers, per dirla come quelli fighi), ci sarà lavoro per i mobile journalist come mai ce n’è stato prima. Anzi potrebbe esserci proprio una nuova categoria di giornalisti, vale a dire quella che dovrà interpretare, dentro queste community, il ruolo di chi deve far comprendere la realtà. Mi spiego meglio e dico che i giornalisti avranno il compito sempre più importante, nelle loro comunità di Facebook, di rappresentare la corretta informazione e di invitare a uscire dalle bolle. Come? Con la conversazione. Estraggo due passaggi di un pezzo di Jeff Jarvis su Medium. Molto interessanti:

    I wish that Facebook would work with journalists to help them learn how to use Facebook natively to inform the public conversation where and when it occurs. Until now, Facebook has tried to suck up to media companies (and by extension politicians) by providing distribution and monetization opportunties through Instant Articles and video. Oh, well. So much for that. Now I want to see Facebook help news media make sharable journalism and help them make money through that. But I worry that news organizations will be gun-shy of even trying, sans rug.

    Il giornalismo è conversazione, te lo ricordi?

    Questo il primo contributo di Jarvis, preso da un articolo che riporta in auge il fatto che il giornalismo, in questo momento, è diventato una conversazione. Allora dobbiamo conversare. Se poi Facebook dice che abbiamo a disposizione le nostre bolle per farlo e per ingenerare una nuova cultura, beh, allora abbiamo anche il campo di conversazione. Già, perché il lavoro del giornalista, proprio nella definizione di Jarvis, esce un filo diverso dal consueto cliche che eri abituato a vedere finora. Ecco la definizione, adattissima per i mojoer stante l’agilità dello strumento.

    My new definition of journalism: convening communities into civil, informed, and productive conversation, reducing polarization and building trust through helping citizens find common ground in facts and understanding.

    Si possono anche fare affari.

    Se il nostro nuovo lavoro sarà questo, beh allora posso dire che il nuovo Facebook ci mette nelle migliori condizioni per poterlo fare e per farci anche qualche soldino onestamente. La creazione delle comunity attorno a noi sarà molto importante e ci sono i metodi per renderla profittevole. Con il mobile journalism, poi, ci sarà da trottare per raccontare le storie di chi non ha voce.

    Faccio un ultimo passaggio prima di chiudere. Si paventano scenari gotici dell’aumento dell’importanza delle fake news, nonostante la riduzione del numero che provocherà il cambiamento dell’algoritmo. Contro questo c’è solo la cultura, ma anche l’idea di poter prendere, finalmente, sul serio quello che è un social network come quello di Menlo Park. Un moltiplicatore di relazioni che crea valore se gli si consegna valore.

    Solo le aziende sveglie sopravviveranno.

    I miei amici agenti immobiliari spero lo comprendano presto visto che proprio nelle loro cerchie, piene di legami deboli, c’è il cliente che gli darà un mandato a vendere. E con un video lo farà più voltentieri.

    Dico questo come spero anche che le aziende comprendano presto che se Facebook non è più gratuito loro dovranno imparare a dialogare con i loro clienti in modo diretto scambiando valore e calore. Già, perché solo così si è visti senza aggiungere denaro. Altrimenti si tace e si paga: Facebook non è una onlus. In questa ottica per i mojoer brand journalist c’è trippa. Tanta.

    Concludo con una frase del Fatto Quotidiano, strepitosa:

    L’ultimo aggiornamento del News Feed ci ricorda che i social network per sopravvivere devono restare luoghi di conversazione tra persone. Le aziende che riusciranno a umanizzarsi si inseriranno in questa conversazione per trarne i frutti, senza disturbare. Tutte le altre resteranno a piangere sui cambiamenti di Facebook, dimenticando che in casa degli altri non si comanda. Al massimo si ringrazia per l’ospitalità

    [/fusion_text][/fusion_builder_column][/fusion_builder_row][/fusion_builder_container]

  • Business model e mobile journalism: alcuni consigli utili

    Business model e mobile journalism: alcuni consigli utili

    Business model: il grande boh del giornalismo e dei giornalisti.

    Me lo chiedono sempre, probabilmente me lo hai chiesto anche tu se ci conosciamo di persona. Cosa? La domanda suona più o meno così:

    “Si, ok, mojo, tutto fico, ma come ci campo?”

    Ecco, parlare di business model ai giornalisti e a chi fa professioni visuali come la mia, sembra una sorta di delirio. Però te lo dico: è la domanda che tutti, specialmente i freelance, dovrebbero farsi ogni mattina prima di inventarsi qualcosa per lavorare e pagare le bollette e la spesa. In questo articolo provo a suggerirti consigli utili e notizie che ti facciano collegare i punti tra le cose per creare proposte di servizi e di prodotti che possano rappresentare un business model sostenibile, un modo di lavorare che ti faccia guadagnare.

    Cambia modo di pensare.

    Ricordo molto bene quando facevo il collaboratore di giornali e il mio capo mi chiamava dicendo “Hai 40 righe”. Ora mi viene da dirti che se sei in quella situazione dovresti scappare a gambe levate. La prima cosa che devi fare per avere un business model vincente nella tua attività giornalistica, quindi, è cambiare il modo in cui pensi il tuo lavoro e il modo in cui lo fai. Devi andare a cercare i soldi perché solo con quelli puoi andare avanti e devi farlo scardinando i comuni binari dell’editoria che hanno portato a situazioni devastanti come quella che puoi leggere qui, egregiamente affrontata dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia nella persona del Presidente Alessandro Galimberti.  Per mettere in atto il tuo “follow” the money devi smettere di pensarti come un giornalista e basta e iniziare a pensarti come un produttore di contenuti.

    Il cliente di un giornalista? Chiunque.

    Se smetti di pensarti come qualcuno che deve lavorare in un Ufficio Stampa-Tv-Giornale-Sito-Ente-Istituzione e cominci a pensarti come qualcuno che può lavorare per chiunque (viste le rivoluzioni avvenute con il marketing di contenuto e con il giornalismo di brand), perfino per i tuoi colleghi o per chiunque voglia avere una corretta immagine pubblica. Pensati come qualcuno che possa fare da facilitatore o da produttore, da insegnante o normalizzatore, da creatore di progetti editoriali a scrittore, da videomaker ad audiomaker.

    Nelle mie fatture dello scorso anno ci sono servizi di consulenza editoriale per persone fisiche e corsi di formazione, produzioni di brand journalism e realizzazioni video per campagne di crowdfunding. Ti può bastare come esempio? Il tuo business model deve essere basato su due concetti: o vendi la tua unicità o vendi servizi che puoi e sai fare bene in mercati che non sono il tuo o in modi non classici di prendere il denaro da qualche parte. Come? Pensaci. Pensa chi può avere bisogno dei tuoi servizi o chi (o cosa) possa darti talmente tanto seguito da rappresentare un driver di traffico tale che le tue piattaforme possano generare guadagni o le tue pubblicazioni essere vendute attraverso qualche servizio di direct publishing.

    Le piattaforme di pubblicazione? Creano per te dei business model.

    Già molto tempo fa avevo parlato del mondo del self publishing in questo articolo nel quale c’è una ottima intervista a Giulia Poli, al tempo (e forse ancora) Head of Kindle Content per l’Italia. Quel tipo di business model, quello che arriva dal pensarsi come un editore piccolissimo, è uno di quelli che sta iniziando a funzionare e funzionerà sempre di più. Ce ne sono molti altri e molti passano anche dagli stessi meccanismi che hanno arricchito gli Youtuber. Se ce la fanno loro, anche la tua professionalità può dare al tuo pubblico prodotti per i quali vale la pena pagare. Le piattaforme di pubblicazione, quindi, creano per te dei business model interessanti. Io, per esempio, ho aperto proprio in questi minuti Gumroad, che è una piattaforma che facilita la distribuzione di contenuti a pagamento verso il tuo pubblico. Il consiglio che ti do, tuttavia, è quello di essere tu protagonista nella ricerca dei canali che ti fanno creare il tuo business model sostenibile e duraturo. Altrimenti resterai sempre in difetto in un atteggiamento fondamentale della professione, specialmente ora. Di cosa sto parlando? Del cambiamento continuo sul quale devi “basare” la tua professionalità e il tuo lavoro di ogni giorno.

    Guarda fuori, guarda al mondo.

    Analizza le situazioni e i nuovi prodotti proposti dai media di tutto il mondo. Ti dico di più analizza gli errori. Te ne spiego uno che riguarda Snapchat e una delle televisioni più importanti del mondo, la CNN. Il network di Ted Turner ha chiuso il suo canale di storie via Snapchat.

    Business model e social: un mondo da esplorare
    Se cerchi la CNN su Snapchat non la trovi più

    La CNN fa flop su Snap.

    Istintivamente ti verrebbe da pensare: se la CNN ha chiuso, allora non vale la pena sprecare parole o atti per cercare. Ecco: è esattamente vero il contrario perché i grandi media stanno sbagliando tutto, a cominciare dai linguaggi. Per questo val la pena guardarli e guardare le loro mosse e la loro incapacità di cambiare linguaggio, per vedere e verificare dove la nuova domanda di lavori e di prodotti strani incontrerà la tua offerta. Perché sbaglia la CNN che, come vedi da questa foto, ha chiuso la sua finestra su Snapchat? Perché voleva replicare su Snapchat i linguaggi della tv. Ecco, appunto. E chiedersi prima cosa gliene poteva fregare ai ragazzi che snappano di un tg della CNN, no?

    Conosci Facebook Watch?

    In generale sai che sogno un mondo pieno di giornalisti e senza editori. Ecco uno dei modi per realizzare questo sogno è Facebook Watch di cui il professor Quinn aveva dissertato con me nel pezzo che puoi leggere qui. Se non lo conosci sarà il caso che tu ti sforzi, perché potrebbe cambiare molte cose, proprio nei giorni in cui Facebook riduce le speranze delle pagine delle aziende di comparire “da sole” (cioè senza pagare) nelle timeline dei clienti.

    Alcuni stanno già gufando…

    Su Facebook Watch ci sono tam tam che raccontano di nasi storti e di un business che stenta a decollare, come puoi vedere qui. Il fenomeno, però, è talmente embrionale che giudicarlo frettolosamente rischia di essere una cantonata. Ti racconto un paio di cosette in più sul fenomeno. Ebbene, le revenue saranno del 55% per il creatore di video e del 45% per il social, quindi se riesci ad avere i numeri per entrare nel giro avrai Zuck come socio di minoranza! Scherzi a parte questa app va nella direzione che è ben delineata nella testa del ragazzotto di Menlo Park. Una direzione che porta alla replica di Youtube e alla sostituzione, assieme allo stesso tubo, ai colossi dello streaming e a Amazon, dell’intero ecosistema della tv.

    Non sei ancora convinto? Sai che Amazon ha creato Echo Show e Facebook ha già iniziato a rispondere? Ti sembrano farneticazioni? Spiegoti e chiudo qui, invitandoti a pensare il business model in modo diverso. Da subito. Allora, il riccastro Jeff Bezos ha trasformato il suo spacciatore di contenuti di Amazon, Eco, in un diffusore di contenuti con lo schermo, il quale si chiama Echo Show.  Ebbene, ti do per certo che Facebook risponderà con Portal, un hardware che apre lo scrigno dei contenuti di Faccia Libro. Penso che tu ne abbia abbastanza per pensare business model vincenti da qui al 2090.

  • Social network live: la verità italiana? Nessuno ci sa fare

    Social network live: la verità italiana? Nessuno ci sa fare

    Social network live e altre storie sulle dirette.

    Sto testando Switcher Studio e tutte le sue applicazioni possibili, specialmente per formattare il servizio di dirette via social network (da Facebook live a Periscope, fino a Youtube live) al fine di poterlo vendere ai clienti. Di cosa sto parlando? Sto parlando di una delle migliori app per gestire dirette via piattaforme social in commercio. Se vuoi scoprire qualcosa in merito passa da qui (è un referral link).  Presto farò una approfondita review live di questo prodotto, parlando con i miei lettori delle sue “applicazioni” per la produzione e la vendita. Come sai qui parlo del mestiere e del futuro, della cultura mojo e di tante altre cose, sempre con un occhio alle cose che si possono fare per campare meglio. Guadagnando di più…

    Prima di raccontare di questo prodotto, però, mi sono trovato a pensare come si fanno in Italia i Facebook Live e le dirette social in genere. Beh, male. Io stesso non sono un granché, anche se nelle vacanze di Natale ho fatto dei lavoretti e dei piccoli investimenti per migliorare i miei live, visto che nel 2018 andrò live spessissimo. Ho esaminato con attenzione il panorama dei live di Facebook e affini, prodotto che nel nostro paese viene trattato in due modi, entrambi pessimi.

    Le scimmiottate della tv.

    Purtroppo le pagine Facebook delle maggiori testate italiane o i big della rete, in generale, riproducono dei loro live via reti sociali i format della televisione come talk show o telegiornali. Oppure danno dirette televisive come fossero un broadcaster normale. Quando non è così i giornalisti prendono in mano la situazione producendo contenuti mobile journalism, (magari durante le breaking news) che sono di qualità pessima e infinitamente più bassa rispetto alle volte in cui il segnale del social network live trasmette qualcosa di formattato. Queste scimmiottate della tv che spesso fanno poco conto (o troppo conto) dell’interazione con i lettori, sono davvero un pessimo modo di fare social network live.

    Oppure andare in diretta così, a caso…

    L’altra tendenza, soprattutto delle mezze figure del web o degli account social, è quella di schiacchiare il tasto live a capocchia. Già, hai letto bene: a cazzo. Magari senza mettere nemmeno un titolo accattivante alla propria performance, magari fatta in accappatoio uscendo dalla doccia. Lo fanno i tapini come me e te, ma lo fanno anche i grandi che vanno a braccio per minuti, per poi lasciare la netta impressione di non aver detto un beneamato ciufolo. Ecco, allora perché fare la stupidaggine di andare live senza motivo e magari senza titolo. Se lo fai è una mancanza di rispetto verso chi ti segue.

    Se vuoi andare live devi “essere un format”.

    Lo avevo già scritto in questo pezzo qui già qualche tempo fa. Si tratta di un articolo un filo datato, ma utile. Prima di schiacciare il tasto live devi essere in pieno controllo di molte cose ed essere consapevole di tutti gli strumenti che hai a disposizione. Le indicazioni di base te le fornisce Facebook in questa landing page sull’argomento, ma se vuoi avere delle indicazioni sui tipi di format da proporre per il tuo social network live, beh, puoi guardare anche questa pagina qui.

    Per sapere di più su come essere format nei social network live, ho deciso, tuttavia, di interpellare gli amici Sumaiya e Yusuf Omar del progetto HashtagOurStories. Loro due sono un format, con questo progetto strepitoso. Specialmente Sumaiya, in una diretta per la Thomson Foundation, ha regalato alcuni consigli molto importanti sull’impostazione di un Facebook Live, consigli che ha riassunto in una slide che mi sono fatto gentilmente girare.

    social network live

    Credo che il centro delle cose sia tutto qui, in questi titoli.

    Se scorri i punti di questo riassunto della slide usata da Sumaiya troverai tutto quello che serve per andare in diretta con un criterio. Oltretutto se pensi a quello che c’è scritto, beh, molto ti risulterà, diciamo, giustificato, quasi ovvio. E’ altrettanto chiaro, però, che devi andare live sui social network quando hai davvero qualcosa di formattato tra le mani. Deve essere importante il luogo, importante e precisa la titolazione, minuziosa e capillare la diffusione della trasmissione per ingaggiare più persone possibile, deve esserci una storia da raccontare, un personaggio da intervistare o un evento da far vedere.

    Il luogo conta perché è metà racconto.

    Lo schedule deve essere attento al pubblico che vuoi raggiungere, l’inquadratura ben allestita e, quando possibile, orizzontale e fornita di un buon audio. L’idea delle immagini da mostrare deve fare anche rima con una esperienza da condividere, con un posto da far vedere per il quale la sola visione possa essere qualcosa di emozionante. Sarà banale, ma se faccio un live dal mio bagno o da Piazza Duomo a Milano penso che il secondo sia più “stimolante” del primo. Ricordalo. Devi saperti ripresentare più volte, rispiegando a chi si mette in contatto a metà trasmissione il motivo di quel live, ma devi anche saper intrattenere rapporti con chi ti guarda e commenta. Magari accorpando le risposte in un momento di interazione poi continuando il tuo live. Certamente, però, non commentare quello che ti viene scritto è negativo, molto. Bisogna, però, saperlo fare senza interrompersi mille volte.

    Tempo, suspense e contenuto interessante.

    Un’ altra cosa da fare? Essere prudente nelle informazioni, nelle dichiarazioni, perfino nei movimenti. Devi anche saper creare suspense per tenere il più possibile ingaggiati i tuoi spettatori. Sinceramente il web è pieno di dirette senza nessun motivo con gente che sta in una specie di acquario e saluta chi si collega… Ecco, quello magari lasciamolo agli Youtuber di gaming…

    Il tempo è il tuo alleato principale e se tiri 10 minuti, con cambi di passo, magari con testi, con video registrati inseriti nel live o con altre truccaglie per cambiare il ritmo della tua trasmissione la strada del successo si aprirà più facilmente. Comunque la cosa più importante resta il rapporto tra luogo e contenuto che sia di qualità: il resto è contorno.

    Eccoti la bibbia del genere, se hai bisogno di un punto di riferimento.

    Content is king, quindi, un’altra volta. Se, tuttavia, hai bisogno di una vera e propria bibbia che ti introduca ai segreti del mondo del live, ti consiglio questo libro di Peter Stewart, uscito nel novembre del 2017. Si intitola “The Live-Streaming Handbook: How to create live video for social media on your phone and desktop” ed è un vero capolavoro per chi voglia conoscere tutto su questo mondo così particolare e importante per il presente e il futuro del nostro lavoro. 

     

  • Giornalismo 2018: per vivere bisogna cambiare linguaggio

    Giornalismo 2018: per vivere bisogna cambiare linguaggio

    [fusion_builder_container hundred_percent=”no” equal_height_columns=”no” menu_anchor=”” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” class=”” id=”” background_color=”” background_image=”” background_position=”center center” background_repeat=”no-repeat” fade=”no” background_parallax=”none” parallax_speed=”0.3″ video_mp4=”” video_webm=”” video_ogv=”” video_url=”” video_aspect_ratio=”16:9″ video_loop=”yes” video_mute=”yes” overlay_color=”” video_preview_image=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” padding_top=”” padding_bottom=”” padding_left=”” padding_right=””][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ layout=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” border_position=”all” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” center_content=”no” last=”no” min_height=”” hover_type=”none” link=””][fusion_text]

    Giornalismo 2018: per dare una mano cambierò nuovamente mezzi e modi.

    In questi giorni, nella penombra del mio piccolo studio, sto progettando il prossimo anno di lavoro. Lo sto progettando nei concetti, nei viaggi, nei miraggi, nei progetti e nei linguaggi. Questo 2017 è stato un anno bellissimo e ha avuto il pregio di essere un anno pionieristico. Spero di aver costruito una community interessata a questa materia e a quello che sarà il giornalismo nel 2018 e negli anni a venire. Strano, ma siamo di fronte a un cambiamento di epoca, nel quale, però, i giornalisti, specialmente italiani, stanno recitando per la massima parte il ruolo delle vittime, invece che quello dei protagonisti. Per questo motivo, nel 2018, in questo progetto in cui al centro c’è la mobile content creation e tutte le sue sfumature e ai lati l’innovazione, il mio obiettivo numero uno sarà cambiare il linguaggio, pur rimanendo nell’ambito del giornalismo.

    Ormai il giornalismo può e deve essere ovunque.

    Non comprendo più i confini di un medium e la sua necessità di esistere in quanto mezzo oppure in base al suo passato o magari in base ai poteri economici che possiede. Accetto la sfida che il giornalismo debba essere ovunque e non dentro i confini di un paradigma che ha perso peso, onestà e potenza come quello dei media come oggi li conosciamo. Nel giornalismo targato 2018 non possono esserci confini, modelli, linguaggi che siano giusti e linguaggi, confini e giornalismi sbagliati.

    Nel giornalismo 2018 posso ritenere di essere un punto di riferimento da cui si fa direttamente quando si vuole sapere qualcosa di nuovo sul mobile journalism. Ho una nicchia, una specificità e un parco dove rappresentare un porto cui approdare. Per questo motivo, nel giornalismo 2018, non credo che si possa ancora parlare di giornali buoni e giornali sbagliati, di tv buone e cattive. Il linguaggio del giornalismo deve raggiungere il lettore ovunque. Nemmeno soltanto su Snapchat o su qualche social. Il giornalismo 2018 sarà un tweet, uno snap, una storia, un reportage, ma anche dei moments, un percorso visuale, un’esperienza umana, un trasferimento di emozione. una moltiplicazione di punti di vista.

    Da una moltiplicazione di linguaggi a una moltiplicazione di modelli di business.

    Il mio guru di giornalismo Michael Rosenblum, che sia il 2018 o il 2052, dice sembre una cosa: “No money, no good journalism”. Allora il giornalismo 2018 è un giornalismo che va pagato, per farlo andare verso la metamorfosi. Un giornalismo che deve sperimentare modelli senza editori, linguaggi senza verità preconfezionate. Il tg? Forma morta. Il quotidiano? Nessuno capisce dove va. Però ci sono modelli che funzionano e che bisogna avere il coraggio di proporre al mercato. Il giornalismo 2018, per essere chiari, andrà fatto su qualsiasi mezzo e in qualsiasi modo possa rompere gli schemi. Tuttavia andrà anche pagato. Punto. Ora che non seguo più Salvini o i pedatori allo stadio, ora che non faccio servizi da tg da 1’40” non mi sento meno giornalista. Vedrete che nel 2018 mi allontanerò ancora da questo vecchiume, in un modo che non potrete dimenticare, ma non potrete non ritenere giornalismo. Tra l’altro totalmente mobile.

    Poi c’è il rivoluzionario Rosenblum che traccia un’altra strada.

    Bisogna cambiare linguaggio nel giornalismo 2018. Ho visto tutto il lancio di questa iniziativa imprenditoriale che si chiama Brooklyn Tv e che è il primo esempio di local tv crowdfunded e crowdsourced del mondo (credo). Se non lo è beh, Michael è figo lo stesso. Comunque per un territorio da oltre 20 milioni di persone il nostro si è inventato la prima Local TV crowdsourced. I cittadini verranno formati per fare i mobile journalist e pagati per i servizi che fanno. Potranno, se non ho capito male, anche detenere quote della TV ed entrare nelle stanze dei bottoni. Vedremo quando andranno “onair”, ti terrò informato.

    Concludendo, nel 2018 inizio la trasformazione e la produzione di contenuti, con nuovi linguaggi e nuovi formati. I timidi test che ho fatto sono poca, pochissima cosa. Il tutto con l’obiettivo di puntare a nuovi luoghi e nuovi modi di fare giornalismo…. attenzione, attenzione… VENDIBILI!. Confrontiamoci, parliamoci, scanniamoci, ma lasciamo a terra qualsivoglia tipo di verità costituite. Qui di verità non ce n’è più. Il primo gennaio, io, ricomincio da zero questo progetto. Vieni con me?

    [/fusion_text][/fusion_builder_column][/fusion_builder_row][/fusion_builder_container]

  • Storytelling mojo: meglio organizzi, meno lavori

    Storytelling mojo: meglio organizzi, meno lavori

    Storytelling mojo: qualche dritta e qualche strumento.

    Mi è capitato più di una volta, parlando con studenti dei miei corsi e colleghi, di parlare dello storytelling mojo e dei suoi linguaggi, delle sue possibilità e dei suoi strumenti. Voglio darti un due dritte, qualche consiglio e uno strumento per poter organizzare al meglio le tue uscite mojo. Il motivo è semplice e, se segui il mio blog, potresti averlo capito anche da questo articolo qui, ormai datato. Quando sei sul campo, visti gli strumenti agili e per certi versi limitati che usi, non devi perdere tempo e sprecare frame.

    Ti sarà facile pensare, quindi, che meglio ti organizzi quando sei alla scrivania, pensando alla struttura del tuo pezzo, alle interviste (magari da raggruppare in un solo posto per farle tutte assieme), alle immagini di copertura che potresti fare prima, più efficace sarai quando sei onfield.

    Voci, pensa a un mix.

    Se la tua storia ha un protagonista solo, sarà facile fissare con lui un appuntamento in un luogo significativo per la sua storia, un luogo che sia poco rumoroso. Se le voci sono più di una, scegli prima se orientarle tutte a esperti o mettere anche voci della gente (sempre di impatto). Se è cosi raggruppale tutte in un posto e falle per prime, scegli un mix giusto e struttura su quelle la tua storia.

    Le coperture necessarie.

    In quel pezzetto di qualche mese fa raccontavo anche qualche tecnica per fare le immagini di copertura. Ora ti aggiungo alcune riflessioni sul fatto che anche fare le immagini di appoggio per i video deve assolutamente essere un’operazione consapevole. Per questo motivo, infatti, ti suggerisco una proporzione di 2 a 1 per il calcolo delle coperture da fare per non ritrovarti a perdere le ore sul montaggio di un pezzo. Hai un minuto di video, fai due minuti di B-Roll. Per me se stai lavorando in velocità e devi soltanto coprire un’intervista basta pure un rapporto 1,5 a 1, ma 2 a 1 e’ ottimale. Per questo, se ti sei già scritto la storia nella testa, fatti anche la lista di coperture che spunterai quando sei sul campo.

    Un ultima cosa: ci vuole lo storyboard.

    Se ti va ti do una sequenza di inquadrature interessanti che possono rappresentare l’ossatura di un pezzetto da due minuti che mantenga l’attenzione e racconti lo sviluppo di una storia.

    1. Apre un’azione che coinvolge il protagonista della storia, il succo del suo messaggio o l’evento che sta accadendo: 10/15 secondi.

    2. Frase: presentazione, messaggio, racconto della storia se essa ha un protagonista solo. Se è un evento le parole dei protagonisti 15/20 secondi.

    3. Cambio di passo: seconda azione sorprendente o significativa. 10/15 secondi. Musicata o speakerata.

    4. Seconda parte del racconto: elementi di unicità della storia o messaggi dell’evento che si sta vivendo. Altre voci di protagonisti se è un evento o ulteriore racconto se la storia ha un solo protagonista. 15/20 secondi.

    5. Ultima azione speakerata o musicata che racconti un passaggio emblematico di un evento o un posto particolare per il protagonista della storia. 15/20 secondi.

    6. Finale con ultima frase del protagonista o dei protagonisti 10 secondi.

    Questo non è il Santo Graal o la Bibbia dello storytelling mojo, anche perché lo storytelling mojo appartiene anche molto alla nostra creatività. Questo è solo uno dei modi di raccontare una storia, una storia che sia di una persona o di un evento. Trovati però il tuo, di modo di fare storytelling mojo. Scegli il tuo storyboard e ricordati solo tre cose molto importanti per tutti i video sul web:

    1. Devi far superare a chi guarda i primi tre secondi del video.

    2. Devi farlo resistere fino alla fine della curva dell’abbandono.

    3. Al 35esimo-40esimo secondo al massimo devi far cambiare passo. Il punto tre dell’elenco sopra è il più importante.

    Tuttavia l’ingrediente fondamentale di tutto resta un altro: sei tu.

  • Flash storage per telefonino: la salvezza del mojo

    Flash storage per telefonino: la salvezza del mojo

    Flash storage: prima la definizione.

    Spetta, non te ne andare. Prima ti dico cosa è il flash storage e a cosa serve. Poi parliamo della sua grande importanza per il lavoro in mobilità, per il lavoro da mobile journalist. Insomma, dai parliamo papale, papale. Mi sto riferendo alla memoria flash, quella delle chiavette, la quale è stata di recente orientata anche al mercato degli smartphone con evidenti effetti positivi sul lavoro e sulla capacità di questi ultimi di prendere immagini. Faccio una cosa banale per chiarire il tipo di memoria di cui parlo. “La memoria flash, anche chiamata flash memory, è una tipologia di memoria a stato solido, di tipo non volatile, che per le sue prestazioni può anche essere usata come memoria a lettura-scrittura“: faccio una cosa bruttina, vale a dire copiare la definizione di Wikipedia, ma spero ti aiuti a capire.

    Uno dei limiti fisici del telefono.

    La memoria limitata dei telefoni, anche se dai 256 giga in più potremmo mettere in discussione la definizione di memoria limitata, è uno dei limiti fisici del telefono nel suo lavoro da filming machine. Il flash storage viene in soccorso in modo egregio e aiuta quando ci manca lo spazio per continuare a contenere nel telefono la produzione di immagini.

    Va detto che, quando uno parte per fare una mojostory, deve partire con almeno tre giga di memoria (tra l’altro, anche quella che c’è dentro il telefono è flash storage) liberi nel telefono. Se non li ha consiglio di fermarsi a scaricare in una flash storage il girato, catalogandolo subito, per poi riprendere. Quali sono gli strumenti utili del flash storage?

    La chiavetta santa.

    Per me che produco in iOS e edito in Luma Fusion la chiavetta santa è questa. Si tratta della Sandisk Usb-Lightning che può operare direttamente in collegamento con l’iPhone tramite una app che si chiama Sandisk iXpand e che puoi trovare qui. Si tratta di un prodotto veloce ed efficiente, uno strumento che può aiutare anche una prima catalogazione delle immagini che risulta poi importante quando passi a una app di montaggio e devi lavorare a una mojo story. Non so se lo hai letto, ma ti parlo qui di una chiavetta da rifuggire come la peste: questa. Si tratta di una chiavetta wi-fi della Sandisk, decantata come utile da molti grandi del mobile journalism. Per me è una disgrazia e ora ti spiego perché.

    Le chiavette wi-fi sono un grande bluff.

    La trasmissione dati wi-fi è una trasmissione molto, molto più lenta della trasmissione fisica dei dati che avviene quando il vostro telefono è collegato all’unità di flash storage che deve recepirne le immagini. E’ una cosa molto banale, ma che va ribadita per non perdere il contatto con il fatto che la velocità è una delle caratteristiche importanti del mobile journalism. In generale la trasmissione per via aerea, dunque, ha protocolli di trasferimento dei dati peggiori del trasferimento fisico, specialmente in memorie flash che hanno la capacità di fare lettura e scrittura in un solo flusso. Per questo motivo chiavette come quella che ti ho fatto vedere nel link di sopra sonno perfino in grado di fare streaming in un iphone o in un iPad di film interi senza occupare la memoria della device.

    Nel mondo Android scelgo una strada diversa.

    Il mondo Android è quello che più si avvicina ai computer. Per questo motivo, visto anche il fatto che il file classico di uscita dei telefoni Android è il .mp4, preferisco suggerirti una chiavetta “lettore” che non ha memoria interna, ma può trasferire i file presenti nel tuo smartphone a una flash storage di tipo SD o, addirittura, microsd. E’ la soluzione migliore per passare i tuoi file, per esempio, da una camera DSRL al telefono o al tablet per montarli. Oppure per passare dal telefono al computer (e qui non continuo perché penso tu sappia, se mi segui, che io il computer non lo prevedo). Ce ne sono tante, non sai quante. Io ne ho una che ha una app di lettura solo in cinese e mi sono fatto dire dal negoziante sotto casa come si faceva a usarla.

    Ultimo suggerimento (ovvio ma non troppo).

    Per trasferire i file usate degli storage online che non comprimano la qualità del video, riducendola. Drive, Wetransfer, Dropbox, vattelapesca cosa. Soprattutto non fare la cazzata di trasferire contenuti per uso professionale con app di messaging come Whattsap, Messenger, Skype o Telegram. E’ indubbio che comprimano e riducano la bontà dell’immagine che fai.