Autore: Francesco Facchini

  • La follia di Trump, il Facebook Bias e la salvezza nel mobile journalism

    La follia di Trump, il Facebook Bias e la salvezza nel mobile journalism

    Proprio in questa notte di follia di Trump.

    Proprio in questa notte in cui Donald Trump apre le trombe della sua antipolitica folle spaccando il fragile equilibrio del Medio Oriente forse per sempre (“Riconosciamo l’ovvio, vale a dire che la capitale di Israele è Gerusalemme”) viene perfetto cercare di dare una risposta all’amica Simonetta che, qualche ora fa, si è chiesta come mai il giornalismo, in particolare modo quello italiano, non funzioni più nel modo obiettivo con il quale funzionava 40-50 anni fa. Le ho promesso che avrei risposto sul blog e, sinceramente, non pensavo di essere aiutato in un modo talmente evidente proprio da quell’idiota del 45esimo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

    Trump è il prodotto di un algoritmo pagato o “diretto”.

    Bene, la malattia dei media è iniziata più o meno una trentina d’anni fa quando qualcuno ha pensato che l’informazione potesse anche essere spettacolo. Al nascere dell’ infotainment, vale a dire di quella serie di programmi e di format, ma anche di media, di siti e di riviste che coniugavano e coniugano ancora l’informazione con l’intrattenimento, sono crollate le cinque W che reggevano il sistema di un informazione corretta. Prima c’era solo il fatto, riferito e connotato, corredato al massimo di tutte le voci pro e contro una determinata situazione.

    Da quel momento in poi Trump e i suoi cloni (Berlusconi in Italia) hanno costruito un nuovo archetipo dell’informazione che ha rinunciato a quello per creare community che rappresentassero un tipo di cliente “profilato” cui destinare una certa pubblicità, piuttosto che un’altra. La neutralità dei media è diventata discrezionalità, i giornali e le tv hanno iniziato a dire da che parte si doveva stare. I Trump e i suoi cloni sono diventati prima i proprietari, poi addirittura i prodotti di un algoritmo pagato o, comunque, diretto a creare bacini e comunità di consenso.

    Con i social media è poi il “bias” è diventato parte di noi.

    I social media hanno preso possesso dell’informazione mondiale travolgendo tutto il resto e lo abbiamo visto proprio con Trump. Il nostro ha spinto sull’acceleratore del populismo usando il bias alimentato dagli algoritmi, adeguatamente allestiti o “pagati”, delle piattaforme di scambio sociale sul web. Ma che diavolo è il “bias”, diventato parte integrante nella nostra vita proprio con i social? E’ un errore cognitivo basato sul fatto che preferiamo sviluppare interpretazioni sulla base delle informazioni che abbiamo in possesso di un determinato accadimento. Il mancato approfondimento dato dalla necessità di ricevere conferma della nostra corretta visione delle cose, porta distorsioni nel campo cognitivo e falsificazione della realtà.

    Facebook ha molte colpe

    Il social che più ci attira è Facebook, perché ci mette dentro un mondo di rassicurante vicinanza a noi, appunto grazie a un algoritmo che ha il merito (o meglio il demerito) di creare un onda di bias costante. Questo crea community sempre vicine e autoreferenziali e media che hanno cominciato a intrattenere una relazione con i propri lettori o spettatori sempre più distorta. Di Facebook Bias ne parla molto bene il New York Times in questo articolo, ma è sempre più chiaro che, nella pancia del social di Zuck o delle timeline di Twitter si sia creato questo mostruoso caso di antipolitico al potere che si chiama Trump. E’ come se il buon Donald avesse prima instillato la distorsione nei media con l’infotainment, poi si fosse messo a cavalcarla, nel mare del web, fino ad arrivare, cavallone dopo cavallone, alla Casa Bianca.

    Come il bias governato ad arte può cambiare il mondo.

    Se vuoi comprendere bene cosa sia successo e stia succedendo nella politica dei social network anche questo pezzo del Washington Times aiuta molto. Anche Google e tutti gli altri mostri del web hanno le leve del condizionamento in mano e creano bias ad arte, vere e proprie distorsioni. La cosa che mi turba più di tanto è che del bias parlano in pochi, ma condiziona tutti, delle fake news (che sono sinceramente un problema del cazzo) parlano in tanti e condiziona pochi. Un bias può cambiare il mondo per sempre, basta vedere la pazzesca operazione di cui ho parlato all’inizio che, stasera, non farà chiudere occhio soprattutto agli americani, ben consci della gravità delle azioni di governo di questo folle che è Donald Trump.

    Questa distorsione dei media, basata su errori cognitivi collegati alla necessità di essere rassicurati e accondiscesi, all’interno di community autoreferenziali come le nostre comunità social, è la grande malattia di oggi che deve essere guarita con un antidoto. Quale? La ricerca della diversità, della moltiplicazione delle voci, del ritorno dei campi e dei controcampi, dei punti di vista a 360°, dell’immersione esperienziale nei fatti e non nell’angolo guidato da una telecamera.

    Qual è la possibile salvezza?

    Stiamo raggiungendo livelli di disordine nel mondo pari ai tempi della guerra fredda o peggiori. Queste distorsioni sono all’ordine del giorno e ci impongono di essere attori della corretta informazione. Il mobile journalism e la sua capacità di far vedere più lati di un fatto con estrema facilità è un antidoto importante, ma è ancora più importante la formazione di una cultura digitale coerente che diventi al più presto materia del nostro vivere corrente e delle nostre scuole. Contro la distorsione delle comunità social nelle quali viviamo, le quali danno ragione al nostro pensiero senza metterlo in discussione, dobbiamo cercare la diversità, costruire la diversità, amare la diversità. Solo così ci potremo salvare da Donald Trump e da tutte quelle stanze dei social network che ci danno ragione. Mio figlio non ha bisogno di avere ragione, mio figlio ha bisogno di visione multipla della realtà. E io gliela darò. Voi?

    Simonetta, spero di averti spiegato come mai l’informazione è morta. E’ tutto scritto qui. Anche se forse c’è una cosa che non ti ho detto: in Italia c’è qualcosa di peggio che è l’impoverimento dei media nazionali che si seguono l’un con l’altro per paura di non avere l’uno le notizie che ha l’altro. Sai cosa succede alla fine? Che sono tutti uguali a Repubblica.it del giorno prima o di qualche ora prima. Quindi in Italia manco abbiamo solo il problema del bias, ma anche il problema di un intero mondo dell’editoria che si copia e si parla addosso, spesso dandosi ragione. Facendo morire la coscienza intera di una nazione.

  • Il mobile journalism? Semplice e in continuo cambiamento

    Il mobile journalism? Semplice e in continuo cambiamento

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    Le indicazioni di una settimana di corsi di mobile journalism.

    La scorsa settimana ho affrontato per la prima volta l’esperienza di una docenza di livello universitario presso i Master della Iulm concernenti il mondo del “Beauty e del Wellness” e l’ambito professionale della “Food and Wine Communication“. Cosa è successo? Il finimondo naturalmente… in senso buono, un finimondo concluso con uno splendido minicorso base di mobile journalism nella community di Italianmojo, esattamente l’ultimo del 2017.

    Quello che ho visto negli occhi degli altri.

    Ti confesso: ero emozionato prima di cominciare questa esperienza, essendo completamente novizio della docenza. Niente, in pochi minuti mi sono sentito parte delle mie classi, gestendo didattica ed errori di “gioventù” (si, dai, almeno come professore sono giovane :-)) con estrema naturalezza. Ho attraversato la storia, la grammatica visuale, l’hardware, il software, il filming, l’editing, iMovie, Kinemaster, i trucchi e l’essenza di questa nuova materia con un obiettivo, sperando di raggiungerlo. Vuoi sapere qual era? Volevo che tutto sembrasse semplice. Volevo che le persone che avevo di fronte sentissero arrivare il “calore” di questa nuova cultura, la sua vicinanza e la sua immediata fruibilità, prima delle disquisizioni tecniche o di grammatica visuale. Volevo che il mobile journalism che stavo insegnando fosse semplice.

    Quello che ho visto negli occhi delle oltre 50 persone che ho incontrato nei tre giorni di insegnamento è che sono riuscito a trasmettere questo valore, quello della semplicità del mobile journalism. L’ho visto nelle giovani studentesse del mondo del beauty, nel mondo più variegato che si interessa della cucina e del vino, ma anche nel mondo dei professionisti del giornalismo che sono venuti a Italianmojo sabato. Giornalisti di esperienza o comunicatori di vaglia, studentesse del mondo della bellezza o cultori della comunicazione del mondo del vino: tutti hanno recepito la semplicità di questa materia.

    Correzioni del colore e gimbal? No, pure mojo.

    Il mobile journalism che ho cercato e cerco di diffondere è puro e tende solo a far esprimere al massimo le potenzialità dello smartphone all’atto della produzione dei contenuti editoriali che sono utili alla professionalità di chi lo interpreta. Non sono andato dentro i tecnicismi, non ho “violentato” il mobile facendolo diventare un nuovo tipo di videomaking, ma un filo più sfigato. Il mobile journalism è e resta un linguaggio unico, differente, con i suoi enormi punti di valore e i suoi limiti strutturali. Renderlo criptico con potenti soluzioni tecniche e con importanti hardware di correzione dei limiti che ha la macchina, mi sembra un esercizio di una assurdità enorme. Insomma, mojo tecnico? No, pure mojo. Io vado da quella parte…

    Il mobile journalism è una filosofia nuova e in continuo cambiamento

    E quando parli di nuova filosofia o di nuova cultura, quello che devi fare se la studi è capirne quello che di buono può essere per te. Se la insegni, invece, la devi “girare” a chi la riceve con le chiavi in mano per aprire una porta che apre un mondo semplice e utile, chiaro ed efficace. Il mobile journalism è una filosofia nuova e un nuovo linguaggio, il quale fa rima con il cambiamento della prospettiva. Il mobile journalism è questione di storie da raccontare con l’agilità e la potenza del telefono, il quale non crea immagini che “replicano” il linguaggio della telecamera, ma ne fa nascere di nuove. Il linguaggio video del mobile è più vicino, più smarcato, più agile, più profondo, più intimo e più artigianale, se vogliamo curato. Sono molto felice di essere riuscito a farlo capire ai miei studenti. Ultima nota: il mobile journalism cambia tutti i giorni e trova nuove forme e nuovi hardware. Giovedì, con il prossimo articolo, ti racconto una esperienza diretta, un altro test sul campo che, per ora, puoi trovare sulla mia fanpage di Facebook.  Il mobile journalism è anche questione di punti di visione della realtà.

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  • Granovetter, il maestro dei mobile journalist per creare lavoro

    Granovetter, il maestro dei mobile journalist per creare lavoro

    Creare lavoro: il mojoer deve conoscere bene le dinamiche.

    Sono al termine di una giornata memorabile. Ho vissuto oggi il primo giorno ufficiale della mia seconda vita, quella del “prof”. L’ho vissuto da docente-testimone di un master in Management e Comunicazione del Beauty e del Wellness presso la Iulm. Un’ emozione vera e un primo passo molto importante dentro la formazione di livello accademico per la mobile content creation italiana.

    Sono qui che scrivo con ben poca energia, ma voglio rispettare la mia scadenza di pubblicazione di giovedì, anche se per un pelo. Lo voglio fare regalandoti un contributo a mio avviso determinante per la creazione di una carriera che non arresti mai la sua crescita. Lo faccio oggi perché emozionato dal fatto che questo nuovo compito mi è stato girato da uno di quelli che il sociologo americano Mark Granovetter chiama un “legame debole”. Spero di ringraziarlo adeguatamente ripagandolo della fiducia che ha riposto in me e anche consegnandoti questo documento di valore eccezionale.

    Mi hanno fatto rialzare i legami deboli.

    In questo documento spettacolare, Mark Granovetter, ancora operativo come professore di sociologia a Stanford, racconta come, per creare lavoro, siano decisivi i legami più esterni della propria sfera di conoscenze sociali, non certo quelli più vicini. In questa rivoluzione completa della mia vita (e ancor più in questa serata) posso affermare che sono stati proprio i link con persone conosciute da poco quelli che mi hanno dato linfa, lavoro, conoscenze, valore.

    Il motivo? Semplice. Per creare lavoro bisogna scambiare valore senza paura di poter perdere posizioni, senza alcun timore di venire “fregati”. Se infatti, ci sono predatori che possono “razziare” dei link che ci siamo costruiti, è evidente nei fatti che il coltivare legami di valore e dare prima di ricevere, è un’operazione che porta frutti diversi e duraturi del “fotti fotti” tipicamente italiano. In questo anno a me è capitato decine di volte. Per creare lavoro, insomma, bisogna fare leva sulla forza dei legami deboli. Dando valore, prima di riceverlo.

    Il fondatore della sociologia economica.

    Mark Granovetter non è un sociologo qualunque. E’ forse il più importante sociologo vivente e padre della sociologia economica. E’ un punto di riferimento anche di Rudy Bandiera, grande divulgatore dei legami via reti sociali. Nel suo lavoro più importante La forza dei legami deboli, il nostro teorizza che, per citare Wikipedia, “i soggetti inseriti in legami deboli, fatti cioè di conoscenze amicali non troppo strette, hanno più possibilità di accesso ad informazioni e quindi di potenziali posizioni lavorative di proprio interesse, rispetto a coloro che investono socialmente soltanto nei legami forti, cioè i familiari, i parenti e gli amici intimi”. Ecco come si crea lavoro: coltivando e scambiando valore con i legami deboli, con le relazioni più esterne rispetto alla propria sfera.

    Vuoi il regalo? Eccoti servito: buona lettura. LA FORZA DEI LEGAMI DEBOLI.

     

  • Giornalismo digitale: le redazioni sono pericolosamente indietro

    Giornalismo digitale: le redazioni sono pericolosamente indietro

    Giornalismo digitale: una fotografia abbastanza impietosa.

    Per fortuna l’Italia non è la “pecora nera” del ritardo della digitalizzazione delle newsroom di tutto il mondo, ma in ogni caso non c’è da stare allegri. A fare “lo stato dell’arte” del giornalismo digitale mondiale ci ha pensato in questo periodo l’International Center for Journalist, un’istituzione americana che dal 1984 sviluppa la cultura della professione giornalistica connessa all’innovazione.

    ICFJ ha collaborato con altri enti di livello internazionale come Georgetown University o la Knight Foundation, ma anche con grandi firme del mondo tecnologico come Google, Survey Monkey, Storyful o Twitter, per cercare di comprendere l’avanzamento verso la digitalizzazione completa delle newsroom di tutto il mondo. Pericolosa la fotografia che è uscita dal lavoro accademico. Una fotografia che tutti dovrebbero leggere e che parla di una situazione di resistenza quasi strutturale al cambiamento.

    Una prima assoluta.

    L’International Center for Journalists, organizzazione con sede a Washington e con collaborazioni strutturate come la Knight Foundation, ha realizzato una “prima assoluta” promuovendo la ricerca “The State of Technology in Global Newsroom”. L’obiettivo è stato cercare di comprendere, grazie a un board di ricercatori di primo livello, a che punto sia la trasformazione digitale del lavoro tuo e mio. Già che sono ringrazio subito la bravissima collega australiana Corinne Podger per avermi dato lo spunto e la possibilità di trovare questo documento che ha messo a nudo le resistenze di una professione al futuro.

    Nelle 77 pagine della survey l’ICFJ tratteggia un mondo in cui, tanto per dirne alcune, nelle newsroom solo il 5% ha degli studi tecnici alle spalle, mentre il 2% viene assunto prendendolo dal mondo del digitale. Solo l’1% degli addetti nelle newsroom è un analytics editor, mentre è particolare anche la percentuale dei manager delle newsroom che sono per il 64% preparati sotto il profilo digitale, contro il solo 45% della forza lavoro dei giornalisti che dirigono. Insomma, di digital ne sanno più i capoccia di quelli che dovrebbero essere gli interpreti del giornalismo digitale.

    Parliamo di fake? Parliamone dai..

    Ecco la cosa davvero brutta o, perlomeno, quella che a me sembra la peggiore di tutte. Dalle indagini statistiche svolte per “The State of Technology in Global Newsroom” pare che solo l’11% usi dei tool di verifica delle notizie fra tutti i giornalisti sentiti per l’indagine. Assurdo, ma vero. Vogliamo parlare di fake news? Facciamolo dai, però prima raccontiamo questa percentuale..

    L’eredità di Tom e Liebe…

    Il documento è l’ultima frontiera per fotografare il cambiamento delle newsroom che sta avvenendo con lentezza e con un filo di malavoglia, se non addirittura di desiderio di non procedere verso il futuro. Una situazione assurda per una professione che viene giornalmente ridimensionata e ridicolizzata dalla velocità con la quale cambia il mondo che le gira intorno. E’ un documento di valore eccezionale, una ricerca che fa riflettere molto e, probabilmente, è il lavoro più coraggioso dell’istituzione nata nel 1984 in un ufficetto dal desiderio dei coniugi giornalisti Tom e Liebe Winship.

    Lui pluripremiato Pulitzer del Boston Globe, lei titolare della famosissima rubrica “ask Beth”, alla fine della loro carriera hanno deciso che la loro missione era condividere la cultura del giornalismo in tutto il mondo. In 33 anni hanno fatto i “disastri” entrando in contatto con 100 mila professionisti di questo settore in 180 diversi paesi. Ecco, comunque, lo strepitoso lavoro di cui ti ho parlato e che ti dovresti “bere” al volo. Buona lettura.

    The State of Technology in Global Newsroom.

  • Mojocon è morta, ma la community del mobile journalism è viva

    Mojocon è morta, ma la community del mobile journalism è viva

    Oggi pomeriggio la notizia e i commenti si susseguono ancora.

    Allora, ho alcune notizie fondamentali sulla community internazionale dei mobile journalist che in queste ore sta fibrillando e non poco. Quali sono? Vado con ordine: il grande capo di Mojocon, la Mobile Journalism World Conference, sto parlando di Glen Mulcahy, ha lasciato la tv di stato irlandese RTE. Il tutto dopo aver fatto nascere e crescere la community internazionale della mobile content creation nell’arco di tre edizioni di una manifestazione nella quale ha riunito il meglio al mondo di questa cultura. Nella community si sapeva, ma non c’era alcun accenno di futuro per la manifestazione. Si sapeva dell’addio di Glen a RTE, ma non del destino di Mojocon. Fino a oggi pomeriggio.

    Con un “Important Announcement” proprio Glen Mulcahy ha comunicato di aver ricevuto dall’azienda dalla quale è dimissionario, l’invito formale a chiudere la fanpage di Facebook di Mojocon e l’account Twitter di Mojocon. La notizia ha scatenato un putiferio di commenti che si stanno susseguendo anche in questi minuti, dato che la community dei mojo abbraccia fusi orari da Brisbane a New Dehli.

    Il futuro è adesso.

    Alcune indiscrezioni erano filtrate nei giorni scorsi e facevano pensare a una continuità del binomio RTE e Mojocon, magari nelle mani del geniale Philipp Bromwell. La mannaia sugli account, però, ha fatto comprendere che il broadcaster di Dublino ha considerato, di fatto, l’attività di Mojocon una fringe activity, decidendone la chiusura ufficiale. Il tutto considerando anche il piano di crisi da 250 licenziamenti che deve fronteggiare. La notizia è, tuttavia, anche simbolica rispetto al momento della community del mobile journalism. Il mojo non è ancora considerato centrale per il futuro delle tv e dei broadcaster che continuano (sbagliando) a considerare i modelli produttivi classici come gli unici possibili per la tv di oggi. Presto si accorgeranno dell’errore.

    Un account twitter conta

    Questa richiesta di RTE a Mulcahy, di zittire le tracce ufficiali di Mojocom, ha accellerato, tuttavia, i propositi dello stesso Mulcahy che, per storia personale e per l’impresa di aver realizzato Mojocon, è considerato il capo della community mondiale. Il giornalista di Waterford, stante il veloce avanzare degli eventi, ha rivelato a tutti alcune delle caratteristiche di un nuovo progetto di evento per la comunità Mojo. Innanzitutto ha aperto questo account Twitter che, già dalla bio, sembra dire molto: “More than just a conference, Mojofest is the next evolution in Mojo, a celebration of the creative community that harness smartphones for digital storytelling.”.

    Si parlerà anche di Cinema…

    L’idea è chiara ed è quella di creare un evento nel quale l’idea di Festival e l’idea di Creatività siano centrali rispetto al solo mondo del giornalismo. Il tutto per aprire, appunto, a un pubblico molto più vasto rispetto a quello dei media, le vie di una cultura professionale che può cambiare molte vite e molte differenti carriere. Molto indicativo, in questo senso, un commento fatto da Glen Mulcahy a Michael Koerbel che è uno dei primi film maker con smartphone al mondo. Era incentrato sul fatto di inserire anche il mondo della creatività cinematografica nel percorso di realizzazione di questo nuovo soggetto che unirà la community mojo. La notizia della morte di Mojocon, quindi, ha avuto l’effetto di una bomba, ma ha anche liberato l’energia di una community che ha compreso che RTE non farà ombra a una nuova creatura “targata” Glen Mulcahy. Un bene, non ci sarà, quindi, l’imbarazzo di scegliere fra una Mojocon targata RTE, ma senza Mulcahy e un nuovo soggetto di Glen.

    La squadra? A naso centra la Thomson, ma non solo…

    Credo anche che Glen Mulcahy stia già riunendo attorno a se la squadra che sarà il motore di MojoFest, questo il nome del nuovo soggetto. Mi avventuro anche in qualche nome della community come Mark Egan, Nick Garnett, Wytse Wellinga, Yusuf Omar e la sua signora Sumaiya, Douglas Show, Chris Birkett. Perché lo dico? Perché questi sono anche buona parte dei nomi del progetto di e-learning di Thomson di cui ho parlato nell’ultimo pezzetto pubblicato.

    Alla fine un documento importante.

    Prima di lasciarti andare a dormire ti giro un documento importante che la collega Corinne Podger aveva realizzato dopo Mojocon 2017. E’ un documento online con gli attacchi a tutti i panel si Mojocon 2017, il cui canale Youtube resterà attivo. Vale la pena tenerlo, perché è stato un momento storico per la mobile content creation.  La community, quindi, è in fibrillazione ma è più viva che mai. Il tutto anche se le pressioni del mondo della produzione broadcast sono comunque molto forti e impediscono la crescita di un movimento che, prima o poi, sfonderà. In quel momento sarai lì, con me, a goderti lo spettacolo.

  • Mobile journalism: scende in campo la Thomson Foundation

    Mobile journalism: scende in campo la Thomson Foundation

    Thomson Foundation e mojo: tutto il sapere è online.

    La Thomson Foundation, organizzazione inglese intitolata a Lord Roy Thomson, magnate anglocanadese dei media e storico padrone del The Times negli anni ’60, ha messo in campo una squadra imponente, in questi giorni, per monopolizzare l’attenzione dei giornalisti di tutto il mondo e convogliarla verso il mobile journalism. Il format? Quello dei corsi online, con una offerta che parla chiaramente di un pacchetto molto ricco, in grado di fornire preziosissimi strumenti per il futuro professionale.

    Il catalogo, che puoi trovare su questo link, è orientato al mojo, ma anche a tutti quegli ambiti che attengono direttamente alla produzione di contenuti in mobilità. Nei corsi della Thomson Foundation, infatti, si può trovare il guru del mojo internazionale Glen Mulcahy che sciorina la sua materia, ma parla anche di video a 360 gradi.  Oppure dei “teacher” come Chris Birkett, ex Telegraph e BBC, il quale introduce al giornalismo multipiattaforma.

    Un pacchetto di corsi da urlo.

    Le pagine della Thomson Foundation offrono davvero il meglio della preparazione mojo in questo momento. Mi attirano molto un paio di passaggi sul trust e sulla reputation, ma anche sull’engagement e sulle community da creare. Ricorderai, infatti, che da sempre penso che il giornalista debba coltivare con estrema attenzione il suo brand e la sua comunità di lettori: ebbene, questi corsi offrono il meglio per far crescere questi aspetti. Un altro dei punti centrali di questo programma didattico e quello di giornalismo multipiattaforma.

    Il motivo è semplice: la Thomson Foundation sa bene che i giornalisti ora si devono preparare a produrre contenuti da caricare su ogni tipo di pubblicazione. Per questo motivo “Journalism Across Multiple Platform” è uno degli snodi principali di questo pacchetto della Thomson: insegna come i lettori consumano le notizie sui vari siti social, per poi addentrarsi anche sulla produzione di contenuti adatti alle diverse tipologie di luoghi di pubblicazione.

    Si parla anche di Business.

    In questo bundle di corsi che si chiama TFJN, Thomson Foundation Journalism Now, si parla anche di affari sempre con Chris Birkett con il corso “The Business of Journalism: Creating a Brand & Building an Audience“. Capisci dal titolo che è un vero concentrato di indicazioni su come creare modelli di business vincenti per i mojoer e per i giornalisti di oggi. I quali devono essere brand, devono essere talmente riconoscibili nel loro campo dal divenire fonti dirette di informazione, senza l’intermediazione di un editore.

    Già che sono metto giù anche i prezzi: si va dai 350 dollari del corso tenuto da Glen Mulcahy sul mobile journalism fino ai corsi free. Aggiungo anche un paio di altre notizie che possono essere molto utili. Proprio direttamente dall’amico Glen è arrivato un codice sconto di lancio per i due corsi prodotti da lui che ha definito questa avventura come “molto impegnativa, ma importantissima, visto il valore che la Thomson sta dando al mojo”. Si tratta di “mojolaunch50Glen” che abbasserà al 50% le tariffe dei due percorsi firmati Mulcahy.

    La Thomson Foundation guarda oltre.

    C’è un altro modo interessante per regalarsi questi corsi da sogno: se uno riesce a completare efficacemente due dei tre corsi Free contrassegnati con la sigla JN01, JN02 o JN07, avrà libero accesso a un corso a pagamento a scelta. Insomma ragazzo, fatti un mazzo così e studia i corsi gratis. Poi fai quello di Mulcahy: ci siamo capiti?

    Buono studio con la Thomson Foundation, una istituzione che guarda molto lontano e vede molto bene.