Autore: Francesco Facchini

  • Social media: il giornalismo è una conversazione, te ne sei accorto?

    Social media: il giornalismo è una conversazione, te ne sei accorto?

    Il giornalismo ai tempi dei social media.

    Allora, se sei uno studente di giornalismo o un giovane giornalista devi dirmi una cosa: ti hanno mai detto che il giornalismo è una conversazione? Se la risposta è no, lo faccio io, ma ti dico che dovresti essere notevolmente incazzato con chi non ti ha insegnato (e doveva) che il giornalismo ai tempi dei social media è una conversazione. Effettivamente mi sono dovuto documentare anche io, riguardo a questa nuova caratteristica del giornalismo: ho dovuto studiare parecchio. Già, perché avendo 46 anni sono nato, come giornalista, in un’epoca nella quale il mio mestiere non era ancora così. Oggi lo è e ringrazio il cielo di averlo capito, studiato, verificato, testato e sviluppato. C’è un piccolo problema, però: in Italia nessuno (o quasi) lo insegna e nessuno (o quasi) usa correttamente questa caratteristica del giornalismo ai tempi dei social media.

    Prima lo strumento, poi mi incazzo.

    Prima di incazzarmi col mondo rotondo, ti dico subito lo strumento indispensabile per capire a fondo questo nuovo mondo del giornalismo e i suoi strumenti. Si tratta di un libro che ho trovato in rete e che sta cambiando radicalmente il mio modo di fare la professione. Nella mia esperienza non ho trovato fonti di conoscenza professionale che mi abbiano fatto comprendere bene questo meccanismo fino al momento in cui ho incrociato “Mobile and Social Media Journalism, a practical guide” del professor Anthony Adornato. Si tratta di un italo-americano che ha fatto una splendida carriera e ora insegna Mobile e Social Media Journalism al college di Ithaca.

    Ha realizzato un manuale di straordinaria importanza partendo dal suo corso e formattando le caratteristiche del nuovo giornalismo. Io sto studiando questo testo con una voracità tale da farmi diminuire le ore di sonno la notte e ci trovo tutto il paradigma della nuova interpretazione che si deve dare al mestiere del cronista. Social media e giornalismo sono un binomio inscindibile e devono essere tenuti insieme e utilizzati per un migliore servizio all’audience, non per sparare opinioni o sentenze (o peggio fare clickbait).

    Il concetto principale di Adornato.

    Ecco il concetto principale che Adornato mette in chiaro in una delle pagine iniziali del suo testo universitario e che rappresenta, molto probabilmente, il cuore del suo lavoro:

    Il giornalismo ha subito un cambiamento da conversazione a una direzione (il giornalista produceva la notizia, la pubblicava, il lettore la leggeva ndb) in una conversazione a due direzioni. Questo sta ridefinendo il ruolo dei giornalisti e il modo in cui devono interagire con il loro pubblico. Pensa al giornalismo, quindi, come a una conversazione a due vie, non come la creazione di qualcosa da leggere.

    Gli editori, ora come ora, non possono più ignorare i lettori attivi sui mobile e sui social media. Il giornalismo, visto come una conversazione, è visto come un’azione condivisa tra giornalisti e audience. Il giornalismo visto come una conversazione incoraggia l’interazione tra giornalista e audience. Invita il giornalista a usare un tono informale, ad ascoltare, ad aprirsi al feedback del lettore stesso. Le device mobili e i social media, quindi, permettono al giornalista di rafforzare la sua connessione con il pubblico, con il preciso obiettivo di servirlo meglio.

    Sono un filo sconvolto (e qui mi incazzo)

    Un concetto semplice, lineare, quanto sconvolgente almeno nella mia testa. Sconvolgente perché ho visto quanto devo ancora fare io in questo percorso e quanto non fanno i giornalisti italiani. Spero che il motivo sia che nessuno glielo ha fatto capire, che nessuno glielo ha insegnato. Sono semiconvinto, tuttavia, che non sia proprio così. Già, perché alcuni giornalisti usano molto bene i social, ma per un sacco di cose tranne fare giornalismo, migliorare il loro giornalismo, interagire col pubblico per servirlo meglio. Ci sono, invece, una pletora di colleghi che coniugano le parole social media e giornalismo con il gioco della faziosità, del parteggiamento, dell’opinione, della seduzione, dello schieramento o, quando sono più normali, del sano spaccio di click al loro lavoro. Bene, fatta salva quest’ultima naturale (e forse utile) indicazione, non abbiamo proprio capito un cazzo dell’uso dei social media per fare giornalismo in Italia.

    I social media non sono un optional, sono un dovere.

    Concludo dicendo che i social media per il giornalista moderno, sono uno strumento di base e fanno assolutamente rima col mobile journalism. Sono necessari per la creazione di una community, per il rapporto con il pubblico, per il reperimento di notizie, per porre delle domande o dare delle risposte. Devono, tuttavia, essere collegati all’esercizio della propria professione, non al cazzeggio e allo sparo della propria opinione. Mi sono sforzato di pensare a un giornalista italiano che utilizzi i social media come strumento integrato per il suo lavoro, sfruttando a pieno le due vie di questa conversazione, chiedendo e rispondendo, condividendo cultura e notizie, interagendo con chi lo legge per servirlo meglio. Dimmi chi lo fa, ti prego, dimmi che mi sto sbagliando, dimmi che te lo hanno insegnato. Quanto spero di sbagliarmi e quanto ho paura di non sbagliarmi.

  • Dati personali “rubati”: cara App, ci fai soldi? Bene, paga anche me

    Dati personali “rubati”: cara App, ci fai soldi? Bene, paga anche me

    Dati personali “rubati”: beh, forse ne dobbiamo parlare.

    Sarò pure un cretino, ma ho deciso di fare un pezzo sui nostri dati personali online, su tutta quella serie di informazioni che noi, ogni volta che accediamo a una app sul nostro cellulare, regaliamo, spesso inconsapevolmente, ai gestori di questi software per cellulari. Sono dati sensibili, a volte anche sensibilissimi (martedì Google Maps ha registrato la mia entrata e la mia uscita da un famoso ospedale milanese), che vengono gestiti, aggregati e riproposti sottoforma di servizi dalla App stessa, ma soprattutto vengono venduti alle aziende che, da questi big data, traggono (e fanno trarre) profitti enormi.

    Le biciclette in sharing: pedali e regali dati.

    L’argomento della gestione e della coscienza nell’amministrare i dati sensibili mi è venuto tra e mani qualche giorno fa, quando ho scritto questo pezzo sui servizi di Bike Sharing appena arrivati a Milano. La rivista Business Insider ha raccontato con molti particolari il megabusiness tutto cinese di questi velocipedi e ha ricondotto tutto al grande affare dei dati. Ho letto anche altri articoli su queste aziende e ho scoperto che fanno spallucce al fatto che il business in se sia in passivo. Il loro gran bel giochino e far soldi sui nostri dati personali online che spariamo ai loro server facendo pure la fatica di pedalare sopra i loro “registratori di dati” le biciclette.

    Le App non sono mai trasparenti.

    Nel mondo Android e nel mondo Apple ben poche si salvano. A cosa mi riferisco? Al modo in cui le App ti chiedono di poter registrare il tuo accesso e l’approdo a certi settori del tuo telefono. Certo, mi si potrà dire che senza l’accesso al mio gps la app Google Maps non può certamente indicarmi la strada. Mi si potrà pure dire che ormai sanno tutto di te, sanno chi sei e cosa fai, cosa pensi e cosa sogni, anche quando vai a fare la pipì, anche a telefono chiuso. Va bene pure questo, tuttavia il pensiero è un altro ed è semplice. Quei dati personali rubati col mio consenso (si fa per dire, perché nessuna app è assolutamente cristallina sull’uso che fa dei dati che le offro gentilmente) contribuiscono a creare valore: ecco, anche io ne voglio una parte.

    Google Maps, cambia fatturati e sposta miliardi: e io?

    Ti faccio vedere un semplicissimo video del tubo sulla precisione e sull’invasività dei dati personali che Google Maps mi ruba ogni giorno. Io sono un affezionato utente di Google Business, uso tutte le App inCloud, vivo sulla rete, lavoro nel digitale, consegno i miei dati con serena rassegnazione cercando, grazie alla tecnologia, di produrre ricchezza per me e per altri. Guarda il video, poi continuo il ragionamento.

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    La prima cosa che mi viene da dire è che all’inizio o in una sezione ben chiara della App ci dovrebbe essere un lungo dislaimer sull’uso esatto che questa app fa dei dati che io le do. E’ inutile che mi inventi frottole: non c’è. Quando la app, la prima volta che la accendi, ti chiede accesso al Gps, alla macchina fotografica e all’audio, beh, sappi che lo fa per darti quel servizio, ma anche per vendere tutta una serie di dati personali rubati (con il tuo consenso) a enti terzi che gestiscono quei numeri per creare indagini o modificare valori importanti. Tu e io siamo il nulla nel grande gioco dei big data, ma se il nostro girare per la città come piccoli criceti vale miliardi di euro l’anno, beh, perché non dovrebbe valere qualche centesimo per noi?

    Facciamo un ragionamento, anzi due.

    Il fatto che dati come quelli che hai visto siano utilizzati per tarare valori di immobili o affitti, valori e prezzi delle case e delle cose circostanti o dei beni che possiamo acquistare, beh, deve imporre un ragionamento. Anzi due. Vuoi fare in modo che i dati personali che mi prendi siano rubati con la mia serena consapevolezza? Bene, lo ribadisco: spiegami come li usi dalla a alla zeta. A me, ma magari mi sbaglierò, non è mai comparso davanti un modulo di trattamento dei dati di Google Maps. Tuttavia so che c’è e so che fa parte del gioco e io questo gioco non lo voglio fermare, anzi.

    Voglio fare un ragionamento folle come tutti i miei ragionamenti sulla vita digitale. I dati personali che ora mi vengono rubati con una mia parziale consapevolezza, siano presi come prima, magari anche di più. Però a una condizione: valutateli economicamente in un modo ragionevole, non dandomi qualche bicicletta gialla su cui pedalare (tra l’altro fornendovi ulteriori dati).

    Stiamo mettendo addosso un numero sempre maggiore di sensori, stiamo consegnando alla rete un numero impressionante di… numeri. Ormai la creazione di valori, di tariffe, di prezzi, di servizi, di previsioni, di premi… si basa sui dati che tutti noi forniamo tutti i giorni in qualsiasi angolo del mondo. Sembra che quello che da queste app riceviamo in cambio sia molto: traffico, i posti dove siamo stati, gli orari migliori per andare nei negozi. Sembra un mondo alla portata di un click. Però il valore aggiunto che i dati aggregati di cui io e te siamo un’infinitesima parte contribuiscono a creare è notevolmente superiore.

    Se il watch di Apple… parla del nostro cuore.

    Ho avuto una strana sensazione quando ho visto la presentazione del Watch tre di Apple. Tutta quella attenzione legata ai dati del nostro cuore, quella possibilità di chiamare aiuto in caso di heart asttack… Mah, mi sono detto… se quei dati, quei numeretti che arrivano da ogni Watch di Apple sulla terra, andassero in mano alle assicurazioni, cosa succederebbe? Possono dirmi quanto vogliono che i server di quei dati sono inaccessibili anche all’FBI o alla NSA, ma non ne sono proprio convinto, perché non ne sono certo.

    Per questo dico: è ora di parlare, tutti insieme, di dati personali che online mi vengono “rubati” con una consapevolezza parziale da parte mia. Ok, fatelo pure, ma da oggi mi batterò per due cose:

    1. Ditemi con chiarezza che uso fate di quei dati, a chi li date, a chi li vendete e perché. Care App, siate chiare nel trattare il cliente, basta mezze verità: sappiamo che quando ci chiedere di accedere al microfono non è solo per avere la possibilità di registrare i nostri audiomessaggi, ma anche per sentire dove siamo e cosa stiamo dicendo o facendo
    2. Volete rubare i miei dati personali? Ecco, fatelo. Però dobbiamo parlare del valore che questi dati hanno sotto il profilo economico. Non è certo il valore di quei centesimi che mi elargite ogni tanto.

    Quando parlo di dati personali rubati, lo faccio mettendo in campo una provocazione. Però è ora di cambiare registro: se volete davvero i miei dati, cacciate la lira, care le mie App.

  • Recensione: Samson Go Mic Mobile, grande tecnologia per i mojo

    Recensione: Samson Go Mic Mobile, grande tecnologia per i mojo

    Recensione di un oggetto “must have” con un solo difetto.

    Ho deciso di fare la recensione di Samson Go Mic Mobile per un motivo semplice: è quello che uso ed è quello che penso sia il migliore “compromesso” tra il prezzo e la tecnologia, utile al mojo per raggiungere il miglior risultato audio possibile. Anche la leggerezza, la velocità di montaggio e la versatilità fanno del Samson Go Mic un perfetto compagno di viaggio, specialmente per coloro che lavorano nel mondo delle news e devono essere operativi in pochissimo tempo.

    Il Samson Go Mic Mobile? Soddisfa un sacco di esigenze.

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    Non negherò il difetto che ho riscontrato, vale a dire la qualità non eccellente dei materiali di fabbricazione, ma confermo il giudizio positivo dopo aver testato l’usabilità e l’audio in uscita dal Samson Go Mic Mobile, un’uscita pulita e di alta qualità sia durante le interviste (fate solo attenzione a non alzare troppo il gain del microfono, visto che è molto sensible), sia durante le dirette Facebook.

    La “convergenza”

    Insomma, il concetto principale di questa recensione del Samson Go Mic è la sua “convergenza” verso la soddisfazione di più esigenze che sono molto importanti per i mojoer: la tecnologia è di alto livello, la qualità del suono è ottima, il peso è quello ideale per continuare a fare in modo che la mojo bag resti sostanzialmente leggera, l’adattabilità a tutti gli smartphone di nuova generazione è garantita dai vari cavi presenti nella confezione, la velocità di allestimento e collegamento è quella che serve al mojo per essere operativo in pochi secondi. Insomma, il Samson Go Mic fa centro in molti settori, anzi in tutti i settori tranne uno.

    Il materiale, unico punto debole.

    La staffa con la quale il Samson Go Mic Mobile esce dalla fabbrica, non ha la femmina per il treppiede nella parte inferiore. La mia esigenza personale di metterlo sullo Shoulderpod, la maniglia per fare riprese on the go, ma anche sul teppiede stesso, ha fatto in modo che io cercassi di staccare le due miniviti che attaccavano la parte inferiore della staffa per mettere quella con la femmina universale per treppiede che c’è nella confezione di partenza come pezzo di ricambio. Ebbene, operazione complicata e vitine spanate in qualche giro di cacciavite. Se non avessi trovato un ferramenta illuminato (grazie Vito) che trovava altre due vitine nuove per la sostituzione, sarei rimasto a piedi. Questo solo per invitare la Samson a lavorare sulla qualità dei propri materiali di costruzione.

    Se l’ottimo prezzo di vendita (attorno ai 250 euro per il set gelato più mixer, cui si può aggiungere il secondo trasmettitore lavalier per un centinaio di euro in più) fosse stato un pochino più alto e tale da garantire dei materiali migliori, la mano al portafoglio ci sarebbe andata lo stesso. Spero che Samson ne tenga conto.

  • Humans of New York: la rivoluzione dell’inquadratura

    Humans of New York: la rivoluzione dell’inquadratura

    Humans of New York: quando l’inquadratura è arte.

    Da quando sono diventato videomaker e mobile journalist studio tutti i giorni. In particolare modo studio e rubo dagli altri un’arte che non ho imparato a scuola. Di cosa sto parlando? Dell’arte dell’inquadratura. Il mobile journalism aiuta molto a pensare alla qualità dell’inquadratura, anche perché la strumentazione è talmente leggera, performante e facile da piazzare che si può gestire in un tempo molto breve. Il resto del tempo di produzione lo si può dedicare alla creatività, alle posizioni da cui filmare l’immagine solo quando la ritieni perfetta. C’è un format da cui sto imparando moltissimo in questi giorni, un format che si chiama “Humans of New York”. Chi frequenta Facebook lo conosce molto bene. Ebbene, quel format sta facendo una web serie nella quale l’inquadratura è una forma d’arte, del tutto particolare.

    Humans of New York, la vita presa davvero.

    Ci sono quadri, interviste, situazioni della serie Humans of New York che stanno completamente sovvertendo la grammatica del video. Anzi, spaccano tutto. Noi italiani vivremmo questo come un errore, ma il team di quella fanpage che è diventata un fenomeno mondiale, ha preso e spappolato ogni paradigma della buona inquadratura a vantaggio della vita vera dei personaggi e dell’empatia delle storie.

    Nei video di quella serie, il team di Humans of New York ha lasciato immagini nelle quali si vede il cane dell’intervistato abbaiare interrompendo il discorso, immagini nelle quali la camera viene spostata da un passante o l’intervista viene bruscamente interrotta da una fuga della bambina che, fino a poco prima, era tra le braccia del padre. Tutte immagini che verrebbero tagliate da qualsiasi produzione italiana, tutte immagini che a Humans of New York fanno parte del grande gioco di ritrarre la vita.

    Lo dico al buio, ma Humans of New York mi sembra mojo.

    Per quei movimenti della camera, per quelle splendide immagini imperfette (chissà poi secondo quale paradigma) la serie Humans of New York mi sembra proprio fatta in mobile. Non so se lo sia, ma è bello pensare che comunque il linguaggio visuale del famosissimo format sia un linguaggio ampiamente abbracciabile dal mobile journalism. Per quel suo senso di verità, per quel suo essere più particolare, disintermediato e vicino al senso vero dell’esistenza. Piccola morale senza importanza: guardati Humans of New York e spacca tutte le regole quando filmi. Tranne quelle della bellezza e della verità di un’immagine.

     

  • Farsi pagare una fattura: e se il segreto fosse una piattaforma?

    Farsi pagare una fattura: e se il segreto fosse una piattaforma?

    Farsi pagare una fattura: e se la dritta fosse un sito?

    Quando scrivo pezzi sulla professione parlando di pagamenti delle fatture mi viene la malinconia. Siamo in una tale situazione di disarmo che cercare di essere “positivi” di fronte a un argomento del genere è una cosa che mi mette una tristezza pazzesca. Farsi pagare una fattura: è una vera tragedia. Quando abbiamo fatto il corso “Voglio (devo) fare il freelance” sono andato a scassare i cosidetti a tutti i commercialisti o i legali che mi trovavo a tiro, dicendo e ripetendo come un matto la stessa nenia: “Come si fa a farsi pagare una fattura?”. La configurazione stessa del rapporto tra un freelance e una testata giornalistica fa nascere il rapporto di lavoro in modo sbilenco, ma come possiamo raddrizzarlo in modo che farsi pagare una fattura non diventi una chimera? Forse con una piattaforma.

    E’ un discorso utopistico, ma se non lo fa qualcuno per primo…

    Certo non dovrei farlo io questo discorso e nemmeno tu. Dovrebbero intavolarlo (e seriamente) le componenti del mercato di lavoro giornalistico, al fine di mettersi al servizio della causa e trovare una soluzione. Io addirittura avevo mesi fa proposto questa soluzione qui, ma è caduta nel silenzio. Allora rilancio la cosa e suggerisco una seconda via per far diventare la frase “farsi pagare una fattura” una frase reale (e non da fiction).

    Le componenti come Ordine dei Giornalisti ed editori, dovrebbero codificare insieme formule di pagamento incontestabili e sopportabili per entrambi e dovrebbero farlo, è solo una mia idea, approfittando delle nuove piattaforme di acquisizione lavori che stanno prendendo piede all’estero. Sto parlando di servizi come Paydesk, una piattaforma inglese dove ci si può iscrivere ed essere “affittati” e pagati con certezza da signori clienti. Chiacchierando con Henry Peirse, londinese con un passato giornalistico, divenuto imprenditore proprio per dare risposta a questa esigenza dei freelance (lavorare e farsi pagare, appunto), ho potuto sapere quali servizi offra la sua piattaforma e mi sono messo a sognare.

    Il profilo è gratuito.

    Per il giornalista il profilo è gratis e fra i servizi c’è perfino l’assicurazione che Paydesk garantisce al freelance nell’esecuzione del lavoro. Dati e lavori passati a parte, è interessante la bacheca sul quale si possono mettere i pitch delle storie che si intende realizzare per vedere se qualcuno le compra o ti contatta, come fosse una vera vetrina della gioielleria. Mi ha entusiasmato la coerenza, la pulizia e l’efficacia dei servizi offerti, ma anche il pensiero che una piattforma come questa possa cambiare il gioco.

    Se l’Ordine la rendesse obbligatoria (ma sto ancora sognando)

    Se l’Ordine dei giornalisti la rendesse obbligatoria, se questa piattaforma fosse un tramite tra il freelance che sta in mezzo a una strada (in tutti i sensi) e il caporedattore che gli comanda un pezzo (quando va bene, perché magari è uno stagista), beh, il rapporto verrebbe reso più rigido e meno lasco nella comanda del lavoro e nell’esecuzione stessa. Finirebbero i “manda, manda, che poi vediamo!” e le situazioni in cui il giornalista è obbligato a fare il lavoro e a mandarlo, mettendo a rischio la sua vendibilità, magari, ad altri.

    Con una piattaforma, la contrattazione, il prezzo e il pagamento dovrebbero essere codificate da canali rigidi. Non si vuole stare al gioco? Bene, non si prende il materiale e la finiamo con tutte quelle storie che i giornali inghiottono senza pubblicarlo. Se l’Ordine trovasse un modo di rendere una piattaforma come questa un tramite fisso nel rapporto tra collaboratore giornalistico ed editore, tutte le fatture verrebbero pagate.

    Ora mi sveglio.

    Paydesk promette bene, ma è chiaro che anche la legislazione dovrebbe dare una mano per codificare quei pagamenti tramite piattaforma. I pagamenti, infatti, sono tutti da verificare, per il libero professionista, sotto il profilo fiscale. “La nostra idea è quella di rispondere all’esigenza che il lavoro vada pagato e bene – mi ha raccontato Peirse  in una cordiale chiacchierata di qualche tempo fa -. La nostra piattaforma potrebbe essere perfino un modo per fare pressione e alzare i prezzi: se tutti partecipassero, infatti, costringendo i publisher a passare dalla piattaforma, nessuno scapperebbe facendo il “franco tiratore” per prendere il lavoro… a meno. Perché? Perché verrebbe isolato”.

    Si, però in Italia c’è il furbo…

    Il problema, infatti, è quello. Se ci fosse uno strumento per parificare e stabilizzare i rapporti, sono infatti convinto che in Italia verrebbero subito fuori i furbi. Parlo di quelli che stanno fuori dal gioco perché sicuri di avere in tasca una soluzione migliore. Quella individuale. Qui si potrebbe aprire un’infinita discussione, ma intanto spero di avere puntato lo spot su un mondo interessante, come quello delle piattaforme di “affitto” dei freelance giornalistici. “Se fossi in voi – ha concluso Peirse chiacchierando l’altro giorno – farei parte di una, dieci, cento piattaforme come questa. Le occasioni arriverebbero e la tranquillità di lavorare e venire pagati per questo aumenterebbe la serenità della vostra vita, aumentando la qualità del vostro lavoro”.

  • Reuters Digital News Report 2017: in Italia solo il 5% paga per le news online

    Reuters Digital News Report 2017: in Italia solo il 5% paga per le news online

    Il Digital News Report della Reuters serve a capire dove siamo.

    Questo blog ha l’ambizione di essere anche una fonte di documentazione sulla professione giornalistica che possa aiutare chi lavora in questo campo a comprendere meglio l’epoca in cui viviamo e la direzione che sta prendendo. In questo senso il Digital News Report della Reuters, pubblicato con l’Università di Oxford, è una sorta di faro nella notte per capire quale sia la strada da prendere.

    Studiando queste cose, noi mobile journalist freelance (per la maggior parte), non possiamo pensare di risolvere il problema del nostro esangue portafoglio o del destino dell’editoria. Su questo tipo di documenti, invece, dobbiamo pensare e valutare le possibili soluzioni per proporre nuovi contenuti ai nostri clienti o a pensare di fare formazione su nuove tendenze del giornalismo e della creazione di prodotti multimediali.

    Una specie di cartina geografica.

    Questo Digital News Report ci racconta come sono i principali mercati mondiali della notizia e ti può essere utile come fosse una cartina geografica. Indica delle strade, dei trend, degli indicatori di crescita in certe aree delle digital news piuttosto che in alte. Naturalmente se non sai fare video sei un filo fuori dalle possibilità di intraprendere la strada dei contenuti nuovi, dei prodotti che servono al mercato della comunicazione oggi. Per questo, dopo aver letto questo report, ti consiglio di andare qui a iscriverti a un corso base di Mobile Videomaking della community Italianmojo. Imparerai a fare video professionali con il telefonino che hai in tasca. In da quel momento in poi, capire i trend, capire i cambiamenti del mondo delle news sarà più facile.

    La bastonata ai giornali italiani.

    Sono andato a pagina 78 del report per scoprire che ne pensano dell’Italia. Ti rivelo subito una cosa: in Italia pagano per le news digitali il 5% delle persone che “consumano” news. Una percentuale avvilente, stante il fatto che per fare buone news servono soldi.  Eccoti la frase “bastonata” allo stato dei giornali italiani passati da 6 milioni di copie nel 2000 a 2,5 nel 2016…

    Newspaper readership has always been low in Italy and the press landscape consists of commercially weak quality papers addressing an elite and politically defined audience. The weakness of the Italian press has fostered its reliance on external sources of financing, such as public subsidies and private business sponsorship, which has made it somewhat subject to both political and economic influence. Newspaper circulation in Italy has decreased from more than 6 million copies per day in 2000 to a little more than 2.5 million in 2016.37. The two main players, Gruppo Espresso, which publishes La Repubblica, and RCS, which publishes Il Corriere della Sera, together account for about 40% of the sector revenue.

    Hai capito? Ti traduco io: il contesto è fatto di giornali di bassa qualità che si rivolgono a una definita elite politica. La debolezza della stampa italiana è dovuta principalmente alle fonti esterne di finanziamento, come i sussidi pubblici o le sponsorship private che hanno messo il sistema sotto l’influenza della politica e dell’economia.

    Ecco il documento: Digital News Report 2017 – Reuters. Buona lettura, spero tu possa trovare la tua strada.