Autore: Francesco Facchini

  • Giornalisti: guida (semiseria) all’uso dei social network

    Giornalisti: guida (semiseria) all’uso dei social network

    Giornalisti: qualche volta mi chiedo se “ci sono” o “ci fanno”.

    Sto facendo ricerche sui giornalisti e sul loro uso dei social. Ogni mattina passo almeno un’ora, mentre sorseggio il caffé, a informarmi dagli account delle fonti di informazione più importanti per il mio lavoro e per la mia vita. Da tempo non leggo e non compro più i giornali, da tempo penso che l’agenzia di informazione più evoluta, veloce e accurata, sia Twitter. Da tempo non vedo i notiziari televisivi perché nel mio sistema informativo arrivano dopo di me, nel senso che le cose che sento sono già nella categoria delle cose che ho letto o saputo nei minuti o nelle ore precedenti.

    Sempre di più dirigo le mie ricerche di notizie verso i colleghi autorevoli nei campi più interessanti. Cerco, leggo, cerco, twitto, posto, ritwitto. E’ sempre una delle ore migliori della giornata. Però alla fine di quell’ora mi viene sempre l’amaro in bocca, perché penso all’uso idiota che i giornalisti italiani fanno dei social. Distruggendo, molto spesso, due cose: gli zebedei di chi li segue e la loro immagine personale.

    Forse bisogna spiegare la cosa…

    Premetto che anche io ho avuto un percorso di crescita sui social. Premetto anche che, nella categoria dei giornalisti non sono quello che ha gli account perfetti. A volte, la funzione dei ricordi su Facebook, mi è molto utile a eliminare qualche stronzata scritta in passato.

    Tuttavia cerco di fare personal branding e ho deciso da qualche mese, più esattamente da settembre, di fare proprio un mio piano editoriale anche sui social per chiarire i miei “campi” e il mio brand. Sui social media ho letto molto, ma ho deciso di adottare un mio stile, ma quello che mi preoccupa molto è che i giornalisti italiani non abbiano generalmente alba di come si usano e di come si imposta una strategia chiara per la propria immagine digitale.

    Per questo motivo mi è saltata la mosca al naso e ho deciso di fare una guida semiseria all’uso dei social per i giornalisti, guida alla quale poi darò conclusione dicendoti, se ti va di seguirmi, quali siano le impostazioni che ho fato ai miei account con relativi indirizzi.

    Facebook, il mare magnum dell’opinione.

    Non so se è la mia timeline, ma vedo con chiarezza che i colleghi sproloquiano opinioni sul tema del giorno a profusione, dando a ogni giro l’impressione di perdere tempo invece che guadagnarlo sui social. Facebook per un giornalista è uno strumento per diffondere i propri scritti, per valorizzare il proprio lavoro, per cercare notizie, per creare (magari con una fanpage) di fare una community, per incontrare gli intervistabili, per creare link lavorativi.

    Non è un posto dove parteggiare, sparare la minchiata qualunque sul tema del giorno, dire male o bene di Renzi e Berlusconi, soffiare sul fuoco del populismo, schierarsi, vantarsi, scoprirsi, denudarsi, mettere foto dei bambini.  Se vuoi mettere qualcosa di personale, fallo, ma ricordati: privacy un cazzo, è tutto pubblico. La cosa che dovresti fare di più è, tuttavia, qualcosa che sia utile agli altri. Dovresti condividere il tuo valore e la tua professionalità.

    Twitter, l’agenzia giornalistica mondiale.

    Te l’ho detto, è la più grande risorsa possibile per il tuo cazzo di lavoro. Per questo motivo, ora che siamo passati quasi tutti a 280 caratteri, non perdere tempo a sparare battutine. Twitta cose di lavoro, cose del tuo campo, segui gli hashtag che sono buoni per te. Ti dò un consiglio: se vuoi aumentare il tuo giro, twitta in inglese. E’ molto più importante, infatti, conservare un’interazione con le fonti internazionali principali del tuo lavoro e del tuo campo piuttosto che farti comprendere dai pochi italiani che ci sono. Twitter è quel social network nel quale, se vuoi diventare un giornalista-fonte, puoi lavorare meglio per farti una community interessata del tuo argomento. Chi ti dà il suo follow, infatti, resterà volentieri se sarai abile a raccontargli le notizie di cui ha bisogno e che lo hanno portato a darti il tuo gradimento.

    Instagram e Snapchat: forse non è proprio cosa da giornalisti, ma…

    Tutti i testi di quelli fighi sanno che, per farsi un brand giornalistico, bisogna postare principalmente cose che riguardano la professione e il campo di specializzazione. Tuttavia un 20% di cose personali potrebbero andare bene, anche per far capire a chi ti segue che non sei una specie di cyborg…. In questo senso, concentrare il “personale” su Instagram potrebbe darti una immagine bella e “vicina” alle persone, senza “offendere” l’uso che fai degli altri social.

    Quindi per i giornalisti dico Instagram sì, ma spostato sull’ambito personale. La stessa cosa anche per Snapchat che, tuttavia, si unisce a Instagram in una caratteristica molto importante per i prodotti e per i racconti giornalistici. Quale? Si possono fare storie che contengano un valore giornalistico e che siano editate, tuttavia, in verticale e in modi che raggiungono più velocemente un target giovane.

    Il mio piano editoriale? Eccolo.

    Non sono un guru dei social media e, magari, questo piano editoriale avrà cambiamenti. Quello che è certo è che è un piano che orienta gli strumenti social a farmi riconoscere per due anime: io sono Italianmojo e Sharingdaddy. Nel mio profilo Facebook personale troverai il mio lavoro sul blog e un po’ di spruzzate personali. Sulle fanpage di Facebook la mia immagine professionale, su twitter le ultime notizie sulla community mojo (in inglese), su Instagram e Snapchat solo cose personali. Se vuoi sapere come sto, lo troverai tra una story e uno snap, se vuoi leggere il mio blog lo troverai sul mio “Faccialibro” professionale, se ti interessano le ultime mojonews vai su twitter, se vuoi contattarmi per lavoro passa dalle mie pagine @FrancescoFacchiniMojo e @Sharingdaddy.

  • Applicazioni per filmare: Mavis, una magic box

    Applicazioni per filmare: Mavis, una magic box

    Applicazioni per filmare: un mare di opportunità da scoprire.

    Le Applicazioni per filmare sono un punto molto importante della produzione mojo. Essendo un fan del “pure” mojo, propendo per l’uso massimo delle fotocamere native dei cellulari che utilizzate per il vostro lavoro. A mio avviso è un ottimo punto di partenza per l’esercizio e per sapere “a mani nude” tutto quello che può esprimere il tuo aggeggio, prima di fare acquisti. Il momento di passare di grado, tuttavia, arriva presto e allora ti conviene sapere quali sono le migliori applicazioni per filmare. Cosa ne penso io? Penso che valga la pena cominciare da Filmic Pro, specialmente se sei Android, ma devo dire che, nel mondo iOS, c’è una valida alternativa che si chiama Mavis.

    Dall’Inghilterra con furore.

    Mavis è prodotta da un team di Brighton nel Regno Unito e si rivolge ai professional dell’immagine con una serie di caratteristiche che, talvolta, fanno anche spavento. Qualche mese fa ne abbiamo parlato con uno dei membri di questo team, Patrick Holroyd del reparto marketing presente a Galway per Mojocon 2017. Ecco la sua intervista che rivela le principali caratteristiche della app, davvero sconvolgenti per precisione ed efficacia.

    Mavis ti regala pieno controllo sul colore con gli spettrografi necessari, pieno controllo sul focus, differenti tipologie di filming a seconda dei formati, completo controllo sulle specifiche del file (ma come sai, per me filmare in 16/9 a 1280 per 720 è più che abbastanza). Nei confronti di Filmic Pro cede un attimo nel controllo audio che è solo su microfoni esterni (se le mie prove non mi hanno ingannato).

    Cambio di fuoco? Fulminante.

    E’ velocissima, forse la più veloce delle applicazioni per filmare. Mavis è un must have delle applicazioni per filmare per un motivo semplice. Stupisce il modo con cui valorizza la camera nativa del tuo telefono rendendola professionale. Vuoi fare il bianco? Lo fa. Vuoi cambiare il fuoco automaticamente? Lo fa. Oltretutto il tempo di messa a fuoco è fulmineo così come sono approfondite e curate le grafiche per la valutazione dell’inquadratura come i “false colours” o le zebre per indicare zone sovraesposte e sottoesposte. Un vero rammarico? Non poterla testare sul mondo Android dove ci sono processori interessanti che farebbero fare a questa app cose migliori.

    E’ una delle applicazioni per filmare “top”

    Insomma, non mi piace dare alle applicazioni per filmare (o alle altre) che sono di un mondo solo troppa importanza, ma Mavis merita tutta l’attenzione per la facilità con cui si riesce a usare (ha perfino il fuoco col mirino) e per i risultati di ripresa che regala. Insomma, se hai un iPhone e vuoi salire quattro piani più su nelle tecniche di filming, Mavis è un’ottima alternativa a Filmic Pro. A mio avviso, anche il prezzo di poco sotto i 20 euro (tipo 18,99) è uno sforzo che vale la pena fare per i risultati che regala.

  • Master Iulm: inizio una collaborazione-docenza sul mojo

    Master Iulm: inizio una collaborazione-docenza sul mojo

    [fusion_builder_container hundred_percent=”no” equal_height_columns=”no” menu_anchor=”” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” class=”” id=”” background_color=”” background_image=”” background_position=”center center” background_repeat=”no-repeat” fade=”no” background_parallax=”none” parallax_speed=”0.3″ video_mp4=”” video_webm=”” video_ogv=”” video_url=”” video_aspect_ratio=”16:9″ video_loop=”yes” video_mute=”yes” overlay_color=”” video_preview_image=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” padding_top=”” padding_bottom=”” padding_left=”” padding_right=””][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ layout=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” border_position=”all” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” center_content=”no” last=”no” min_height=”” hover_type=”none” link=””][fusion_text]

    Mobile content creation: un’arma in più per gli studenti del Master Iulm.

    Oggi è uno di quei giorni da ricordare. Una parte importante del mio progetto di diffusione della cultura della mobile content creation e del mobile journalism ha trovato sviluppo. In qualità di collaboratore, infatti, sono stato chiamato alla docenza-testimonianza in tre differenti master di specializzazione della IULM, la Libera Università di Lingue e Comunicazione, presso l’ateneo di Via Carlo Bo 1 a Milano.

    E’ un momento molto importante per lo sviluppo del progetto che ho creato. Semplice il motico: per la prima volta ho l’occasione di portare la mia esperienza nel mondo della formazione accademica. Spero di poter essere soltanto un’arma in più a disposizione degli studenti dei Master Iulm che studiano “Management e Comunicazione del Beauty e del Wellness”, “Food and Wine Communication” e “Marketing e Comunicazione dello Sport”.

    Perché è un passo importantissimo.

    Quando ho iniziato il mio percorso ho sempre avuto chiaro l’obiettivo. Ho chiaro anche il percorso che il mobile journalism e la mobile content creation dovevano fare per essere introdotti al maggior numero di colleghi e di persone in generale. Questo percorso passava e passa dalla formazione universitaria. Il contatto provocato dalla collaborazione con l’ateneo milanese, infatti, sarà determinante per dare la materia la collocazione che merita e per farle avere la dignità accademica che merita. Questo indipendentemente dal mondo del giornalismo dal quale provengo, mondo nel quale, strano, ma vero, il mojo incontra le sue più grandi resistenze, almeno in Italia.

    Il linguaggio mojo

    La collaborazione prevede delle giornate dedicate in modo verticale alla mobile content creation e al mobile journalism. Questi Master Iulm, quindi, avranno nelle loro “premesse”, all’inizio dell’esperienza dei corsisti, la giornata mojo.

    Il tutto per fare in modo che la mia esperienza venga poi “utilizzata” durante l’anno sotto la mia supervisione. Il linguaggio mojo, quindi, finirà nella cassetta degli attrezzi del loro lavoro. In attesa che il Master Iulm che frequentano li formi a una professionalità della comunicazione ad alto livello.

    I ringraziamenti doverosi

    Concludo ringraziando i Direttori Scientifici Mauro Ferraresi e Vincenzo Russo per l’occasione, il Coordinatore Didattico Errico Cecchetti per l’accoglienza, la Tutor Giorgia Clemenza (per l’aiuto) e il collega Alessandro Franceschini. Senza di lui tutto questo non sarebbe stato possibile. Sono onorato e il motivo è semplice: dare questa esperienza ai nuovi comunicatori è un primo passo molto importante per aprire la conoscenza di questa materia a tutti.

    [/fusion_text][/fusion_builder_column][/fusion_builder_row][/fusion_builder_container]

  • Social media: il giornalismo è una conversazione, te ne sei accorto?

    Social media: il giornalismo è una conversazione, te ne sei accorto?

    Il giornalismo ai tempi dei social media.

    Allora, se sei uno studente di giornalismo o un giovane giornalista devi dirmi una cosa: ti hanno mai detto che il giornalismo è una conversazione? Se la risposta è no, lo faccio io, ma ti dico che dovresti essere notevolmente incazzato con chi non ti ha insegnato (e doveva) che il giornalismo ai tempi dei social media è una conversazione. Effettivamente mi sono dovuto documentare anche io, riguardo a questa nuova caratteristica del giornalismo: ho dovuto studiare parecchio. Già, perché avendo 46 anni sono nato, come giornalista, in un’epoca nella quale il mio mestiere non era ancora così. Oggi lo è e ringrazio il cielo di averlo capito, studiato, verificato, testato e sviluppato. C’è un piccolo problema, però: in Italia nessuno (o quasi) lo insegna e nessuno (o quasi) usa correttamente questa caratteristica del giornalismo ai tempi dei social media.

    Prima lo strumento, poi mi incazzo.

    Prima di incazzarmi col mondo rotondo, ti dico subito lo strumento indispensabile per capire a fondo questo nuovo mondo del giornalismo e i suoi strumenti. Si tratta di un libro che ho trovato in rete e che sta cambiando radicalmente il mio modo di fare la professione. Nella mia esperienza non ho trovato fonti di conoscenza professionale che mi abbiano fatto comprendere bene questo meccanismo fino al momento in cui ho incrociato “Mobile and Social Media Journalism, a practical guide” del professor Anthony Adornato. Si tratta di un italo-americano che ha fatto una splendida carriera e ora insegna Mobile e Social Media Journalism al college di Ithaca.

    Ha realizzato un manuale di straordinaria importanza partendo dal suo corso e formattando le caratteristiche del nuovo giornalismo. Io sto studiando questo testo con una voracità tale da farmi diminuire le ore di sonno la notte e ci trovo tutto il paradigma della nuova interpretazione che si deve dare al mestiere del cronista. Social media e giornalismo sono un binomio inscindibile e devono essere tenuti insieme e utilizzati per un migliore servizio all’audience, non per sparare opinioni o sentenze (o peggio fare clickbait).

    Il concetto principale di Adornato.

    Ecco il concetto principale che Adornato mette in chiaro in una delle pagine iniziali del suo testo universitario e che rappresenta, molto probabilmente, il cuore del suo lavoro:

    Il giornalismo ha subito un cambiamento da conversazione a una direzione (il giornalista produceva la notizia, la pubblicava, il lettore la leggeva ndb) in una conversazione a due direzioni. Questo sta ridefinendo il ruolo dei giornalisti e il modo in cui devono interagire con il loro pubblico. Pensa al giornalismo, quindi, come a una conversazione a due vie, non come la creazione di qualcosa da leggere.

    Gli editori, ora come ora, non possono più ignorare i lettori attivi sui mobile e sui social media. Il giornalismo, visto come una conversazione, è visto come un’azione condivisa tra giornalisti e audience. Il giornalismo visto come una conversazione incoraggia l’interazione tra giornalista e audience. Invita il giornalista a usare un tono informale, ad ascoltare, ad aprirsi al feedback del lettore stesso. Le device mobili e i social media, quindi, permettono al giornalista di rafforzare la sua connessione con il pubblico, con il preciso obiettivo di servirlo meglio.

    Sono un filo sconvolto (e qui mi incazzo)

    Un concetto semplice, lineare, quanto sconvolgente almeno nella mia testa. Sconvolgente perché ho visto quanto devo ancora fare io in questo percorso e quanto non fanno i giornalisti italiani. Spero che il motivo sia che nessuno glielo ha fatto capire, che nessuno glielo ha insegnato. Sono semiconvinto, tuttavia, che non sia proprio così. Già, perché alcuni giornalisti usano molto bene i social, ma per un sacco di cose tranne fare giornalismo, migliorare il loro giornalismo, interagire col pubblico per servirlo meglio. Ci sono, invece, una pletora di colleghi che coniugano le parole social media e giornalismo con il gioco della faziosità, del parteggiamento, dell’opinione, della seduzione, dello schieramento o, quando sono più normali, del sano spaccio di click al loro lavoro. Bene, fatta salva quest’ultima naturale (e forse utile) indicazione, non abbiamo proprio capito un cazzo dell’uso dei social media per fare giornalismo in Italia.

    I social media non sono un optional, sono un dovere.

    Concludo dicendo che i social media per il giornalista moderno, sono uno strumento di base e fanno assolutamente rima col mobile journalism. Sono necessari per la creazione di una community, per il rapporto con il pubblico, per il reperimento di notizie, per porre delle domande o dare delle risposte. Devono, tuttavia, essere collegati all’esercizio della propria professione, non al cazzeggio e allo sparo della propria opinione. Mi sono sforzato di pensare a un giornalista italiano che utilizzi i social media come strumento integrato per il suo lavoro, sfruttando a pieno le due vie di questa conversazione, chiedendo e rispondendo, condividendo cultura e notizie, interagendo con chi lo legge per servirlo meglio. Dimmi chi lo fa, ti prego, dimmi che mi sto sbagliando, dimmi che te lo hanno insegnato. Quanto spero di sbagliarmi e quanto ho paura di non sbagliarmi.

  • Dati personali “rubati”: cara App, ci fai soldi? Bene, paga anche me

    Dati personali “rubati”: cara App, ci fai soldi? Bene, paga anche me

    Dati personali “rubati”: beh, forse ne dobbiamo parlare.

    Sarò pure un cretino, ma ho deciso di fare un pezzo sui nostri dati personali online, su tutta quella serie di informazioni che noi, ogni volta che accediamo a una app sul nostro cellulare, regaliamo, spesso inconsapevolmente, ai gestori di questi software per cellulari. Sono dati sensibili, a volte anche sensibilissimi (martedì Google Maps ha registrato la mia entrata e la mia uscita da un famoso ospedale milanese), che vengono gestiti, aggregati e riproposti sottoforma di servizi dalla App stessa, ma soprattutto vengono venduti alle aziende che, da questi big data, traggono (e fanno trarre) profitti enormi.

    Le biciclette in sharing: pedali e regali dati.

    L’argomento della gestione e della coscienza nell’amministrare i dati sensibili mi è venuto tra e mani qualche giorno fa, quando ho scritto questo pezzo sui servizi di Bike Sharing appena arrivati a Milano. La rivista Business Insider ha raccontato con molti particolari il megabusiness tutto cinese di questi velocipedi e ha ricondotto tutto al grande affare dei dati. Ho letto anche altri articoli su queste aziende e ho scoperto che fanno spallucce al fatto che il business in se sia in passivo. Il loro gran bel giochino e far soldi sui nostri dati personali online che spariamo ai loro server facendo pure la fatica di pedalare sopra i loro “registratori di dati” le biciclette.

    Le App non sono mai trasparenti.

    Nel mondo Android e nel mondo Apple ben poche si salvano. A cosa mi riferisco? Al modo in cui le App ti chiedono di poter registrare il tuo accesso e l’approdo a certi settori del tuo telefono. Certo, mi si potrà dire che senza l’accesso al mio gps la app Google Maps non può certamente indicarmi la strada. Mi si potrà pure dire che ormai sanno tutto di te, sanno chi sei e cosa fai, cosa pensi e cosa sogni, anche quando vai a fare la pipì, anche a telefono chiuso. Va bene pure questo, tuttavia il pensiero è un altro ed è semplice. Quei dati personali rubati col mio consenso (si fa per dire, perché nessuna app è assolutamente cristallina sull’uso che fa dei dati che le offro gentilmente) contribuiscono a creare valore: ecco, anche io ne voglio una parte.

    Google Maps, cambia fatturati e sposta miliardi: e io?

    Ti faccio vedere un semplicissimo video del tubo sulla precisione e sull’invasività dei dati personali che Google Maps mi ruba ogni giorno. Io sono un affezionato utente di Google Business, uso tutte le App inCloud, vivo sulla rete, lavoro nel digitale, consegno i miei dati con serena rassegnazione cercando, grazie alla tecnologia, di produrre ricchezza per me e per altri. Guarda il video, poi continuo il ragionamento.

    >7center>

    La prima cosa che mi viene da dire è che all’inizio o in una sezione ben chiara della App ci dovrebbe essere un lungo dislaimer sull’uso esatto che questa app fa dei dati che io le do. E’ inutile che mi inventi frottole: non c’è. Quando la app, la prima volta che la accendi, ti chiede accesso al Gps, alla macchina fotografica e all’audio, beh, sappi che lo fa per darti quel servizio, ma anche per vendere tutta una serie di dati personali rubati (con il tuo consenso) a enti terzi che gestiscono quei numeri per creare indagini o modificare valori importanti. Tu e io siamo il nulla nel grande gioco dei big data, ma se il nostro girare per la città come piccoli criceti vale miliardi di euro l’anno, beh, perché non dovrebbe valere qualche centesimo per noi?

    Facciamo un ragionamento, anzi due.

    Il fatto che dati come quelli che hai visto siano utilizzati per tarare valori di immobili o affitti, valori e prezzi delle case e delle cose circostanti o dei beni che possiamo acquistare, beh, deve imporre un ragionamento. Anzi due. Vuoi fare in modo che i dati personali che mi prendi siano rubati con la mia serena consapevolezza? Bene, lo ribadisco: spiegami come li usi dalla a alla zeta. A me, ma magari mi sbaglierò, non è mai comparso davanti un modulo di trattamento dei dati di Google Maps. Tuttavia so che c’è e so che fa parte del gioco e io questo gioco non lo voglio fermare, anzi.

    Voglio fare un ragionamento folle come tutti i miei ragionamenti sulla vita digitale. I dati personali che ora mi vengono rubati con una mia parziale consapevolezza, siano presi come prima, magari anche di più. Però a una condizione: valutateli economicamente in un modo ragionevole, non dandomi qualche bicicletta gialla su cui pedalare (tra l’altro fornendovi ulteriori dati).

    Stiamo mettendo addosso un numero sempre maggiore di sensori, stiamo consegnando alla rete un numero impressionante di… numeri. Ormai la creazione di valori, di tariffe, di prezzi, di servizi, di previsioni, di premi… si basa sui dati che tutti noi forniamo tutti i giorni in qualsiasi angolo del mondo. Sembra che quello che da queste app riceviamo in cambio sia molto: traffico, i posti dove siamo stati, gli orari migliori per andare nei negozi. Sembra un mondo alla portata di un click. Però il valore aggiunto che i dati aggregati di cui io e te siamo un’infinitesima parte contribuiscono a creare è notevolmente superiore.

    Se il watch di Apple… parla del nostro cuore.

    Ho avuto una strana sensazione quando ho visto la presentazione del Watch tre di Apple. Tutta quella attenzione legata ai dati del nostro cuore, quella possibilità di chiamare aiuto in caso di heart asttack… Mah, mi sono detto… se quei dati, quei numeretti che arrivano da ogni Watch di Apple sulla terra, andassero in mano alle assicurazioni, cosa succederebbe? Possono dirmi quanto vogliono che i server di quei dati sono inaccessibili anche all’FBI o alla NSA, ma non ne sono proprio convinto, perché non ne sono certo.

    Per questo dico: è ora di parlare, tutti insieme, di dati personali che online mi vengono “rubati” con una consapevolezza parziale da parte mia. Ok, fatelo pure, ma da oggi mi batterò per due cose:

    1. Ditemi con chiarezza che uso fate di quei dati, a chi li date, a chi li vendete e perché. Care App, siate chiare nel trattare il cliente, basta mezze verità: sappiamo che quando ci chiedere di accedere al microfono non è solo per avere la possibilità di registrare i nostri audiomessaggi, ma anche per sentire dove siamo e cosa stiamo dicendo o facendo
    2. Volete rubare i miei dati personali? Ecco, fatelo. Però dobbiamo parlare del valore che questi dati hanno sotto il profilo economico. Non è certo il valore di quei centesimi che mi elargite ogni tanto.

    Quando parlo di dati personali rubati, lo faccio mettendo in campo una provocazione. Però è ora di cambiare registro: se volete davvero i miei dati, cacciate la lira, care le mie App.

  • Recensione: Samson Go Mic Mobile, grande tecnologia per i mojo

    Recensione: Samson Go Mic Mobile, grande tecnologia per i mojo

    Recensione di un oggetto “must have” con un solo difetto.

    Ho deciso di fare la recensione di Samson Go Mic Mobile per un motivo semplice: è quello che uso ed è quello che penso sia il migliore “compromesso” tra il prezzo e la tecnologia, utile al mojo per raggiungere il miglior risultato audio possibile. Anche la leggerezza, la velocità di montaggio e la versatilità fanno del Samson Go Mic un perfetto compagno di viaggio, specialmente per coloro che lavorano nel mondo delle news e devono essere operativi in pochissimo tempo.

    Il Samson Go Mic Mobile? Soddisfa un sacco di esigenze.

    Sponsored post
    Sponsored post.

    Non negherò il difetto che ho riscontrato, vale a dire la qualità non eccellente dei materiali di fabbricazione, ma confermo il giudizio positivo dopo aver testato l’usabilità e l’audio in uscita dal Samson Go Mic Mobile, un’uscita pulita e di alta qualità sia durante le interviste (fate solo attenzione a non alzare troppo il gain del microfono, visto che è molto sensible), sia durante le dirette Facebook.

    La “convergenza”

    Insomma, il concetto principale di questa recensione del Samson Go Mic è la sua “convergenza” verso la soddisfazione di più esigenze che sono molto importanti per i mojoer: la tecnologia è di alto livello, la qualità del suono è ottima, il peso è quello ideale per continuare a fare in modo che la mojo bag resti sostanzialmente leggera, l’adattabilità a tutti gli smartphone di nuova generazione è garantita dai vari cavi presenti nella confezione, la velocità di allestimento e collegamento è quella che serve al mojo per essere operativo in pochi secondi. Insomma, il Samson Go Mic fa centro in molti settori, anzi in tutti i settori tranne uno.

    Il materiale, unico punto debole.

    La staffa con la quale il Samson Go Mic Mobile esce dalla fabbrica, non ha la femmina per il treppiede nella parte inferiore. La mia esigenza personale di metterlo sullo Shoulderpod, la maniglia per fare riprese on the go, ma anche sul teppiede stesso, ha fatto in modo che io cercassi di staccare le due miniviti che attaccavano la parte inferiore della staffa per mettere quella con la femmina universale per treppiede che c’è nella confezione di partenza come pezzo di ricambio. Ebbene, operazione complicata e vitine spanate in qualche giro di cacciavite. Se non avessi trovato un ferramenta illuminato (grazie Vito) che trovava altre due vitine nuove per la sostituzione, sarei rimasto a piedi. Questo solo per invitare la Samson a lavorare sulla qualità dei propri materiali di costruzione.

    Se l’ottimo prezzo di vendita (attorno ai 250 euro per il set gelato più mixer, cui si può aggiungere il secondo trasmettitore lavalier per un centinaio di euro in più) fosse stato un pochino più alto e tale da garantire dei materiali migliori, la mano al portafoglio ci sarebbe andata lo stesso. Spero che Samson ne tenga conto.