Autore: Francesco Facchini

  • Humans of New York: la rivoluzione dell’inquadratura

    Humans of New York: la rivoluzione dell’inquadratura

    Humans of New York: quando l’inquadratura è arte.

    Da quando sono diventato videomaker e mobile journalist studio tutti i giorni. In particolare modo studio e rubo dagli altri un’arte che non ho imparato a scuola. Di cosa sto parlando? Dell’arte dell’inquadratura. Il mobile journalism aiuta molto a pensare alla qualità dell’inquadratura, anche perché la strumentazione è talmente leggera, performante e facile da piazzare che si può gestire in un tempo molto breve. Il resto del tempo di produzione lo si può dedicare alla creatività, alle posizioni da cui filmare l’immagine solo quando la ritieni perfetta. C’è un format da cui sto imparando moltissimo in questi giorni, un format che si chiama “Humans of New York”. Chi frequenta Facebook lo conosce molto bene. Ebbene, quel format sta facendo una web serie nella quale l’inquadratura è una forma d’arte, del tutto particolare.

    Humans of New York, la vita presa davvero.

    Ci sono quadri, interviste, situazioni della serie Humans of New York che stanno completamente sovvertendo la grammatica del video. Anzi, spaccano tutto. Noi italiani vivremmo questo come un errore, ma il team di quella fanpage che è diventata un fenomeno mondiale, ha preso e spappolato ogni paradigma della buona inquadratura a vantaggio della vita vera dei personaggi e dell’empatia delle storie.

    Nei video di quella serie, il team di Humans of New York ha lasciato immagini nelle quali si vede il cane dell’intervistato abbaiare interrompendo il discorso, immagini nelle quali la camera viene spostata da un passante o l’intervista viene bruscamente interrotta da una fuga della bambina che, fino a poco prima, era tra le braccia del padre. Tutte immagini che verrebbero tagliate da qualsiasi produzione italiana, tutte immagini che a Humans of New York fanno parte del grande gioco di ritrarre la vita.

    Lo dico al buio, ma Humans of New York mi sembra mojo.

    Per quei movimenti della camera, per quelle splendide immagini imperfette (chissà poi secondo quale paradigma) la serie Humans of New York mi sembra proprio fatta in mobile. Non so se lo sia, ma è bello pensare che comunque il linguaggio visuale del famosissimo format sia un linguaggio ampiamente abbracciabile dal mobile journalism. Per quel suo senso di verità, per quel suo essere più particolare, disintermediato e vicino al senso vero dell’esistenza. Piccola morale senza importanza: guardati Humans of New York e spacca tutte le regole quando filmi. Tranne quelle della bellezza e della verità di un’immagine.

     

  • Farsi pagare una fattura: e se il segreto fosse una piattaforma?

    Farsi pagare una fattura: e se il segreto fosse una piattaforma?

    Farsi pagare una fattura: e se la dritta fosse un sito?

    Quando scrivo pezzi sulla professione parlando di pagamenti delle fatture mi viene la malinconia. Siamo in una tale situazione di disarmo che cercare di essere “positivi” di fronte a un argomento del genere è una cosa che mi mette una tristezza pazzesca. Farsi pagare una fattura: è una vera tragedia. Quando abbiamo fatto il corso “Voglio (devo) fare il freelance” sono andato a scassare i cosidetti a tutti i commercialisti o i legali che mi trovavo a tiro, dicendo e ripetendo come un matto la stessa nenia: “Come si fa a farsi pagare una fattura?”. La configurazione stessa del rapporto tra un freelance e una testata giornalistica fa nascere il rapporto di lavoro in modo sbilenco, ma come possiamo raddrizzarlo in modo che farsi pagare una fattura non diventi una chimera? Forse con una piattaforma.

    E’ un discorso utopistico, ma se non lo fa qualcuno per primo…

    Certo non dovrei farlo io questo discorso e nemmeno tu. Dovrebbero intavolarlo (e seriamente) le componenti del mercato di lavoro giornalistico, al fine di mettersi al servizio della causa e trovare una soluzione. Io addirittura avevo mesi fa proposto questa soluzione qui, ma è caduta nel silenzio. Allora rilancio la cosa e suggerisco una seconda via per far diventare la frase “farsi pagare una fattura” una frase reale (e non da fiction).

    Le componenti come Ordine dei Giornalisti ed editori, dovrebbero codificare insieme formule di pagamento incontestabili e sopportabili per entrambi e dovrebbero farlo, è solo una mia idea, approfittando delle nuove piattaforme di acquisizione lavori che stanno prendendo piede all’estero. Sto parlando di servizi come Paydesk, una piattaforma inglese dove ci si può iscrivere ed essere “affittati” e pagati con certezza da signori clienti. Chiacchierando con Henry Peirse, londinese con un passato giornalistico, divenuto imprenditore proprio per dare risposta a questa esigenza dei freelance (lavorare e farsi pagare, appunto), ho potuto sapere quali servizi offra la sua piattaforma e mi sono messo a sognare.

    Il profilo è gratuito.

    Per il giornalista il profilo è gratis e fra i servizi c’è perfino l’assicurazione che Paydesk garantisce al freelance nell’esecuzione del lavoro. Dati e lavori passati a parte, è interessante la bacheca sul quale si possono mettere i pitch delle storie che si intende realizzare per vedere se qualcuno le compra o ti contatta, come fosse una vera vetrina della gioielleria. Mi ha entusiasmato la coerenza, la pulizia e l’efficacia dei servizi offerti, ma anche il pensiero che una piattforma come questa possa cambiare il gioco.

    Se l’Ordine la rendesse obbligatoria (ma sto ancora sognando)

    Se l’Ordine dei giornalisti la rendesse obbligatoria, se questa piattaforma fosse un tramite tra il freelance che sta in mezzo a una strada (in tutti i sensi) e il caporedattore che gli comanda un pezzo (quando va bene, perché magari è uno stagista), beh, il rapporto verrebbe reso più rigido e meno lasco nella comanda del lavoro e nell’esecuzione stessa. Finirebbero i “manda, manda, che poi vediamo!” e le situazioni in cui il giornalista è obbligato a fare il lavoro e a mandarlo, mettendo a rischio la sua vendibilità, magari, ad altri.

    Con una piattaforma, la contrattazione, il prezzo e il pagamento dovrebbero essere codificate da canali rigidi. Non si vuole stare al gioco? Bene, non si prende il materiale e la finiamo con tutte quelle storie che i giornali inghiottono senza pubblicarlo. Se l’Ordine trovasse un modo di rendere una piattaforma come questa un tramite fisso nel rapporto tra collaboratore giornalistico ed editore, tutte le fatture verrebbero pagate.

    Ora mi sveglio.

    Paydesk promette bene, ma è chiaro che anche la legislazione dovrebbe dare una mano per codificare quei pagamenti tramite piattaforma. I pagamenti, infatti, sono tutti da verificare, per il libero professionista, sotto il profilo fiscale. “La nostra idea è quella di rispondere all’esigenza che il lavoro vada pagato e bene – mi ha raccontato Peirse  in una cordiale chiacchierata di qualche tempo fa -. La nostra piattaforma potrebbe essere perfino un modo per fare pressione e alzare i prezzi: se tutti partecipassero, infatti, costringendo i publisher a passare dalla piattaforma, nessuno scapperebbe facendo il “franco tiratore” per prendere il lavoro… a meno. Perché? Perché verrebbe isolato”.

    Si, però in Italia c’è il furbo…

    Il problema, infatti, è quello. Se ci fosse uno strumento per parificare e stabilizzare i rapporti, sono infatti convinto che in Italia verrebbero subito fuori i furbi. Parlo di quelli che stanno fuori dal gioco perché sicuri di avere in tasca una soluzione migliore. Quella individuale. Qui si potrebbe aprire un’infinita discussione, ma intanto spero di avere puntato lo spot su un mondo interessante, come quello delle piattaforme di “affitto” dei freelance giornalistici. “Se fossi in voi – ha concluso Peirse chiacchierando l’altro giorno – farei parte di una, dieci, cento piattaforme come questa. Le occasioni arriverebbero e la tranquillità di lavorare e venire pagati per questo aumenterebbe la serenità della vostra vita, aumentando la qualità del vostro lavoro”.

  • Reuters Digital News Report 2017: in Italia solo il 5% paga per le news online

    Reuters Digital News Report 2017: in Italia solo il 5% paga per le news online

    Il Digital News Report della Reuters serve a capire dove siamo.

    Questo blog ha l’ambizione di essere anche una fonte di documentazione sulla professione giornalistica che possa aiutare chi lavora in questo campo a comprendere meglio l’epoca in cui viviamo e la direzione che sta prendendo. In questo senso il Digital News Report della Reuters, pubblicato con l’Università di Oxford, è una sorta di faro nella notte per capire quale sia la strada da prendere.

    Studiando queste cose, noi mobile journalist freelance (per la maggior parte), non possiamo pensare di risolvere il problema del nostro esangue portafoglio o del destino dell’editoria. Su questo tipo di documenti, invece, dobbiamo pensare e valutare le possibili soluzioni per proporre nuovi contenuti ai nostri clienti o a pensare di fare formazione su nuove tendenze del giornalismo e della creazione di prodotti multimediali.

    Una specie di cartina geografica.

    Questo Digital News Report ci racconta come sono i principali mercati mondiali della notizia e ti può essere utile come fosse una cartina geografica. Indica delle strade, dei trend, degli indicatori di crescita in certe aree delle digital news piuttosto che in alte. Naturalmente se non sai fare video sei un filo fuori dalle possibilità di intraprendere la strada dei contenuti nuovi, dei prodotti che servono al mercato della comunicazione oggi. Per questo, dopo aver letto questo report, ti consiglio di andare qui a iscriverti a un corso base di Mobile Videomaking della community Italianmojo. Imparerai a fare video professionali con il telefonino che hai in tasca. In da quel momento in poi, capire i trend, capire i cambiamenti del mondo delle news sarà più facile.

    La bastonata ai giornali italiani.

    Sono andato a pagina 78 del report per scoprire che ne pensano dell’Italia. Ti rivelo subito una cosa: in Italia pagano per le news digitali il 5% delle persone che “consumano” news. Una percentuale avvilente, stante il fatto che per fare buone news servono soldi.  Eccoti la frase “bastonata” allo stato dei giornali italiani passati da 6 milioni di copie nel 2000 a 2,5 nel 2016…

    Newspaper readership has always been low in Italy and the press landscape consists of commercially weak quality papers addressing an elite and politically defined audience. The weakness of the Italian press has fostered its reliance on external sources of financing, such as public subsidies and private business sponsorship, which has made it somewhat subject to both political and economic influence. Newspaper circulation in Italy has decreased from more than 6 million copies per day in 2000 to a little more than 2.5 million in 2016.37. The two main players, Gruppo Espresso, which publishes La Repubblica, and RCS, which publishes Il Corriere della Sera, together account for about 40% of the sector revenue.

    Hai capito? Ti traduco io: il contesto è fatto di giornali di bassa qualità che si rivolgono a una definita elite politica. La debolezza della stampa italiana è dovuta principalmente alle fonti esterne di finanziamento, come i sussidi pubblici o le sponsorship private che hanno messo il sistema sotto l’influenza della politica e dell’economia.

    Ecco il documento: Digital News Report 2017 – Reuters. Buona lettura, spero tu possa trovare la tua strada.

  • Montaser Marai (Al Jaazera): “Le newsroom remano contro il mobile journalism”

    Montaser Marai (Al Jaazera): “Le newsroom remano contro il mobile journalism”

    Newsroom ostinate e contrarie.

    Io ne ho viste di ogni colore, te lo confesso. Nei giornali, nelle redazioni, nei siti e nelle tv in cui ho lavorato, ho visto davvero  ogni tipo di persona e ogni tipo di professionalità. Dai geni ai deficienti, dai giganti ai nani. Il mondo del mobile journalism mi permette di entrare in contatto con molte più persone rispetto a prima e con membri di newsroom importantissime. Ne ho intervistato uno qualche giorno fa, non uno qualsiasi. Si tratta di Montaser Marai, dirigente del Media Institute di Al Jaazera e giornalista di gran vaglia con un passato da quattro quarti di nobiltà per quanto riguarda questa professione. Lui è uno degli uomini più influenti del mobile journalism mondiale, perché lo sta introducendo, con il suo Media Institute, in una delle newsroom più difficili del mondo, quella della sua TV. Perché difficili? Beh, lo spiega lui in questa nostra chiacchierata, fatta fuori dal Palazzo dei Giureconsulti a Milano, in occasione del Prix Italia. Semplice il problema: le newsroom remano contro il cambiamento.

    La prima necessità del mobile journalism? Cambiare la cultura.

    Te lo dico, Montaser mi ha quasi emozionato quando ha parlato di “importanza della cultura. Le newsroom stanno resistendo al cambiamento – ha continuato Marai -, ma dovranno calare le difese. Resistono perché i colleghi sono abituati a lavorare in un certo modo da anni, si sentono più sicuri ad avere un’intera troupe che li contorna. La prima necessità del mojo, invece, è che si portino queste redazioni a cambiare cultura, a pensare che lo smartphone esprime un linguaggio nuovo e non per forza peggiore, che regala altre possibilità. Fatta questa rivoluzione culturale, molto probabilmente le redazioni di tutto il mondo adotteranno il mobile journalism”.

    Sinceramente non voglio levarti il bello di ascoltare questa chiacchierata, quindi ti rimando al video dell’intervista a Montaser Marai. E’ in inglese, perché l’inglese è la lingua del mojo. Enjoy.

     

  • Mobile journalism: ecco i punti di riferimento per il futuro.

    Mobile journalism: ecco i punti di riferimento per il futuro.

    Mobile journalism: abbiamo bisogno di eroi.

    In queste ore ho riflettuto sulla mia storia all’interno del mondo del mobile journalism e ho scoperto una cosa molto interessante: sono un alunno, non un professore. Un alunno che condivide ciò che impara e che impara da coloro che condividono. Certo, in Italia questa dichiarazione può anche far rima con la parola coglione.

    La cosa non mi cruccia: il ruolo che mi sono preso nel mondo del mobile journalism è quello di chi apprende e poi divulga, di chi aiuta gli altri a conoscere nuovi mondi e nuovi modi di fare il giornalista. In questo momento gli “altri” colleghi, magari, non hanno nemmeno il tempo di alzare la testa e guardare l’orizzonte: io cerco solo di dare una mano a te e a qualcun altro, affinché possiate tutti alzare lo sguardo, se lo desiderate, per vedere cosa sta succedendo.

    Con la necessità urgente che abbiamo di giornalismo vero e di qualità, ti confesso che, a mio avviso, abbiamo bisogno anche di eroi. Ho deciso di condividere anche quelli, certo che ti possano aiutare a vedere cosa succederà domani e dove devi andare. Altrimenti ti perdi, anzi, ci perdiamo.

    Lo choc è che i miei maestri son tutti bambini (o quasi)

    Potrei dirti che i miei maestri sono Michael Rosenblum o Ivo Burum, Glen Mulcahy o Ilicco Elia, ma effettivamente mi sbaglierei. Quelli sono i maestri che hanno fatto la storia del mobile journalism. Volendo andare più avanti sono coloro che tengono le fila del presente e lo fanno crescere. Quelli che indicano la strada per il futuro, invece, sono altri.

    Yusuf Omar e la visione di #hastagourstories

    Il primo che ti voglio citare, fra i miei maestri, è Yusuf Omar che, in questi giorni, sta completando il giro del mondo con il suo progetto #hashtagourstories. E’ del 1989, è nato in Inghilterra, ha studiato negli Usa, è diventato grande lavorando in Sudafrica, poi ha realizzato la più strepitosa redazione di mobile journalist del mondo, quella dell’Hindustan Times. Si è sposato con la CNN per fare l’editor di Snapchat, ma ha mollato la compagnia dopo 7 settimane per lavorare al suo progetto globale che vuole portare il mobile journalism dove non c’è.

    Il suo sogno? “Informare e coinvolgere i mobile storytellers ad abbracciare la rivoluzione in atto nei media. Vogliamo creare – racconta dal suo sito – una piattaforma multicanale che parta dai mobile e arrivi ai mobile”. Un ecosistema nuovo dell’informazione: senza la tv, senza i media tradizionali, “armato” da chiunque abbia uno smartphone in mano e sappia fare della informazione corretta e di qualità”. Un visionario che la pensa come me che nell’ultimo evento pubblico ho dichiarato “Voglio un mondo pieno di giornalisti e senza editori”.

    Francesco Marconi, l’italiano che cambia il mondo dei media.

    Non lo conoscevo: giuro. Poi qualche giorno fa ho incontrato una sua ricerca con il future lab di Ap sull’Augmented Journalism e mi sono innamorato di lui. Francesco Marconi ha 30 anni, quindi è del 1987, è italiano, figlio di un romano e di una portoghese. E’ un genio, ha studiato ad Harvard, è fellow al Tow Center for digital Journalism e researcher al Mit Media Lab di Boston. Ti basta? Ha scritto un libro magnifico che si intitola Live Like Fiction, un libro che io ho letto in un giorno e sto rileggendo, perché è di quelli che ti cambiano la vita. Cosa fa? Si butta nel futuro dell’informazione e cerca, cerca, cerca. Per questo lo devi, ripeto, lo devi seguire. Ogni suo tweet è un distillato di domani scodellato oggi. E’ incredibile la quantità di informazioni che riesce a divulgare e la potenza con cui usa l’automation senza sembrare un robot. I suoi lavori che devi leggere negli ultimi tempi sono questi due: Aumented Reality e 3D Journalism. Dacci dentro.

    Mark Little e il Netflix delle news (con un tocco di AI)

    Mark Little è il fondatore di Storyful, piattaforma che aiuta le grandi organizzazioni di news a creare storie verificate dagli UGC e dai social. Già questo potrebbe tranquillamente fare di lui un fenomeno. E’ stato anche un giornalista di RTE e non credo sia un giovane come i due di cui ti ho parlato qui sopra. Dopo aver venduto Storyful a News Corp ha girellato a Twitter, ma ieri è uscito allo scoperto con i Neva Labs con i quali ha deciso di impostare una nuova media company che si interesserà di questo.

    What would happen if each one of us took control of the artificial intelligence that powers our news experience? What kind of conversation would we have with our smarter ‘woke’ selves? How much more would we trust the news if it rewarded our attention rather than distracted it?

    News e AI andranno a braccetto. I nuovi modelli di produzione delle news dovranno fare rima con distribuzioni delle news stesse ben diversi da quelli che abbiamo oggi. I nuovi canali saranno responsivi, adattabili a chi li usa, dedicati alla verifica della bontà delle news stesse come alla loro targettizzazione che le farà diventare come uno strumento utile e qualitativo per migliorare la nostra vita. Mark Little è pronto a creare un nuovo business secondo questi concetti, ma anche secondo un modello che potrebbe avvicinarsi a quello di un Netflix per le news, idea parecchio interessante.

    Tre maestri e una maestra.

    Insomma gli algoritmi che vivremo non saranno solo quelli autoreferenziali dei canali social, ma quelli che imparano dalla nostra esistenza e ci fanno recapitare nei nostri aggeggi le notizie che veramente ci servono. Certo, questo apre un dibattito senza fine sull’etica e sulla privacy, ma andiamo irrimediabilmente in quella direzione. E Mark Little è un maestro dell’argomento, assieme alla collega Aine Kerr.

    Tre maestri (e una maestra) sono abbastanza, per oggi. Un’ultima nota: i maestri sono infiniti, come i sogni. Basta cercarli.

  • Quando un corso di mobile journalism diventa un network

    Quando un corso di mobile journalism diventa un network

    Network e capitale sociale: tra i mobile journalist ce n’è di più

    Mi sono accorto di una cosa, mentre passano i giorni della settimana che mi avvicina a un nuovo corso di mobile journalism. Mi sono accorto che gli eventi e i corsi di base che stiamo sviluppando con la community Italianmojo e con MilanoAllNews si trasformano spesso in occasioni ghiottissime per fare newtwork. Da queste reti di relazioni, da questi network, poi, molti colleghi e amici ricavano una massiccia dose di capitale sociale da immettere nelle dinamiche delle loro relazioni lavorative.

    La diretta conseguenza è la creazione di opportunità professionali, di incontri, di riunioni, di “session” per pensare a un format da fare insieme: insomma, lavoro, lavoro, lavoro. Ho capito anche il motivo di questa facilità a creare network utili a migliorare la propria condizione. E’ semplice: al centro c’è una materia e una modalità nuova di fare le professioni visive, un linguaggio che riporta tutti più vicino alla qualità del lavoro, al pensiero, alla creatività. Per questo diventa più facile unirsi, semplicemente perché si ha un nuovo futuro da imparare e da condividere con la comunità di coloro che lo stanno imparando e, contemporaneamente, facendo. Come me.

    La risposta a E.

    E. è un ragazzo che ha fatto un corso con me. Mi ha fatto alcune domande in una mail dopo che io, durante il corso, mi sono permesso di dirgli che non si comprendeva cosa davvero volesse fare. Durante la giornata di corso l’ho invitato a “precisare” dentro di se e poi all’esterno cosa desiderasse davvero dal suo percorso professionale, arricchito  in quel momento dalla possibilità di avere un ottimo linguaggio visuale da sfruttare (il mobile journalism, appunto). Nella mail mi ha chiesto ancora di riempirgli i vuoti e io ho deciso di rispondere pubblicamente.

    Il Bosone di Higgs raccontato ai bambini.

    Caro E. devi rispondere da solo alle domande che mi hai fatto e devi farlo mettendo sul tavolo tutte le tue armi e le tue qualità, contandole per bene e “lustrandole”. Fatto questo, essendo tu un creatore di contenuti, devi pensare, anche grazie al linguaggio mojo, quali servizi tu possa rendere alla collettività tali da poter essere considerato un riferimento per quel tipo di prestazione d’opera e che quella prestazione d’opera aggiunga valore a chi la riceve.

    Il tutto deve essere fatto, tuttavia, creandosi una specificità tale da rappresentare un punto di riferimento autorevole per quel tipo di prodotti, servizi, creazioni. Faccio un esempio forzato: a scrivere favole per bambini sono in molti. A scrivere un libro per bambini con una spiegazione su cosa sia il Bosone di Higgs non ci ha ancora pensato nessuno. Ecco, tu caro E, devi essere quello che racconta il Bosone di Higgs ai bambini. Accorrerebbero da ogni dove per sentirti. Ti ho reso l’idea?

    E. è attore e creatore di relazioni.

    E. è stato capace di creare, grazie a un semplice corso mojo, relazioni che sono diventate un network. Per questo che ho deciso di rispondergli in pubblico. Ho deciso di farlo affinché cerchi le sue risposte da solo oppure da quel network che si sta muovendo attorno a lui alla ricerca di un’idea da formattare e magari da vendere. Ci sono stati incontri, mail, scambi di idee, brainstorming fruttuosi e infruttuosi.

    Tutte queste cose sono state “accese” da un corso di mobile journalism. Oggi, per esempio, io stesso sono stato coinvolto in un lavoro assieme a due mie corsiste e, facendolo, ho incontrato una persona che ha manifestato l’interesse di venire al corso di mobile videomaking di sabato 30 settembre. Essere mojo, essere alleggeriti da tecnicismi e macchinari pesanti, aiuta la creatività e le capacità di relazione con gli altri, quindi inevitabilmente anche con i colleghi. Aiuta anche il pensiero che serve per creare nuove opportunità di lavoro, nuove opportunità di ricchezza.

    Il corso di mobile journalism di sabato (e dintorni).

    In queste ore il corso di Stampa Romana tenuto da Nico Piro ed Enrico Farro sta vivendo il suo clou, mentre il Centro di documentazione giornalistica ha varato, sempre con i due insegnanti romani, dei corsi anche a Milano. Sono, quindi, giorni interessanti per la materia del mobile journalism che sta crescendo come interesse. Sta crescendo anche la partecipazione ai corsi di Italianmojo che vedranno una nuova puntata sabato 30 settembre con un nuovo corso base. I ragguagli dell’evento li puoi trovare qui, assieme alla modalità per iscriversi. Ci sono ancora 6-7 posti disponibili per riempire la nostra saletta.

    Sempre a proposito di network

    Sempre a proposito di reti di relazioni, di capitale sociale e di network, mi hanno chiesto di preparare anche un corso per la Fabbrica delle Idee, uno straordinario coworking di Maniago, cittadina splendida in provincia di Pordenone. Tornerò presto in Friuli, quindi, per fare un’altra emozionante esperienza di corso base. Devo dirtelo, mi diverto molto a farli, perché ritengo che siano una grande opportunità e regalino l’emozione (che vedo nei volti di chi lo fa) di scoprire qualcosa di nuovo che può cambiare le sorti e le vicende di una vita lavorativa. Se sei di quelle parti, quindi, prenota il tuo posto andando a questo link e ci vediamo lì. Anche per creare un ulteriore punto di un grande network. Un network mojo.

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