Autore: Francesco Facchini

  • Vendere un format, Castellucci: “La chiave resta la storia”

    Vendere un format, Castellucci: “La chiave resta la storia”

     

    Vendere un format: un momento magico.

    Ho venduto tanti contenuti giornalistici nella mia carriera e ho capito che, per vendere un format, non esiste una regola o una legge, ma un momento magico. Durante la Mobile Journalism World Conference di Galway, sui ho partecipato ormai una decina di giorni fa, ho assistito a un panel che parlava di documentari e long form storytelling fatto con le tecniche del mobile journalism. E ho trovato sulla mia strada un maestro di livello mondiale. Si tratta del 45enne Mike Castellucci, professore di giornalismo della Michigan State University di East Lansing, vincitore di 20 Emmy per la Tv con i suoi format come “Open Mike” o “Phoning it” grazie ai quali ha imposto al grande pubblico americano il suo linguaggio visivo mojo e la sua straordinaria verve nel far parlare i protagonisti delle sue splendide storie minime.

    Ho cercato di derubarlo.

    Mentre tutti gli chiedevano i segreti delle immagini (un miscuglio di talento americano e di faccia da culo italiana) io gli ho chiesto banalmente come si riesce  vendere un format. Come diavolo si fa a creare quella magica interazione con il compratore che, di solito, se acquista acquista in pochissimi secondi quello che gli proponi (50-60 mediamente). Quando con un capoccia cui proponi un pezzo, devi parlare, infatti, più di un minuto, solitamente non ti piglia nulla. Se scrivi una mail di più di dieci righe, il capoccia non la leggerà.

    Ho cercato di rubare il segreto a Castellucci che ha prodotto e pensato con lo smartphone prodotti da urlo e poi li ha venduti (certo in un mercato diverso dal tuo e dal mio). “La risposta non ce l’ho – ha detto il prof -, ma so che la gente cui vendo il mio lavoro lo vede e gli piace. E gli piace perché in qualche maniera riesco a raccontare una storia e questo è tutto quello che vogliono. Racconta una storia e se è una gran storia, se è ben scritta, se è interessante, se mi coinvolge, allora la gente la comprerà”

    La risposta filosofica

    Comunque in qualche modo ha risposto: “La cosa che dovete fare è darvi una risposta filosofica alla vostra domanda – ha continuato il videomaker -. La vostra risposta deve essere la storia, non la tecnica. Come si fa a trovarla? Una delle ultime domande che mi sono state fatte durante Mojocon era di una donna che mi ha detto ‘non riesco a trovare il grande soggetto’. Ho risposto: sfidatevi. Sfidatevi perché tutti hanno una storia da raccontare. Davvero tutti. E questa storia è interessante, coinvolgente e qualche volta anche emozionante. Potrebbe non essere sopra la superficie come una collezione di bambole (il riferimento è al format di RTE The Collectors, ndb). Quella è un’idea molto facile. Tuttavia vi garantisco che se voi andate da ognuna delle persone che vi stanno intorno hanno una splendida storia da dirvi. Devi solo sapere come metterla giù”.

    E come diavolo si fa a vendere?

    Castellucci non ha ricette magiche, ma parla. Tuttavia mi ha detto come fa. “Di solito vai da un boss e gli dici ‘Ho una gran storia per lei’ e non ti crede. Di solito non ti presta attenzione e non la vuole vedere. Ebbene, vi dico che in qualche diavolo di modo dovete cercare di fargliela vedere. Un minuto: non di più! Dico anche un’altra cosa. Ho progettato il mio flusso di lavoro sapendo di quel minuto da fare e di voler essere sicuro che quando schiacciano il tasto play per vederlo quello è il minuto migliore. In qualsiasi lavoro, quindi, quel minuto, il primo minuto, deve essere il più bello. Lavoro a piramide rovesciata: il bello davanti e poi a scendere. Certo vorrei che tutto il lavoro fosse bello alla pari, ma spesso non ci si riesce”.

    Le informazioni per seguire Castellucci

    Se volete vendere un format o un contenuto, quindi, seguirlo a vista è assolutamente interessante. Il professore, che mi ha rivelato di avere il 100% di sangue italiano ha chiuso così la chiacchierata: “Il mojo è una cultura: questo è il punto. E’ qualcosa che può cambiare la carriera dei freelance perché non hanno bisogno di equipaggiamenti da centomila euro per fare grandi lavori. La mia attrezzatura ne costa mille. Non buttatevi nel fuoco con grandi spese. Questa attrezzatura mobile fa sentire anche liberi perché è leggera. Se ì l’onda del futuro? Non lo so, ma per me la cosa che so è che posso uscire con questa, andare in un’altra città, trovare una persona che ha una storia da raccontare e catturarla”. Il blog per seguirlo è questo: fallo.

  • Gigabit society, editori e giornalisti: il futuro è mojo

    Gigabit society, editori e giornalisti: il futuro è mojo

     


    Gigabit Society in arrivo.

    Con l’arrivo della connessione mobile di quinta generazione, il 5G di cui ho già parlato in questo pezzo, la società che conosciamo diventerà la Gigabit Society. Cambierà tutto, cambierà anche il mondo dei media. Se sei un editore e capiti qui, specialmente se hai una tv, siediti, mettiti comodo, che ti dico una cosa. Fai parte del sindacato? Mettiti ancora più comodo che dobbiamo parlare. Sei un giornalista? Diventa un mobile journalist che ti conviene. Questione di sopravvivenza.

    Quando ho visto questo documento, non ci credevo.

    Mojocon 2017, la Mobile Journalism World Conference cui ho preso parte dal 4 al 6 maggio, è iniziata con una keynote di Richard Swinford, Head of Telecommunications, Information, Media & Entertainment (TIME) Practice, UK, di Arthur D. Little, uno dei più grandi studi mondiali di consulenza. Al centro le caratteristiche della Gigabit Society, la società che vivremo tutti quando avremo a disposizione il 5G.

    Il suo discorso è partito dallo studio commissionato da Vodafone alla sua azienda per descrivere e disegnare in modo particolareggiato il nuovo tessuto sociale che la connessione superveloce in mobilità potrà regalare. Il motivo per cui si è aperta così la Mobile Journalism Conference è semplice: dentro questa nuova società i media avranno una configurazione completamente diversa, in tutti i loro aspetti. Produzione, distribuzione, fruizione, canali, ecosistema. Tutto irrimediabilmente diverso.

    Prenditi tempo per leggere.

    Non so se hai abbastanza tempo per leggere questo report di Richard Swinford,  Camille Demyttenaere ed Eric Stok. Se non ce l’hai trovalo. Sinceramente ti conviene. Cambieranno trasporti, conoscenza, medicina, agricoltura, industria, commercio, finanza, scuola. La Internet of Things diventerà cosa comune.

    Cambieranno i media, perché si vivrà in un ecosistema in grado di bypassare completamente il dinosauro rappresentato dal broadcasting televisivo classico, partendo da produzioni in mobilità e arrivando a fruitori in grado di vedere, tramite le loro device, contenuti in 4k o in realtà aumentata.

    Vai a pagina 19 del report per comprendere meglio quali saranno le potenzialità del 5G  nei media, di un 5G che avrà la velocità da 1 a 20 giga al secondo, che potrà far lavorare alla stessa velocità 1 milione di oggetti connessi in un 1km quadrato, che potrà essere fruita anche a 500 km orari in movimento, che avrà una latenza inferiore al millisecondo.

    Ecosistema senza editori?

    Si trasferiranno in un secondo video da un giga, in una manciata di secondi film visibili in 4k senza tempo di attesa. In questo nuovo mondo gli editori non potranno non ridiscutere il loro ruolo. Ci sarà un ecosistema che, dalla produzione al delivery potrebbe anche fare a meno di loro. Ne parla apertamente Glen Mulcahy, capo di Mojocon in questa intervista che ha rilasciato a me qualche giorno fa.

    Dal proprio telefonino, passando per le piattaforme come Youtube e Vimeo, già in grado di consegnare streaming in 4k, si arriverà ai fruitori dei video senza passaggio intermedio dalla tv. Almeno che questi attori dell’editoria non si siedano con i produttori di contenuti e con le piattaforme. C’è da ricodificare il mondo dell’informazione. La rivoluzione è impossibile da fermare, bisogna salirci sopra e cercare di guidarla in modo inclusivo, mettendosi tutti in discussione e dandosi nuovi traguardi. Insieme.

    Messaggio a Ordine e Sindacato.

    Se sei dell’Ordine o se sei del sindacato, della FNSI, scaricati questo report e pensaci su. Tutto deve cambiare, a partire dalla parola stessa, giornalista, vecchia come il cucù. Lo dice Michael Rosemblum, il padre del videogiornalismo mondiale: il giornalismo è morto, perché si è suicidato. Se non si attrezza per la società a 5G non risorge…

    Per questo gli attori del giornalismo italiano, Ordine e Sindacato, devono accorgersi della situazione e mettere gli editori di fronte a un fatto. Devono ridiscutere tutta la realtà dell’industria giornalistica nazionale. Non c’è possibilità alternativa. Se non quella di diventare un paese assolutamente periferico e decadente rispetto alla rivoluzione mondiale del mondo dei media. D’altronde se CNN e Al Jazeera, tanto per dirne due, hanno iniziato a salire su questo toro imbizzarrito del cambiamento, un motivo ci deve essere. Ecco, aspetto la Rai, Mediaset, La7, il Corriere, la Repubblica. Vi prego, prendete il mojo per le corna. Altrimenti vi disarcionerà.

     

  • Giornalismo, Mulcahy: “Ora il mojo è cosa di tutti i giorni”

    Giornalismo, Mulcahy: “Ora il mojo è cosa di tutti i giorni”

     

    Giornalismo e mojo: un binomio possibile.

    Al termine di Mojocon, la Mobile Journalism World Conference di Galway andata in scena dal 4 al 6 maggio, ho avuto l’occasione di parlare a lungo con il gran boss della manifestazione, il giornalista irlandese Glen Mulcahy. Il 43enne, capo dell’innovazione presso il broadcaster nazionale irlandese RTE, ha raccontato le sue sensazioni al tramonto della conferenza che, per tre giorni, ha tenuto assieme alcuni fra i pionieri del mobile journalism mondiale, parlando di un’edizione riuscita e improntata al “consolidamento. Ho visto case study coraggiosi – continua – che hanno fatto pensare che il giornalismo fatto con le device mobili è diventato parte del nostro lavoro di tutti i giorni“.

    Un’ edizione di consolidamento.

    Mojocon, nata proprio dalla testa di Mulcahy e dal suo visionario coraggio, è giunta alla terza edizione e ha mostrato senza dubbio come si possa fare del giornalismo di qualità con smartphone e tablet, lanciandosi anche nel mare dei video immersivi e nella realtà virtuale. “La prima edizione – afferma Mulcahy – era quella della novità. Si vedeva per la prima volta che nel giornalismo si poteva fare questa cosa. La seconda è stata quella della maturazione, mentre la terza ha fatto capire che il mojo può essere parte di tutti i processi produttivi. Mi ha fatto piacere vedere la comunità diventare forte e coesa, anche per merito di una città come Galway, magica nel creare contatti e far incontrare le persone”.

    Un messaggio all’Italia.

    “Stati che si affacciano per la prima volta a questo mondo – sottolinea Mulcahy – devono sapere di poter contare sulla nostra comunità. Va chiarito che la storia del mojo è molto giovane e ci è voluto molto tempo per convincere le persone che con smartphone e tablet si poteva fare giornalismo di qualità. Poi va anche chiarito che ci sono persone differenti al mondo, anche nella capacità di prendersi dei rischi. E comunità differenti. Non è una sorpresa, quindi, quella di vedere che ci sono paesi più avanti e paesi più indietro nell’accesso al mobile journalism che sta rivoluzionando il giornalismo. Basti pensare che perfino gli Stati Uniti, sul mobile journalism, sono dietro all’Europa. Quello di cui avete bisogno in Italia è una comunità, state facendo un buon lavoro“.

    La forza di una comunità.

    “D’altronde –  afferma Mulcahy – Mojocon stessa è nata così’, come una comunità di persone che faceva mojo e si scambiava le practice per crescere insieme. Avete bisogno di replicare le stesse modalità, di fare gruppo, Meet Up, corsi, di avere dei case study, di diffondere la cultura in un piccolo gruppo di persone che poi faccia da diffusore del mobile journalism nel tessuto connettivo del giornalismo tradizionale“. Come un inarrestabile “virus”. La forza della comunità dei giornalisti, infatti si è vista benissimo in Irlanda.

    Gli “avversari” più agguerriti.

    Ora c’è da convincere gli editori a investire su questa fenomenale possibilità. “Paradossalmente – sentenzia Mulcahy – quelli più diffidenti sono proprio gli imprenditori televisivi. Quando direte loro che si possono fare con un telefono le stesse cose che stanno facendo con infrastruttura milionaria, vi risponderanno ‘Bah, è come avere una Ferrari e andare in giro con una 500’. Devono capire che si sta creando un ecosistema mojo che parte dagli smartphone e arriva agli utilizzatori finali passando soltanto attraverso device mobili e bypassandoli“.

    Entrare in questo mondo ridurrà il rischio di essere scavalcati a zero e non è una questione di riduzione dei costi, ma di sopravvivenza. D’altronde se c’erano qui gruppi televisivi come CNN e Al Jaazera perché vogliono vedere da vicino come va a finire ci sarà un motivo, no? Poi quando arriveremo alla connessione 5G l’ecosistema avrà un avanzamento inarrestabile e le televisioni rimarranno fuori, con la loro eredità milionaria di infrastrutture“.

    Il futuro, con le proprie gambe.

    Mojocon 2018 potrebbe avere un volto completamente diverso ed essere autonoma. “RTE sta ristrutturando ancora e potrebbe considerare questa conferenza come un orpello e non come core business – conclude Mulcahy -. Io, tuttavia, ho investito un’enorme parte della mia vita su questa creatura. Assicuro fin da ora che, se RTE dovesse decidere di tagliarla, io lascerò la tv e andrò avanti da solo“. Una strada tracciata, sulla quale bisogna mettere anche gli editori e i sindacati, per una rifondazione ampia del giornalismo. In tutto il mondo.

     

  • Mojocon Day Three: la comunità, il futuro e la sorpresa City Producer

    Mojocon Day Three: la comunità, il futuro e la sorpresa City Producer

    Mojocon, terzo giorno: le mani in pasta.

    Si è chiusa ieri, Mojocon 2017, si è chiusa con un giorno dedicato a workshop operativi che vertevano sugli argomenti trattati nei panel dei due giorni precedenti. Abbiamo messo tutti le mani in pasta, lavorato con i telefoni in mano, scambiato idee, incontrato i relatori da vicino, testato cose, pensato a soluzioni per migliorare il proprio business, la propria vita professionale. La sensazione più forte? Quella di essere dentro una comunità, connessa, potente, aperta, umile, decisa (e un po’ sognatrice). Quella di poter contare su una tale serie di link da far tremare le vene dei polsi, link con persone attive, operative, esperte e gentili, sempre pronte a darti una mano per farti capire che poi, ciò che dai, torna indietro.

    I pionieri del mojo.

    Quelli con cui ho vissuto questi giorni sono i pionieri del mojo, un gruppo di persone che lavorano nei posti più disparati del mondo e che sanno di avere tra le mani una via per rivoluzionare il mondo dei media, finalmente in modo libero. Talvolta sembrano dei geeks (per dirti la definizione, gente con troppo entusiasmo per questo mondo tecnologico digitale), ma conoscono una strada economica, giusta, paritaria e rivolta al futuro per far rialzare il giornalismo dalle ceneri: il mobile journalism.

    Le pressioni contro il mobile journalism sono fortissime.

    I mojoer sono una comunità forte, aperta, fiduciosa e attiva: per questo fanno paura. Lo conferma il fatto che ho saputo di pressioni forti dentro la BBC per tornare indietro rispetto ai passi fatti dentro il mondo del mobile journalism: pressioni che derivano dai settori dei tecnici e dalle figure professionali classiche dei giornalisti che hanno conosciuto il mondo del broadcasting importato in un certo modo, parzializzato, diviso in settori di competenza. I mojoer devono avere tutte le competenze, dal filming, al montaggio, al suono, al colore delle immagini, in una professionalità sola.

    Questo spaventa. Se ascolti poi l’ultima chiacchierata di chiusura di Glen Mulcahy sul futuro di Mojocon comprenderai che anche RTE sta per fare un passo indietro e lui è orientato a staccarsi e andare avanti da solo. Il motivo? Per una tv questo modo di vedere le cose cozza contro l’enorme massa di investimenti fatti per l’hardware classico della tv. Se tutti andranno in giro con i telefonini, una RTE non saprà che farsi di milioni di euro di studi televisivi, telecamere e regie. Così tante altre tv. Le pressioni sono anche sindacali, ma va aperto un dialogo con tutti, perché la via del futuro passa da un cambiamento totale del modo di produrre news e il cambiamento io penso sia mojo.

    La via per vendere? Non partire dal telefono

    Te lo dico subito: nei prossimi giorni parlerò molto anche dei prodotti visti qui e dei produttori di hardware per il giornalismo, ma il mojo resta una nuova filosofia professionale che ha poco a che fare con le device, i microfoni, i treppiede o le lenti. Deve entrarti nella testa.

    Se vuoi abbracciare questa nuova cultura professionale non puoi partire dal telefono e dagli aggeggi che lo circondano, ma dalla qualità, dall’efficienza, dalla particolarità e dall’innovatività di quello che farai.E dalle storie particolari che troverai. Altrimenti fornirai una bella scusa a chi deve prendere i tuoi pezzi per non farlo. Punto.

    Ti dico anche un’altra cosa: le recensioni che farò, di conseguenza, saranno quelle dei prodotti che userò, quelle dei prodotti che vanno bene per il mio mojo, ma magari potrebbero non essere buoni per il tuo. Mi schiererò, quindi, ma sono qui per darti consigli: scrivimi e ti rispondo (magari ci metterò un po’, ma lo faccio).

    La sopresa di City Producer

    Chiudo, da Galway, dicendoti che ho incontrato anche gli sviluppatori di City Producer, un’applicazione integrata di filming ed editing di altissimo livello. Si tratta di un prodotto innovativo che fa un passo in più rispetto alle semplici applicazioni come Filmic Pro e Luma Fusion. Le mette insieme in un sistema professionale di alto livello per i videomaker e i giornalisti video, un sistema in grado di fare mojo in una applicazione sola e di integrarsi in modo lineare con le regie delle tv o con i siti per l’invio del materiale o lo stesso live streaming.

    Ora torno a casa. Buon mojo e alla prossima.

  • Mojocon Day Two: il mojo tra Snapchat e bellissimi format

    Mojocon Day Two: il mojo tra Snapchat e bellissimi format

    Mojocon: il segreto è nelle immagini.

    La seconda giornata di Mojocon 2o17, la Mobile Journalism World Conference di Galway, è volata via con tre indicazioni molto forti. Riassumo: il giornalista deve cercare i lettori, conoscerli, interagire con loro (fino a Snapchat e oltre, rassegnati); con il mobile journalism si possono fare eccellenti format con eccellenti immagini; il campo del rapporto con le aziende per la valorizzazione di storytelling e brand journalism è assolutamente ampio e libero.

    Snapchat da conoscere, ma…

    Io scrivo tutti i giorni (o quasi) di innovazione nel mondo del giornalismo, per questo motivo tutto quello che rappresenta un canale nuovo per dare notizie mi interessa.

    Nella mattinata di ieri è stato, diciamo, frizzante e simpatico, perché mi ha fatto conoscere uno strumento che interessa i lettori giovani e che può rappresentare un elemento importantissimo per comprendere come proporre le notizie. Su questo CNN e il collega Yusuf Omar di cui ti ho già parlato spesso, hanno lavorato benissimo. Il panel era pieno di straordinarie professioniste e ottimi case studi, ma mi ha fatto pensare. A parte il motivo della conoscenza dei nuovi modi di usufruire delle notizie che hanno i giovani, cosa da conoscere e da sapere, ho subito visto che Snapchat è praticamente impossibile da praticare per la mia figura di riferimento del lettore: il giornalista freelance. Semplice il motivo: non ci puoi guadagnare. Nei prossimi giorni tornerò sull’argomento, ma non ci puoi guadagnare…

    Le immagini di un iPhone? Superbe.

    Nel pomeriggio un panel sul long form storytelling mi ha aperto un mondo. Tanti, tantissimi consigli tecnici su come fare storie per il mobile journalism. Il segreto sta lì: nell’infinita possibilità di trovare storie da vendere. E si può fare con meno di mille euro e con un risultato super professionale. E’ stato folgorante sentire parlare il professor Mike Castellucci, di Michigan State. Un vero maestro dell’immagine e del format che puoi trovare in questo sito e che io ho incontrato. Ti farò sapere tutto nei prossimi giorni, ma i consigli che ha dato sono interessantissimi e convincenti.

  • Mojocon Day One: il giornalismo è morto, ma sta benissimo

    Mojocon Day One: il giornalismo è morto, ma sta benissimo

    Mojocon: il futuro è qui.

    Finisce il primo giorno di Mojocon 2017, la Mobile Journalism World Conference and Content Creation che si sta svolgendo a Galway, sulla costa atlantica dell’Irlanda e le sollecitazioni da raccontare sono molte, moltissime. La prima? Il futuro del giornalismo è mojo e passa da qui, da queste centinaia di innovatori e pionieri della cultura del mobile journalism che RTE, la televisione di stato irlandese, grazie alla fenomenale lungimiranza di Glen Mulcahy, ha creato nel 2015 e che quest’anno ha portato nel mondo dei video a 360 gradi.

    La mattina del funerale.

    Abbiamo passato la mattina a fare il funerale al giornalismo, anche perché, insomma, il cadavere puzza. I mojoer, infatti, sono quelli che possono ribaltare la situazione, ma solo dopo aver rotto gli indugi, i linguaggi, il consueto modo di produrre e di distribuire contenuti di informazione. Solo dopo aver fatto, quindi, il funerale al giornalismo come lo abbiamo conosciuto fino a ora.

    Nel panel con Michael Rosenblum, Ilicco Elia, Samamtha Barry di CNN, Montaser Marai di Al Jaazera e Mark Joyella si sono evidenziate due fazioni con una spaccatura in mezzo. La prima, rappresentata bene da Rosenblum e da Ilicco Elia (ex Reuters), ha parlato apertamente di un giornalismo morto grazie al web, morto per suicidio perché non si è accorto che tutto il  mondo attorno all’ecosistema dell’informazione cambiava. La seconda, ben diretta da Samantha Barry, che ha parlato di un giornalismo in perfetta salute, ma comunque detenuto dalle news organization che condizionano, comunque, il mercato.

    Il pomeriggio a fare immersione.

    Il panel più pratico, dopo una divagazione “religiosa” di una conferenza nella quale si discuteva della divisione tra mondo iOS e mondo Android, è stato quello del pomeriggio, con Sarah Hill di Story Up (guarda il sito, ti conviene), con Sarah Jones, con Louis Jebb di Immersivly, con Robert Hernandez della University of Southern California e Max Richter di Insta 360. Il motivo? Beh, semplice. Ha regalato un’enormità di consigli pratici e anche dei consigli su come monetizzare i contenuti. Uno? Guardate qui cosa si può fare e vendere con thinklink.