Autore: Francesco Facchini

  • La fattura: problema e soluzione (provocatoria)

    La fattura: problema e soluzione (provocatoria)

    La fattura è il primo incubo del mojo italiano.

    Forse è l’incubo numero uno del giornalista indipendente. Non c’è che dire, se sei un mojo freelance il tuo problema, in Italia, non è fare grandi cose, big news o tutto quello che accidenti ti viene in mente di fare. Il tuo problema è farti pagare: emettere la fattura contestualmente al pagamento. E’ così nel mondo dei professionisti, degli outsourcer, anche delle piccole imprese che fanno outsourcing.

    Fattura: questa sconosciuta quando si tratta di pagare.
    Fattura: questa sconosciuta quando si tratta di pagare. (Pixabay)

    Visto che in questo blog io parlo a te mojo freelance, ti racconto una cosa che riguarda il tuo mondo e ti provoco con una soluzione (che, se non ho sbagliato nelle mie ricerche prima di questo pezzo, non si può adottare). La cosa che ti riguarda è la fattura, insomma, quella cosa, quel pezzo di carta con la marca da bollo da 2 euro, il quale va da te al tuo cliente al tuo cliente e per il quale (se si chiama fattura) il tuo cliente DEVE PAGARE SUBITO. Tuttavia non è così. Tuttavia la realtà italiana è che la fattura diventa chimera anche quando è uscita dal tuo pc ed è volata tra le mani di chi ti ha chiesto di fare un lavoro. Sì, vero, potremmo aprire una serie di lamentazioni sul costume italiano di pagare (anche gli imprenditori subiscono questo) a babbo morto. Potremmo anche giustamente discettare sul fatto che il freelance, a lavoro eseguito e accettato, o pubblicato, deve essere pagato perché non è uno strano animale che si ciba di aria. Però ho deciso che voglio parlare d’altro, rispetto a questo incubo del mojo italiano.

    Il dovere di parlare prima di fattura

    Certo, mi piacerebbe poter parlare soltanto di tecnica del mojo o delle ultime novità che riguardano il mondo del giornalismo, però mi sono sentito in obbligo di procedere prima con questo post per non fare finta (come del resto fanno in molti sul web) di essere nel mondo dei sogni. Il ruolo di Alice nel paese delle meraviglie lo lascio ad altri e, prima di continuare il discorso sulla tecnica e sugli strumenti del mojo, ho deciso di affrontare il problema dei pagamenti e di proporre una soluzione a tutti gli attori che dovrebbero risolvere questo malcostume.

    Per risolverlo alla fonte bisognerebbe semplicemente essere civili e pagare quanto spetta al freelance, bisognerebbe solo rispettare la legge. Tuttavia ho lavorato anche a soluzioni differenti di cui voglio parlare cercando di provocare un dibattito, sperando che qualcuno raccolga il pensiero.

    La soluzione? E’ Satispay (o simili)

    Non credo si possa ancora fare, ma penso che manchi mezzo centimetro al poterlo fare. Quindi parliamone. Il professionista del giornalismo, il libero professionista, ma anche l’outsourcer, spesso eseguono lavori di piccolo cabotaggio o di piccolo prezzo per molti clienti diversi. Specialmente se si parla di freelance nell’accezione più vera del termine, voglio dire se il suo autentico datore di lavoro è la notizia, la notizia buona, da vendere a chiunque. Spesso, quindi, l’attore piccolo del mercato si trova a emettere fatture di basso cabotaggio e a guardarle mentre si disperdono negli uffici amministrativi dell’azienda editoriale cui ha venduto il suo contenuto. Il destino potrebbe essere diverso grazie ad app come Satispay sulla quale puoi sapere tutto guardando qui.

    Dal sito dell’applicazione, creata e sviluppata in Italia, traggo solo questa frase per spiegare meglio il ragionamento: “Satispay è un sistema di pagamento indipendente dai circuiti tradizionali, che ti permette di scambiare denaro con gli amici e di pagare nei negozi convenzionati, fisici e online, tramite un’applicazione disponibile per iPhone, Android e Windows Phone”. Il Corriere parlava così del mondo del trasferimento di denaro via smartphone già nel 2015: leggi qui. Tutti i segreti di questa applicazione tutta nostrana li puoi leggere qui. Oppure puoi esaminare uno dei concorrenti della start up fintech italiana guardando Jiffy. Insomma una app collegata al tuo conto in banca può mandare o ricevere denaro all’istante. Ecco la soluzione.

    Sto parlando troppo presto

    Sono in anticipo rispetto ai tempi, almeno a quanto credo di aver capito. Il motivo per cui te lo dico è legato alla scelta di queste app di rivolgersi al mercato dei privati o dei commercianti e non a un mercato simile a quello che potrebbe essere il tuo, vale a dire quello dei professionisti che operano per le aziende. La piattaforma, il concetto, c’è ed è rodato, visto che si tratta di un’evoluzione del mitico Paypal. Dico di più, lo stesso Paypal potrebbe essere parte di un discorso che vuole arrivare a questo tipo di scenario: il professionista (o la piccola azienda di outsourcing) emette fattura, poi si reca nell’ufficio amministrativo dell’azienda cliente che ha un account Satispay (o simili) in un cellulare aziendale, collegato a un IBAN aziendale. Con questo tipo di “incontro” lo scambio fattura vs pagamento può essere fatto all’istante. Dico di più: il professionista (o la microagenzia), per un trattamento tipo questo, potrebbero fare il 15% di sconto senza rimetterci. All’azienda la transazione costerebbe molto meno di un qualsiasi bonifico (prezzo indicativo 2o cent contro 1,5 euro).

    Bisognerebbe parlarne tutti insieme

    Ora volo alto e rischio di essere preso per pirla, anche da te. Questo metodo di pagamento istantaneo della fattura potrebbe cambiare il mercato e far stare tutti meglio, ma lo so che è utopia. L’unica cosa che posso dire è che dovrebbero parlarne le istituzioni coinvolte, insieme: l’Ordine dei Giornalisti, la Fieg, gli attori di questo mercato tipo Satispay, le banche. D’altronde se il mondo di questo lavoro sta cambiando è dovere di chi scrive le regole farlo cambiare seguendo i tempi.

    Ok, adesso mi sveglio e torno alla realtà. Solo che al prossimo raduno di mojo dovrò spiegare in che guai si trovano, a farsi pagare, i freelance italiani. E non so come fare.

  • Mobile journalism: il kit pronto per l’uso (con filosofia)

    Mobile journalism: il kit pronto per l’uso (con filosofia)

    Il Mobile journalism ci deve stare addosso.

    Vedo crescere anche attorno a me l’interesse per il mobile journalism, allora comincio con questo post a entrare nello specifico. Vuoi sapere qual è il kit perfetto per il mobile journalist? Ecco alcune informazioni necessarie a orientarsi nel  mobile partendo dai “ferri del mestiere”.

    Mobile journalism: ecco il pezzo determinante, l'iphone
    Mobile journalism: ecco il pezzo determinante, l'iphone Mobile journalism: ecco il pezzo determinante, l’iphone

    Faccio una premessa: ognuno ha il suo kit, ognuno ha la sua maniera di essere mojo. Per “salvarmi” dalla partigianeria, per lasciare aperta ogni strada, passo l’incombenza di darti le dritte necessarie all’allestimento del miglior kit possibile per il mobile journalism al mio “filosofo” di riferimento. Sto parlando del giornalista australiano Ivo Burum, di cui ho già parlato in questo articolo qui e che rappresenta per me il massimo della sintesi accademica del mojo.

    E’ un trainer e un produttore multimediale di Brisbane che ha realizzato documentari con la sola forza delle device mobili, ma è anche colui che ha messo su carta nella maniera migliore l’intera filosofia di questo orientamento professionale che, a livello internazionale, sta godendo di crescente successo.

    Alcune cose su Ivo le puoi trovare qui, mentre il suo Kit 101 lo puoi vedere svelato nel video qui sotto.

    Il punto di partenza? Ognuno ha il suo

    Questo è un punto di partenza ed è piuttosto datato, ma quello che ti consiglio è crearti un modo di stare informato e capire, sviluppando anche un budget di investimento di partenza, quale sia il tuo vero obiettivo da mojo. Se vendi news, magari hai bisogno di ottimi microfoni e te ne freghi del treppiede, hai bisogno di un gimbal (qui nel video non c’è) ma potresti fare a meno delle lenti aggiuntive. Ogni mojo ha il suo kit vuol dire questo: non esiste un manuale delle Giovani Marmotte su come si debba allestire la perfetta borsa degli strumenti. Tutto dipende da chi sei, che lavoro fai, cosa vendi per campare da mojo freelance.

    Burum, infatti,  nei suoi scritti, parla di filosofia raccontando i segreti del mobile journalism. Certo, se lo può permettere, essendo un innovatore di livello mondiale, ma indica una strada che è chiarissima per arrivare al risultato cui vuoi arrivare tu: camparci. Già, perché in molti sparano stronzate sul mojo, ma in pochi ti dicono come camparci. Qualche volta mi stupisco di come colleghi mi vengano vicino a chiedermi cosa uso per interviste doppie, quale microfono mezzo fucile  ho comprato o come faccio editing dei miei pezzi. Beh: è tutto sul web. Segui questo blog e ti dirò tutto, senza freni e senza remore.

    La differenza sta nel pensiero

    La differenza è nel pensiero e Burum, in questo video, ti dà alcuni consigli che fanno capire quasi tutto. Se sei un mojo non c’entra il cellulare che hai in mano, c’entra come pensi il pezzo che devi fare per restare, proprio grazie al cellulare, quattro passi avanti agli altri che stanno accendendo le telecamere quando tu hai finito. Ecco le domande che fa Burum e, quindi, quelle che ti devi fare tu.

    Non ti basta? Ti aggiungo un altro elemento video di valutazione, mettendoti a disposizione una chiacchierata sull’argomento di Glen Mulcahy, specialista di livello mondiale della materia e fondatore di Mojocon. L’ex RTE parla di attitudine e ha ragione da vendere. Credevi di venire su questo post a fare la lista delle cose da comprare per diventare un mojo? Beh, sbagliato. Sei tu che devi dirti, prima di tutto, voglio essere un mojo e poi farlo con qualsiasi cosa. In Italia siamo a uno stato di disperazione tale, sull’argomento, che non ho più nemmeno le lacrime per piangere. Su argomenti come le tools, i modi di lavorare, le dirette facebook, eccetera, ci sono discreti interpreti e alcune buone voci, ma non ne ho ancora trovata una che ti dica “come camparci” in un panorama che vede i mojo come fumo negli occhi.

    Glen Mulcahy, the king of mojo.

    Progetti didattici e nuove frontiere.

    Ho ricevuto nei giorni scorsi i primi contatti da colleghi interessati all’argomento e le prime provocazioni sulla possibilità di fare corsi in Italia sul mojo. Ho subito risposto in modo affermativo, ma ti anticipo che ho anche iniziato a percorrere una via accademica per lo sviluppo di questa cultura. Il mojo dovrebbe andare dritto nelle scuole di giornalismo, per esempio per questa ragione che si può leggere in questo articolo di glen. Il 2021 è dietro l’angolo, volevo dirtelo dopo che hai letto questo pezzo. Ebbene, le risposte delle istituzioni giornalistiche sono state tutt’altro che lusinghiere (mi riferisco all’Ordine dei Giornalisti della Lombardia che non ha ancora risposto alle mie sollecitazioni datate settembre). Diverso l’atteggiamento avuto da un istituto universitario molto all’avanguardia. Per adesso non ti rivelo di cosa si tratta.

    Nel frattempo ho deciso di muovermi da solo e sviluppare  un progetto didattico che porterò all’attenzione degli attori che lo possano far fruttare. Voglio, però, coinvolgerti. Vorresti un corso avanzato, specifico, multimediale, sul mobile journalism, sui suoi tools sì, ma anche e soprattutto sui suoi linguaggi produttivi, sul brand personale, sulla creazione di un pubblico e sui suoi modi di essere venduto per creare ricchezza? Se la risposta è si, fatti sentire: contattami, scrivimi, chiedimi l’amicizia. Il mio primo passo è creare un gruppo sull’Italian way of mojo. Vediamo dove arriva questo viaggio.

  • Mojo, Facebook, format: problemi e (qualche) soluzione

    Mojo, Facebook, format: problemi e (qualche) soluzione

     

    Il Mojo? Inizia dal personal branding e da Facebook

    Facebook
    Il logo del popolare social network

    Sulle pagine di questo blog ho parlato di Mobile Journalism in questo articolo e di Personal Branding in quest’altro articolo. Non credo di dire una cosa così originale se lego in modo stretto e consequenziale le due cose, visto che il Mobile Journalist è una professionalità che trova la sua piena realizzazione nel mondo del web e del broadcast. Quindi anche su Facebook.

    Per questo motivo le mie letture personali, i miei studi, dopo una visione d’insieme del Mobile Journalism, si sono indirizzate verso la ricerca della corretta formattazione “social” della personalità di un Mojo. Il risultato? Mi sono dovuto immergere su Facebook per verificare con gli strumenti più adatti quale debba essere una corretta formattazione dei propri profili e delle proprie manifestazioni giornalistiche all’interno del più frequentato e del più potente tra i social network (ma lo dico subito, non ho tralasciato gli altri). Per essere un buon mojo, dunque, bisogna iniziare dal corretto personal branding e per avere un corretto personal branding è il caso di iniziare da Zuckerberg.

    Il live di Facebook? Prima di farlo bisogna capirlo… e vestirlo

    Su come si allestisca un buon profilo Facebook ci sono migliaia di articoli sul web e ottime pubblicazioni. La cosa si fa un po’ più particolare quando ci sia avvicina alla necessità di comprendere lo strumento del live che, per i giornalisti, è lo strumento più importante, più particolare.

    Sono alcuni mesi che guardo ogni tipo di diretta fatta nel mondo dell’editoria italiana e dalla visione ho tratto molte indicazioni valide, ma non ho ancora compreso (e questo è il problema) se vi sia il modo di allestire un corretto format giornalistico per poterle proporre anche dal mio account e, successivamente, dalle pagine Facebook o dai gruppi che in futuro progetterò sui miei argomenti che, come sai, sono le nuove tendenze del giornalismo (in special modo il Mojo) e la genitorialità maschile. Un articoletto del Neimanlab che potete vedere qui mi ha però incuriosito: si tratta di questo.

    Si tratta della notizia del lancio di alcuni corsi online (webinar) per i giornalisti per dare loro modi e strumenti per migliorare il modo di usare il social se si è nel mondo dei media. Bella mossa per togliere i giornalisti dall’attaccamento viscerale a Twitter. I cronisti stessi, tuttavia, prima di lasciare l’immediatezza e la velocità di twitter per catapultarsi dentro Facebook devono capire lo strumento e vestirselo addosso. Quali sono i tuoi argomenti di elezione? Come vuoi presentarti al potenziale pubblico? Cosa vuoi raccontare? Come lo vuoi raccontare?

    I consigli del “mostro” di Palo Alto

    A questo proposito i link cui rimanda l’articolo del Neimanlab sono molto interessanti e rimandano agli strumenti forniti dal “mostro” di Palo Alto. Te li raccomando come fossero delle bibbie. Si tratta del gruppo di Facebook “News, Media and Publishing on Facebook” che è un vero ricettacolo di informazioni e istruzioni ottime sui modi, i metodi, gli strumenti e quant’altro faccia rima con la pubblicazione di contenuti editoriali su Facebook. Ci sono talmente tante cose da leggere che ti consiglio di prenderti del tempo per farlo. Poi c’è anche la serie di corsi gratuiti che la piattaforma ha rilasciato martedì 25 ottobre e che sono orientati proprio agli operatori nel mercato dei media. Anche per quelli consiglio tempo, matita, blocco note e una gran voglia di imparare. Sono tutti fondamentali.

    Hanno tuttavia un problema: Facebook, come filosofia, non ti dà solo lo strumento per la pubblicazione più impattante e immersiva che si possa volere, ma va oltre. Andando oltre va nella direzione che vuole: dà, infatti, tutta una serie di consigli che servono a far aumentare il tempo di permanenza e di visione dei contenuti, di modo da “usare” a suo piacimento la qualità, la professionalità, il pubblico e gli argomenti per il proprio obiettivo e non per il suo.

    Il rimedio: pensare al format

    La risposta a un tale indirizzo non può che essere in due passi. Il primo è la conoscenza specifica di tutto quello che fa rima con la pubblicazione di contenuti editoriali via Facebook, soprattutto nell’area Live, sulla quale ti invito a guardare anche questo link. Il secondo è la creazione di un format del tuo modo di proporti e del tuo modo di andare live. Anche questo social, come twitter, è uno strumento determinante per creare un pubblico, una net personality e, di conseguenza, un bacino di potenziali clienti per i tuoi servizi di comunicazione, giornalistici o editoriali in genere. Se vai live vacci con dei crismi, dei criteri, dei modi.

    Vacci ciclicamente, anticipando il tuo live con un avviso sulla tua bacheca, mettendo al tuo live una didascalia accattivante e proponendo un modo di sviluppare le tue dirette che sia preciso, ripetibile e diretto a uno scopo preciso, possibilmente quello di creare una chiara utilità a chi ti segue.

    Non andare live tanto per andare, anche se penso sia bello mettere nel proprio palinsesto live anche qualche momento personale o qualche “QandA” con chi ti segue. Stabilisci un format tuo, percorribile, rinnovabile, sensato, giornalistico, personale. E vai. Un format si progetta nel modo più vecchio del mondo: penna e blocco, pensiero e azione. Sugli strumenti per fare una decente diretta di Facebook mi dilunghero nei prossimi interventi. Per ora ti resti l’imperativo: studia, progetta, pensa. E vai live solo se ha senso, un senso per la tua professione e il tuo personal branding. Non c’è, quindi, un modo corretto di andare live su Facebook, ma c’è un proprio modo di andare live su Faceook. Trovalo, ti conviene.

  • Mobile Journalism: lo stato delle cose in Italia/1

    Mobile Journalism: lo stato delle cose in Italia/1

    Mobile journalism Mobile journalism: Italia, stato d’arretratezza.

    Prima di parlare di stato del mobile journalism in Italia ho studiato e mi sono domandato in più occasione se fosse il caso. Sono un mojo, l’ho più volte dichiarato, sono uno studioso, sono un diffusore di questa cultura, ma la situazione del mobile journalism nel nostro paese è talmente avvilente da poter essere riassunta in una frase piuttosto semplice. Il mojo, in Italia, non esiste. Siamo, infatti, talmente indietro nello sviluppo della materia, delle modalità, delle conoscenze, nella diffusione della cultura del “mobile” che parlare di stato dell’arte è un po’ paradossale quando, in effetti, l’arte nemmanco c’è.

    La definizione? Solo in inglese

    Per trovare una definizione dozzinale, ma efficace, di mojo, una cosa che faccia capire, non è possibile farsi aiutare da qualsivoglia supporto di conoscenza scritto in italiano. Di conseguenza preferisco metterla così.

    Mobile journalism is an emerging form of new media storytelling where reporters use portable electronic devices with network connectivity to gather, edit and distribute news from his or her community.

    Partendo da un punto così basso (non sono riuscito, spippolando su Google, a trovare una definizione in Italiano della materia), l’unica cosa che consola è pensare che c’è ancora tutto da fare. Il resto, però, è da depressione multipla carpiata (lo scrivo anche se spero, in cuor mio, di venire brutalizzato da mail di gente che mi smentisce).

    Ma cosa è mai sto “mobile”

    In Italia, non essendoci base culturale accademica definita in merito a questa particolare corrente e “specializzazione” del giornalismo, facciamo fatica a individuare cosa sia il mobile journalism e come venga fatto. Importanti testate come questa parlano di reportage “mobile” indicando prodotti come questo che ha il pregio di essere giornalisticamente allestito, ma è palesemente rifinito al desk. Un prodotto giornalistico di un mojo è  un prodotto che si apre, si sviluppa, viene girato e montato, concluso e inviato sul campo, soltanto con device mobili e senza mai, ripeto, mai passare dal computer.

    Mojo, un androide del giornalismo

    Un mobile journalist è uno che, dal posto dove si trova, può aprire dirette, scattare foto, mandare testi, mandare audio montati e mandare video montati e rifiniti con grafica annessa. Senza passare da un hardware diverso dal suo telefonino o dal suo tablet. Attorno a queste figure e attorno alle principali device mobili sul mercato (siano esse iOS o Android) si è sviluppato un movimento internazionale importante. Movimento che, nei principali broadcaster europei e d’oltreoceano (ma anche in Australia, uno dei paesi più avanzati in tal senso) sta rivoluzionando i canoni dellop storytelling giornalistico e delle produzioni televisive.

    Eppure, là fuori… 

    Così, mentre in Italia cerchiamo di capire cosa sia e spacciamo per mobile journalism un’intervista fatta col telefonino, in giro per il mondo si sviluppano movimenti che definire titanici è poco. Sezioni speciali della BBC, i primi prodotti interamente girati con iphone della RTE, convegni annuali e meetup a Londra, documentari fatti dagli aborigeni a Brisbane, grandi specialisti e diffusori di questa nuova cultura come Ivo Burum, Glen Mulcahy e Mark Egan: basta alzare la testa per guardare oltre il confine e si trova tutto, ma soprattutto si trova un mondo (quello della televisione) in deciso movimento verso la trasformazione in mobile journalism di tutto quello che è broadcast adesso.

    Il presente, il futuro e il punto (5)G

    Ho letto, ieri sera, le riflessioni di Glen Mulcahy sul suo blog, il quale, un mese e spiccioli fa, discettava così del futuro del mobile journalism

    By 2020, when 5G goes mainstream Mojo will dominate news. The myriad of shareable content that can be made WITH these devices will be shared across a superfast connection TO these devices in an end-to-end ecosystem.

    One that will sit on top of (not displace) current “traditional” platforms. In time the mobile ecosystem will, I believe begin to erode traditional markets, this will happen mainly when advertisers can figure out a way to LEGALLY target personalised advertising to you via your smart device (its been technically possible for years and is fully exploited, in a limited, way by Facebook, Google etc).

    Il resto della riflessione, fatta nelle notti di lancio dell’Apple iPhone 7, un maledetto miracolo elettronico che ai mobile journalist ha tolto il sonno perché ha tolto il jack da 3,5 di mezzo, lo puoi leggere qui.  Quando gli editori televisivi avranno a disposizione il loro punto (5)G, vale a dire la prossima generazione di internet mobile, cominceranno a godere.

    Le caratteristiche del 5G

    Vediamo se riesco a farti capire cosa potrebbe portare il 5G nel mercato del mobile journalism. Con questo gingillo si stanno divertendo a Pisa ed è una cosetta che andrà veloce 1000 volte la migliore 4G di adesso. Con una connessione di quel genere, quindi, un video montato, fatto e finito, sarà nei sistemi di montaggio di qualsiasi tv del mondo tre minuti dopo la sua realizzazione, qualunque sia il suo peso.

    Un buon articolo che riassume lo stato dell’arte di questo obiettivo per la connessione  internet mobile può essere questo qui. Naturalmente il 2020 sarà anche la linea di partenza per i responsive media nelle case, per quelle macchine informative di qualsiasi genere che materializzeranno il modello di Negroponte in qualsiasi oggetto, ma questo è un altro discorso. Quando ascolterai responsive news aprendo il frigo, mentre la sveglia ti ha tirato su dal letto dicendoti i tuoi impegni, come ti devi vestire e il traffico che c’è sulle tue strade, ne riparliamo.

    Effettivamente il mojo trionferà, ma in Italia…

    Il 2020, quindi, sarà l’hanno del mobile journalism, ma in Italia non sapremo forse nemmeno allora cosa sia. Da una mia, pur approssimativa, ricerca, il mobile journalism viene menzionato nei programmi dei Master solo alla Lumsa, ma non si riesce, almeno online, a capire se e come il mojo viene insegnato in un vero e proprio corso. Ecco: questo è quello che dovrebbe essere il primo passo, insegnarlo a scuola. Certo viene da pensare che se il boss è Emilio Carelli, formidabile direttore tv di estrazione proprio broadcast, ci sarà un passaggio su queste nuove tecniche, ma non un’esigenza di soffermarsi.

    Già, perché in Italia, il problema principale, è rappresentato dalle categorie mentali dei giornalisti a tutti i livelli e anche dal corporativismo. Il mojo non attecchisce perché i video, diciamo, si fanno in un altro modo. Tendenza radicata, status quo definitivo: fine dei discorsi. Poi ci sono i cameramen, i montatori, i giornalisti, i titolisti, i registi. Ok, tutto bene. E se ci fossero soltanto i giornalisti? La cosa non va, a mio avviso, contro qualcuno, ma a beneficio di tutti. Invece prevale il senso della corporazione, di quello che “ma tu non ti vergogni ad andare in giro col telefonino?”. Sinceramente no.

    Se Mark Egan è un extraterrestre

    Lo specialista e innovatore ex BBC Mark Egan è stato intervistato dalla rai al Prix Italia 68 dove alcune sperimentazioni italiane di mojo sono state recentemente presentate. Ecco l’intervista raccolta dalla televisione di stato con il guru inglese, che traccia il futuro del mobile come un futuro che ovviamente si integrerà con la produzione televisiva. Questo, almeno dalle mie ricerche, appare essere un vero extraterrestre rispetto al contesto italiano, così come lo è il numero uno mondiale dei mojo: Ivo Burum. I suoi due testi principali sul Mojo (questo e questo) sono il cuscino su cui poggio la testa quando vado a dormire e aprono un mondo. Un mondo in cui tutti ballano guardando il futuro e l’Italia resta a seduta, in un angolo, alla festa.

    Intanto dalle guerre arriva solo Mojo

    In Italia sembra non ci sia vero interesse, quindi, per il mobile journalism che, di contro, viene messo dentro una marmellata con il Citizen journalism che è ben altro. Le televisioni, però, mangiano mojo tutti i giorni, per esempio dalle zone di guerra. Quello che fai con uno smartphone non lo puoi fare con una telecamera: mai. Quindi una riflessione, dalle stanze dei bottoni in giù, andrebbe fatta. Intanto ti lascio a guardare questo: la sezione mojo di Al Jaazera English rilascia prodotti del genere fatti interamente in mojo.

  • Visual Journalism, data journalism e il vuoto italiano

    Visual Journalism, data journalism e il vuoto italiano

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    VISUAL JOURNALISM, QUESTO SCONOSCIUTO. Io non sono un guru, sono solo uno che fa un lavoro che gli piace e sul quale non ha mai smesso di studiare. Con colpevole ritardo ho fatto entrare le parole visual journalism e data journalism nel mio vocabolario professionale: ho scoperto molte cose interessanti. E una che conoscevo: il sostanziale vuoto italiano sull’argomento, anche se vanno fatte le dovute precisazioni.

    COMINCIAMO CON LE PRESENTAZIONI. Il Visual Journalism ha apparentemente una definizione banale, ma molte forme evolute. Sarebbe, in sostanza, la tecnica, il metodo, con cui, tramite la combinazione di testi, video, immagini e grafiche bi o tridimensionali, si creano prodotti giornalistici. Se vai su questo link, caro il mio lettore-cronista-cercatore di stimoli, vedrai che alla BBC (mica a Telebalengo) hanno preso la definizione e ne hanno fatto una rivisitazione tutta personale. Ecco, in sostanza, è il fare giornalismo di inchiesta con gli strumenti più avanzati della tecnologia per offrire un prodotto, soprattutto al lettore del web, che offra una user experience di altissima qualità. Ragionando a mente fredda, visto che internet specialmente in Italia, offre uno spettacolo poverissimo di qualità salvo poche eccezioni, quando ho cominciato a frequentare questi siti e a farmi un’idea su questo fenomeno, ho pensato serenamente che questo sia un campo su cui investire sforzi di aggiornamento e di apprendimento per creare contenuti che abbiano un diverso respiro. Il Data Journalism (o giornalismo di precisione) è fratello maggiore del Visual, per rendere l’idea, perché è il modo scientifico con base statistica e sociologica, con cui di creano gli argomenti del prodotto giornalistico (oppure si trovano addirittura le notizie). Chi vuole fare un prodotto di Visual journalism, quindi, deve partire dal Data (sempre se non ho capito male). Anche qui un ragionamento mi assale: chi ha fatto e fa il giornalista con coscienza i dati, il metodo, la sociologia e la statistica li ha sempre usati. Però, forse, il ragionamento non è scontato…

    LE RADICI DEL VISUAL JOURNALISM. Magari questo post non sarà accademico o enciclopedico, ma il motivo è semplice: ho usato la capacità di ricerca del giornalista, non gli strumenti del ricercatore. Il motivo è semplice: volevo cominciare a parlarne, essendo la concezione della professione giornalistica che farò legata a questi due campi del giornalismo oltre che al mojo, come da anni accade. Le radici del Visual Journalism vanno indietro di qualche anno per quanto riguarda il suo sviluppo sul web. Inutile dire che i principali quotidiani internazionali hanno bande di VJ attrezzate per stupire il mondo. Per esempio cosi (cliccaci sopra):

    bolt

     

    Oppure così:

    latimes

     

    Certo qui siamo sulla Virtual Reality, ma anche questa è un ingrediente possibile del VJ. Non c’è che dire, impatto sicuro e reader experience grandissima.

    Le radici del VJ, si diceva. Nel 2012-2013 già se ne parlava come qualcosa di assodato, in chiave internet, ma la discussione sul Design delle News è più vecchia. E ha profeti italiani. Ecco un’altra cosa: abbiamo professionisti in grado di insegnare giornalismo a chiunque… e non sappiamo manco chi siano. Ecco, comunque, chi è uno dei guru del digital design delle news: Francesco Franchi. Il suo Designing News è un riferimento per chi visualizza le news e, naturalmente (!) è editato da tedeschi. Però c’è un ricercatore sull’argomento che si sta battendo come un leone per fare in modo che il VJ entri nella cultura del giornalismo italiano senza restare appannaggio dei designer. Si tratta di Matteo Moretti, ricercatore della Libera Università di Bolzano che ho conosciuto perché ho letto questo suo pezzo qui. Gli faccio un disperato appello: lavorerei per te anche gratis, sebbene non me lo possa permettere. Comunque Moretti è uno che ha vinto un premio con questo progetto (cliccaci sopra).

    bolzano

     

    Questo lavoro (che sconfessa un assunto dei bolzanini sull’invadenza della comunità cinese nella loro realtà sociale) è stato premiato ai Data Journalism Awards del 2015. Basta guardare qui per sapere di cosa si parla. Moretti è un ricecatore puro, ma è trasversale e ha tali conoscenze da far impallidire anche Einstein. Ecco un suo concetto molto interessante:

    Secondo questo approccio, serve quindi stabilire una dieta, ri-educare la nostra mente, nutrendola di contenuti magari meno appetitosi ma che siano davvero nutrienti, basati su informazioni bilanciate che portino alla ribalta la complessità del fenomeno trattato, anziché la sua “ghiotta” semplificazione. Proprio da queste basi parte la mia ricerca sul visual journalism, un lavoro a cavallo tra data journalism e visual storytelling, in cui cerco di mettere a frutto tutti gli strumenti di cui sono in possesso per informare un pubblico più ampio su tematiche complesse, in maniera visiva e coinvolgente, affinché i lettori siano stimolati nella lettura. Parlo di divulgazione, ma non solo.

    Quello a cui ambisco è stimolare il dubbio nei lettori, mostrare lo scollamento tra la realtà raccontata da alcuni mezzi di informazione e quella di tutti i giorni, ridimensionare cliché spesso alimentati dai media stessi, aprire un dibattito pubblico, riflettere su quanto una certa informazione odierna sia spesso approssimativa ed eccessivamente semplificata e su quanto vada soppesata, piuttosto che digerita indistintamente. Esattamente quello che Clay A. Johnson definisce come junk information.

    IL VUOTO ITALIANO. Per la mia esperienza e per la mia conoscenza, ma forse faccio difetto perché poi non sono intelligentissimo e onnisciente, su questo argomento, che sta rivoluzionando il web internazionale, siamo in presenza di un vuoto italiano. Lo conferma una ricerca banale, una banale googolata (mamma santa che parola pessima). Non c’è molto spazio per il visual journalism nelle newsroom italiane, anche se la recente mossa di Repubblica di prendersi Francesco Franchi nel suo staff fa sperare nel contrario. La ricerca online, infatti, mette al primo posto i ricercatori e gli esempi didascalici e gl articoli tecnici. Anche se c’è un’eccezione gradevolissima. Si tratta della Visual Agency di Milano che, seguendo l’ispirazione del talentuoso Tommaso Guadagni, ha creato il magazine Visualeyed che potete trovare qui. E’ un esperimento di newsroom interessantissimo e un sito che rimanda anche a splendidi pezzi di Visual Journalism che ci sono in giro per il mondo. Spero abbia grande fortuna.

    Ecco, quindi, il primo approccio che ho fatto al Visual Journalism e al Data Journalism sperando che ti sia risultato utile. Certamente nelle redazioni italiane dell’online non c’è il tempo, almeno a quanto sembra guardando le pubblicazioni da fuori, per pensare con calma a prodotti visual, ma questo è il futuro. Un futuro che faccia sopravvivere e, finalmente, pagare il buon giornalismo su internet. Che ne pensi?

     

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  • Personal branding, netbranding e giornalismo: facciamo chiarezza

    Personal branding, netbranding e giornalismo: facciamo chiarezza

    STO STUDIANDO, COME TE. In questo blog parlo di due cose: #sharingjournalism e #sharingdaddy. Sono i miei due progetti, le cose che studio tutti i giorni. In un post recente, questo, ho parlato di netbranding come di uno strumento necessario per i giornalisti. Studiando sul web mi sono accorto che netbranding e personal branding sono pane quotidiano nei media stranieri, mentre da noi non se ne parla. Siccome in questo blog voglio condividere il mio know how sul giornalismo e suoi suoi modi, penso sia il caso di fare chiarezza.

    PERSONALITA’ ONLINE. I giornalisti possono diventare personalità online, per la loro competenza nei campi specifici del loro lavoro o per la loro qualità. Nel processo di disintermediazione dei passaggi tra notizia e lettore, possono anche diventare un punto di riferimento diretto, per questi ultimi, con le notizie stesse, con i reportage e i movimenti della società che interessano chi legge, chi cerca sapere. Quest’ultimo è un passaggio che risulta molto utile al cronista stesso per potersi creare un profilo professionale specifico che risulti appealing per chi compra i suoi contenuti e un pubblico diretto che può rappresentare un seguito tangibile e misurabile che aumenta il “fascino” di quanto dal professionista stesso viene prodotto. Per dirla alla casalinga di Voghera: se un giornalista ha una ottima personalità online, ha molti follower, chi acquista il suo lavoro sarà più invogliato a farlo perché sa che ha già un pubblico “incorporato”. Per questo motivo il personal branding è un aspetto assolutamente necessario per la nuova professione giornalistica.

    ejoAGLI EDITORI ITALIANI PIACE POCO. Gli editori del nostro paese in particolare, ma anche al resto degli editori, piace poco. Questo straordinario articolo dell’European Journalistic Observatory lo conferma. Il personal branding giornalistico è un fenomeno in verticale ascesa, ma non viene “aiutato” da chi edita, anzi il contrario. Spesso i giornalisti incorrono in problematiche professionali a causa di semplici post di social media che, magari, si discostano anche di poco dall’opinione imperante del medium per cui lavorano. Tuttavia vi è un movimento, iniziato negli Usa, per cui i giornalisti con ottimo seguito social, si distaccano dalle redazioni di grandi giornali per creare progetti editoriali basati sulla loro personalità online. E’ il caso di Ezra Klein che lasciò il WashPost per lavorare a una sua iniziativa già nel 2014. E’ un business rischioso, come suggeriva Michaell Wolff in questo articolo nel 2014 esaminando con grande attenzione i numeri di questo fenomeno. Però rivela una tendenza che ha avuto casi di successo come quello di Arianna Huffington e che ha insegnato una cosa importante: il personal branding è necessario per i giornalisti. Agli editori italiani non piace perché sviluppano una sorta di possesso del giornalista che deve sottostare alle regole e ai dettami social della testata. Chi fra i giornalisti italiani ha un grande seguito internet ce l’ha per merito preponderante della testata stessa, non per la competenza diretta che ha o per la personalità seria e coerente che mostra. E’ una delle ramificazioni del rapporto distorto giornalisti-editori italiani che non tiene conto del fatto che, acquistare l’individualità professionale di un giornalista seguito, aumenterebbe il seguito della testata, se solo non si riducesse la stessa a una velina del giornale o della tv o del sito per cui lavora.

    IL PERCORSO GIUSTO. Insomma, se il personal branding del cronista fosse valorizzato per quello che è, il giornalista potrebbe portare la sua piccola o grande fetta di pubblico dentro il giornale che acquista i suoi contenuti o che lo assume. Se il giornalista fosse, invece, bloccato nella direzione contraria, cioè quella di diventare soltanto veicolo dei contenuti che produce per una testata, il risultato sarebbe la perdita di audience del giornalista stesso e il mancato guadagno di lettori o spettatori “importati” per la testata. Questo percorso, quello della costruzione di una personalità giornalistica individuale, è un passo in avanti importantissimo per la carriera del giornalista e va difeso. Per capire meglio la situazione sono esplicativi questo post e questa ricerca.

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