Autore: Francesco Facchini

  • Mobile Journalism: lo stato delle cose in Italia/1

    Mobile Journalism: lo stato delle cose in Italia/1

    Mobile journalism Mobile journalism: Italia, stato d’arretratezza.

    Prima di parlare di stato del mobile journalism in Italia ho studiato e mi sono domandato in più occasione se fosse il caso. Sono un mojo, l’ho più volte dichiarato, sono uno studioso, sono un diffusore di questa cultura, ma la situazione del mobile journalism nel nostro paese è talmente avvilente da poter essere riassunta in una frase piuttosto semplice. Il mojo, in Italia, non esiste. Siamo, infatti, talmente indietro nello sviluppo della materia, delle modalità, delle conoscenze, nella diffusione della cultura del “mobile” che parlare di stato dell’arte è un po’ paradossale quando, in effetti, l’arte nemmanco c’è.

    La definizione? Solo in inglese

    Per trovare una definizione dozzinale, ma efficace, di mojo, una cosa che faccia capire, non è possibile farsi aiutare da qualsivoglia supporto di conoscenza scritto in italiano. Di conseguenza preferisco metterla così.

    Mobile journalism is an emerging form of new media storytelling where reporters use portable electronic devices with network connectivity to gather, edit and distribute news from his or her community.

    Partendo da un punto così basso (non sono riuscito, spippolando su Google, a trovare una definizione in Italiano della materia), l’unica cosa che consola è pensare che c’è ancora tutto da fare. Il resto, però, è da depressione multipla carpiata (lo scrivo anche se spero, in cuor mio, di venire brutalizzato da mail di gente che mi smentisce).

    Ma cosa è mai sto “mobile”

    In Italia, non essendoci base culturale accademica definita in merito a questa particolare corrente e “specializzazione” del giornalismo, facciamo fatica a individuare cosa sia il mobile journalism e come venga fatto. Importanti testate come questa parlano di reportage “mobile” indicando prodotti come questo che ha il pregio di essere giornalisticamente allestito, ma è palesemente rifinito al desk. Un prodotto giornalistico di un mojo è  un prodotto che si apre, si sviluppa, viene girato e montato, concluso e inviato sul campo, soltanto con device mobili e senza mai, ripeto, mai passare dal computer.

    Mojo, un androide del giornalismo

    Un mobile journalist è uno che, dal posto dove si trova, può aprire dirette, scattare foto, mandare testi, mandare audio montati e mandare video montati e rifiniti con grafica annessa. Senza passare da un hardware diverso dal suo telefonino o dal suo tablet. Attorno a queste figure e attorno alle principali device mobili sul mercato (siano esse iOS o Android) si è sviluppato un movimento internazionale importante. Movimento che, nei principali broadcaster europei e d’oltreoceano (ma anche in Australia, uno dei paesi più avanzati in tal senso) sta rivoluzionando i canoni dellop storytelling giornalistico e delle produzioni televisive.

    Eppure, là fuori… 

    Così, mentre in Italia cerchiamo di capire cosa sia e spacciamo per mobile journalism un’intervista fatta col telefonino, in giro per il mondo si sviluppano movimenti che definire titanici è poco. Sezioni speciali della BBC, i primi prodotti interamente girati con iphone della RTE, convegni annuali e meetup a Londra, documentari fatti dagli aborigeni a Brisbane, grandi specialisti e diffusori di questa nuova cultura come Ivo Burum, Glen Mulcahy e Mark Egan: basta alzare la testa per guardare oltre il confine e si trova tutto, ma soprattutto si trova un mondo (quello della televisione) in deciso movimento verso la trasformazione in mobile journalism di tutto quello che è broadcast adesso.

    Il presente, il futuro e il punto (5)G

    Ho letto, ieri sera, le riflessioni di Glen Mulcahy sul suo blog, il quale, un mese e spiccioli fa, discettava così del futuro del mobile journalism

    By 2020, when 5G goes mainstream Mojo will dominate news. The myriad of shareable content that can be made WITH these devices will be shared across a superfast connection TO these devices in an end-to-end ecosystem.

    One that will sit on top of (not displace) current “traditional” platforms. In time the mobile ecosystem will, I believe begin to erode traditional markets, this will happen mainly when advertisers can figure out a way to LEGALLY target personalised advertising to you via your smart device (its been technically possible for years and is fully exploited, in a limited, way by Facebook, Google etc).

    Il resto della riflessione, fatta nelle notti di lancio dell’Apple iPhone 7, un maledetto miracolo elettronico che ai mobile journalist ha tolto il sonno perché ha tolto il jack da 3,5 di mezzo, lo puoi leggere qui.  Quando gli editori televisivi avranno a disposizione il loro punto (5)G, vale a dire la prossima generazione di internet mobile, cominceranno a godere.

    Le caratteristiche del 5G

    Vediamo se riesco a farti capire cosa potrebbe portare il 5G nel mercato del mobile journalism. Con questo gingillo si stanno divertendo a Pisa ed è una cosetta che andrà veloce 1000 volte la migliore 4G di adesso. Con una connessione di quel genere, quindi, un video montato, fatto e finito, sarà nei sistemi di montaggio di qualsiasi tv del mondo tre minuti dopo la sua realizzazione, qualunque sia il suo peso.

    Un buon articolo che riassume lo stato dell’arte di questo obiettivo per la connessione  internet mobile può essere questo qui. Naturalmente il 2020 sarà anche la linea di partenza per i responsive media nelle case, per quelle macchine informative di qualsiasi genere che materializzeranno il modello di Negroponte in qualsiasi oggetto, ma questo è un altro discorso. Quando ascolterai responsive news aprendo il frigo, mentre la sveglia ti ha tirato su dal letto dicendoti i tuoi impegni, come ti devi vestire e il traffico che c’è sulle tue strade, ne riparliamo.

    Effettivamente il mojo trionferà, ma in Italia…

    Il 2020, quindi, sarà l’hanno del mobile journalism, ma in Italia non sapremo forse nemmeno allora cosa sia. Da una mia, pur approssimativa, ricerca, il mobile journalism viene menzionato nei programmi dei Master solo alla Lumsa, ma non si riesce, almeno online, a capire se e come il mojo viene insegnato in un vero e proprio corso. Ecco: questo è quello che dovrebbe essere il primo passo, insegnarlo a scuola. Certo viene da pensare che se il boss è Emilio Carelli, formidabile direttore tv di estrazione proprio broadcast, ci sarà un passaggio su queste nuove tecniche, ma non un’esigenza di soffermarsi.

    Già, perché in Italia, il problema principale, è rappresentato dalle categorie mentali dei giornalisti a tutti i livelli e anche dal corporativismo. Il mojo non attecchisce perché i video, diciamo, si fanno in un altro modo. Tendenza radicata, status quo definitivo: fine dei discorsi. Poi ci sono i cameramen, i montatori, i giornalisti, i titolisti, i registi. Ok, tutto bene. E se ci fossero soltanto i giornalisti? La cosa non va, a mio avviso, contro qualcuno, ma a beneficio di tutti. Invece prevale il senso della corporazione, di quello che “ma tu non ti vergogni ad andare in giro col telefonino?”. Sinceramente no.

    Se Mark Egan è un extraterrestre

    Lo specialista e innovatore ex BBC Mark Egan è stato intervistato dalla rai al Prix Italia 68 dove alcune sperimentazioni italiane di mojo sono state recentemente presentate. Ecco l’intervista raccolta dalla televisione di stato con il guru inglese, che traccia il futuro del mobile come un futuro che ovviamente si integrerà con la produzione televisiva. Questo, almeno dalle mie ricerche, appare essere un vero extraterrestre rispetto al contesto italiano, così come lo è il numero uno mondiale dei mojo: Ivo Burum. I suoi due testi principali sul Mojo (questo e questo) sono il cuscino su cui poggio la testa quando vado a dormire e aprono un mondo. Un mondo in cui tutti ballano guardando il futuro e l’Italia resta a seduta, in un angolo, alla festa.

    Intanto dalle guerre arriva solo Mojo

    In Italia sembra non ci sia vero interesse, quindi, per il mobile journalism che, di contro, viene messo dentro una marmellata con il Citizen journalism che è ben altro. Le televisioni, però, mangiano mojo tutti i giorni, per esempio dalle zone di guerra. Quello che fai con uno smartphone non lo puoi fare con una telecamera: mai. Quindi una riflessione, dalle stanze dei bottoni in giù, andrebbe fatta. Intanto ti lascio a guardare questo: la sezione mojo di Al Jaazera English rilascia prodotti del genere fatti interamente in mojo.

  • Visual Journalism, data journalism e il vuoto italiano

    Visual Journalism, data journalism e il vuoto italiano

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    VISUAL JOURNALISM, QUESTO SCONOSCIUTO. Io non sono un guru, sono solo uno che fa un lavoro che gli piace e sul quale non ha mai smesso di studiare. Con colpevole ritardo ho fatto entrare le parole visual journalism e data journalism nel mio vocabolario professionale: ho scoperto molte cose interessanti. E una che conoscevo: il sostanziale vuoto italiano sull’argomento, anche se vanno fatte le dovute precisazioni.

    COMINCIAMO CON LE PRESENTAZIONI. Il Visual Journalism ha apparentemente una definizione banale, ma molte forme evolute. Sarebbe, in sostanza, la tecnica, il metodo, con cui, tramite la combinazione di testi, video, immagini e grafiche bi o tridimensionali, si creano prodotti giornalistici. Se vai su questo link, caro il mio lettore-cronista-cercatore di stimoli, vedrai che alla BBC (mica a Telebalengo) hanno preso la definizione e ne hanno fatto una rivisitazione tutta personale. Ecco, in sostanza, è il fare giornalismo di inchiesta con gli strumenti più avanzati della tecnologia per offrire un prodotto, soprattutto al lettore del web, che offra una user experience di altissima qualità. Ragionando a mente fredda, visto che internet specialmente in Italia, offre uno spettacolo poverissimo di qualità salvo poche eccezioni, quando ho cominciato a frequentare questi siti e a farmi un’idea su questo fenomeno, ho pensato serenamente che questo sia un campo su cui investire sforzi di aggiornamento e di apprendimento per creare contenuti che abbiano un diverso respiro. Il Data Journalism (o giornalismo di precisione) è fratello maggiore del Visual, per rendere l’idea, perché è il modo scientifico con base statistica e sociologica, con cui di creano gli argomenti del prodotto giornalistico (oppure si trovano addirittura le notizie). Chi vuole fare un prodotto di Visual journalism, quindi, deve partire dal Data (sempre se non ho capito male). Anche qui un ragionamento mi assale: chi ha fatto e fa il giornalista con coscienza i dati, il metodo, la sociologia e la statistica li ha sempre usati. Però, forse, il ragionamento non è scontato…

    LE RADICI DEL VISUAL JOURNALISM. Magari questo post non sarà accademico o enciclopedico, ma il motivo è semplice: ho usato la capacità di ricerca del giornalista, non gli strumenti del ricercatore. Il motivo è semplice: volevo cominciare a parlarne, essendo la concezione della professione giornalistica che farò legata a questi due campi del giornalismo oltre che al mojo, come da anni accade. Le radici del Visual Journalism vanno indietro di qualche anno per quanto riguarda il suo sviluppo sul web. Inutile dire che i principali quotidiani internazionali hanno bande di VJ attrezzate per stupire il mondo. Per esempio cosi (cliccaci sopra):

    bolt

     

    Oppure così:

    latimes

     

    Certo qui siamo sulla Virtual Reality, ma anche questa è un ingrediente possibile del VJ. Non c’è che dire, impatto sicuro e reader experience grandissima.

    Le radici del VJ, si diceva. Nel 2012-2013 già se ne parlava come qualcosa di assodato, in chiave internet, ma la discussione sul Design delle News è più vecchia. E ha profeti italiani. Ecco un’altra cosa: abbiamo professionisti in grado di insegnare giornalismo a chiunque… e non sappiamo manco chi siano. Ecco, comunque, chi è uno dei guru del digital design delle news: Francesco Franchi. Il suo Designing News è un riferimento per chi visualizza le news e, naturalmente (!) è editato da tedeschi. Però c’è un ricercatore sull’argomento che si sta battendo come un leone per fare in modo che il VJ entri nella cultura del giornalismo italiano senza restare appannaggio dei designer. Si tratta di Matteo Moretti, ricercatore della Libera Università di Bolzano che ho conosciuto perché ho letto questo suo pezzo qui. Gli faccio un disperato appello: lavorerei per te anche gratis, sebbene non me lo possa permettere. Comunque Moretti è uno che ha vinto un premio con questo progetto (cliccaci sopra).

    bolzano

     

    Questo lavoro (che sconfessa un assunto dei bolzanini sull’invadenza della comunità cinese nella loro realtà sociale) è stato premiato ai Data Journalism Awards del 2015. Basta guardare qui per sapere di cosa si parla. Moretti è un ricecatore puro, ma è trasversale e ha tali conoscenze da far impallidire anche Einstein. Ecco un suo concetto molto interessante:

    Secondo questo approccio, serve quindi stabilire una dieta, ri-educare la nostra mente, nutrendola di contenuti magari meno appetitosi ma che siano davvero nutrienti, basati su informazioni bilanciate che portino alla ribalta la complessità del fenomeno trattato, anziché la sua “ghiotta” semplificazione. Proprio da queste basi parte la mia ricerca sul visual journalism, un lavoro a cavallo tra data journalism e visual storytelling, in cui cerco di mettere a frutto tutti gli strumenti di cui sono in possesso per informare un pubblico più ampio su tematiche complesse, in maniera visiva e coinvolgente, affinché i lettori siano stimolati nella lettura. Parlo di divulgazione, ma non solo.

    Quello a cui ambisco è stimolare il dubbio nei lettori, mostrare lo scollamento tra la realtà raccontata da alcuni mezzi di informazione e quella di tutti i giorni, ridimensionare cliché spesso alimentati dai media stessi, aprire un dibattito pubblico, riflettere su quanto una certa informazione odierna sia spesso approssimativa ed eccessivamente semplificata e su quanto vada soppesata, piuttosto che digerita indistintamente. Esattamente quello che Clay A. Johnson definisce come junk information.

    IL VUOTO ITALIANO. Per la mia esperienza e per la mia conoscenza, ma forse faccio difetto perché poi non sono intelligentissimo e onnisciente, su questo argomento, che sta rivoluzionando il web internazionale, siamo in presenza di un vuoto italiano. Lo conferma una ricerca banale, una banale googolata (mamma santa che parola pessima). Non c’è molto spazio per il visual journalism nelle newsroom italiane, anche se la recente mossa di Repubblica di prendersi Francesco Franchi nel suo staff fa sperare nel contrario. La ricerca online, infatti, mette al primo posto i ricercatori e gli esempi didascalici e gl articoli tecnici. Anche se c’è un’eccezione gradevolissima. Si tratta della Visual Agency di Milano che, seguendo l’ispirazione del talentuoso Tommaso Guadagni, ha creato il magazine Visualeyed che potete trovare qui. E’ un esperimento di newsroom interessantissimo e un sito che rimanda anche a splendidi pezzi di Visual Journalism che ci sono in giro per il mondo. Spero abbia grande fortuna.

    Ecco, quindi, il primo approccio che ho fatto al Visual Journalism e al Data Journalism sperando che ti sia risultato utile. Certamente nelle redazioni italiane dell’online non c’è il tempo, almeno a quanto sembra guardando le pubblicazioni da fuori, per pensare con calma a prodotti visual, ma questo è il futuro. Un futuro che faccia sopravvivere e, finalmente, pagare il buon giornalismo su internet. Che ne pensi?

     

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  • Personal branding, netbranding e giornalismo: facciamo chiarezza

    Personal branding, netbranding e giornalismo: facciamo chiarezza

    STO STUDIANDO, COME TE. In questo blog parlo di due cose: #sharingjournalism e #sharingdaddy. Sono i miei due progetti, le cose che studio tutti i giorni. In un post recente, questo, ho parlato di netbranding come di uno strumento necessario per i giornalisti. Studiando sul web mi sono accorto che netbranding e personal branding sono pane quotidiano nei media stranieri, mentre da noi non se ne parla. Siccome in questo blog voglio condividere il mio know how sul giornalismo e suoi suoi modi, penso sia il caso di fare chiarezza.

    PERSONALITA’ ONLINE. I giornalisti possono diventare personalità online, per la loro competenza nei campi specifici del loro lavoro o per la loro qualità. Nel processo di disintermediazione dei passaggi tra notizia e lettore, possono anche diventare un punto di riferimento diretto, per questi ultimi, con le notizie stesse, con i reportage e i movimenti della società che interessano chi legge, chi cerca sapere. Quest’ultimo è un passaggio che risulta molto utile al cronista stesso per potersi creare un profilo professionale specifico che risulti appealing per chi compra i suoi contenuti e un pubblico diretto che può rappresentare un seguito tangibile e misurabile che aumenta il “fascino” di quanto dal professionista stesso viene prodotto. Per dirla alla casalinga di Voghera: se un giornalista ha una ottima personalità online, ha molti follower, chi acquista il suo lavoro sarà più invogliato a farlo perché sa che ha già un pubblico “incorporato”. Per questo motivo il personal branding è un aspetto assolutamente necessario per la nuova professione giornalistica.

    ejoAGLI EDITORI ITALIANI PIACE POCO. Gli editori del nostro paese in particolare, ma anche al resto degli editori, piace poco. Questo straordinario articolo dell’European Journalistic Observatory lo conferma. Il personal branding giornalistico è un fenomeno in verticale ascesa, ma non viene “aiutato” da chi edita, anzi il contrario. Spesso i giornalisti incorrono in problematiche professionali a causa di semplici post di social media che, magari, si discostano anche di poco dall’opinione imperante del medium per cui lavorano. Tuttavia vi è un movimento, iniziato negli Usa, per cui i giornalisti con ottimo seguito social, si distaccano dalle redazioni di grandi giornali per creare progetti editoriali basati sulla loro personalità online. E’ il caso di Ezra Klein che lasciò il WashPost per lavorare a una sua iniziativa già nel 2014. E’ un business rischioso, come suggeriva Michaell Wolff in questo articolo nel 2014 esaminando con grande attenzione i numeri di questo fenomeno. Però rivela una tendenza che ha avuto casi di successo come quello di Arianna Huffington e che ha insegnato una cosa importante: il personal branding è necessario per i giornalisti. Agli editori italiani non piace perché sviluppano una sorta di possesso del giornalista che deve sottostare alle regole e ai dettami social della testata. Chi fra i giornalisti italiani ha un grande seguito internet ce l’ha per merito preponderante della testata stessa, non per la competenza diretta che ha o per la personalità seria e coerente che mostra. E’ una delle ramificazioni del rapporto distorto giornalisti-editori italiani che non tiene conto del fatto che, acquistare l’individualità professionale di un giornalista seguito, aumenterebbe il seguito della testata, se solo non si riducesse la stessa a una velina del giornale o della tv o del sito per cui lavora.

    IL PERCORSO GIUSTO. Insomma, se il personal branding del cronista fosse valorizzato per quello che è, il giornalista potrebbe portare la sua piccola o grande fetta di pubblico dentro il giornale che acquista i suoi contenuti o che lo assume. Se il giornalista fosse, invece, bloccato nella direzione contraria, cioè quella di diventare soltanto veicolo dei contenuti che produce per una testata, il risultato sarebbe la perdita di audience del giornalista stesso e il mancato guadagno di lettori o spettatori “importati” per la testata. Questo percorso, quello della costruzione di una personalità giornalistica individuale, è un passo in avanti importantissimo per la carriera del giornalista e va difeso. Per capire meglio la situazione sono esplicativi questo post e questa ricerca.

  • Perché il netbranding può cambiare la vita dei giornalisti

    Perché il netbranding può cambiare la vita dei giornalisti

    NETBRANDING, QUESTO SCONOSCIUTO. Sto studiando da qualche tempo le tendenze delle carriere dei giornalisti, freelance e non: non passa giorno che non scopra cose fondamentali su quello che la categoria (compreso me) sta sbagliando. Un esempio? I giornalisti italiani, siano freelance o contrattualizzati, non conoscono il netbranding: un’assurdità, ti spiego il perché.

    LA DISINTERMEDIAZIONE. Parto da lontano. Parto dalla definizione della parola disintermediazione. E’ questa: “La disintermediazione è il fenomeno di riduzione dei flussi intermediati. Composto dal prefisso latino e greco “dis” che indica tradizionalmente ciò che viene separato, la parola indica ogni processo di rimozione della figura dell’, ossia colui che ha la funzione di intercedere tra due o più attori sociali per facilitare il raggiungimento di un accordo”. Ok, senti, è la definizione di Wikipedia e non è il massimo, ma da verifiche risulta abbastanza fedele. Perché parto da lì? Il motivo è semplice: la tecnologia ha permesso ai giornalisti di diventare produttori indipendenti di contenuti togliendo tra loro e il lettore i mediatori. Di chi sto parlando? Degli editori, spurii o puri, che comprano le notizie e le pubblicano. Questo grazie alle varie piattaforme sociali di pubblicazione diretta (che peraltro sono delle mostruose macchine da soldi esse stesse). Però mai come in questo momento, se un giornalista, ripeto, freelance o no, vuole costruirsi un pubblico con quello che produce, lo può fare in modo efficace.

    I SOCIAL MEDIA MANAGER: SI, MA POI? Nella giungla di chi lavora sui social ci sono molti tipi di figure, tutte importanti e valide. In questo post, tuttavia, voglio chiedermi quale sia, in quel mondo, il ruolo del giornalista. Analizzo il paradigma italiano medio per porre poi un quesito. I giornalisti presenti sui social sono principalmente di 3 tipi: in massima parte ci sono degli smanettoni senza piano editoriale definito, in misura minore ci sono delle figure di riferimento che acquisiscono notorietà e quindi autorevolezza (non qualitativa) grazie alle testate per cui lavorano. In misura ancora minore, ci sono giornalisti che hanno un pubblico selezionato perché lavorano coerentemente sul piano editoriale di quello che spacciano coi social.

    UN PUBBLICO REALE DI UNA PERSONA REALE. Io, per esempio, sono ancora un neofita del campo, ma sto lavorando per dare qualità a quello che pubblico sui miei profili sociali, di modo che, chi desidera seguirmi come stai facendo tu, sappia che sui miei canali può trovare determinati argomenti, ma non altri. Per questo motivo, valorizzando il ruolo di mediatore sociale del giornalista, penso che i cronisti debbano arrivare oltre il social media management e costruirsi un pubblico (piccolo o grande) che sappia esattamente chi sono, che carriera hanno, in cosa sono esperti e in cosa non lo sono. Quindi nel mondo social posso provare a buttare lì che ci siano i social media manager e, dopo, i giornalisti, i quali devono creare un’autorevolezza digitale sulla base di quello che sono veramente, indipendentemente dalle loro opinioni (spesso buttate a caso) sul terremoto di Amatrice o sul FertilityDay.

    net-brandingC’E’ BISOGNO DI NETBRANDING. Questo campo lo sto scoprendo ora e vorrei lo scoprissi anche tu. Riccardo Scandellari e Rudy Bandiera sono i principali esponenti della corrente che va oltre il social media management e comincia a parlare di vera e propria vita digitale professionale e umana. Questi due libri “Le 42 leggi universali del Digital Carisma” e “Afferma la tua identità con il NET BRANDING” sono due capisaldi di quella profilazione della carriera digitale che potrebbe e dovrebbe essere un must del giornalista, sia freelance o sotto contratto. Il motivo è semplice: entrambi danno indicazioni operative, di studio, di comportamento e bibliografiche sulle modalità con cui si costruisce una personalità digitale. Tutti i cronisti dovrebbero averla, tutti dovrebbero coltivarla. Vanno entrambi oltre il social media management per fondere tutto, tramite i vari social e i vari canali di espressione del giornalista, nella una creazione di una coerente, positiva e autorevole personalità digitale. Essi sorpassano i canoni religiosi del social media management indicando come in una vita digitale coerente ci possa essere spazio per il racconto personale che aumenta la friendship nei confronti di chi segue, aumentandone anche la fiducia. Spesso, invece, i social media manager professano la creazione di una maschera digitale che non è rispondente alla persona reale.digital-carisma-rudy-bandiera-copertina-675x1024 Ecco, per questa coerenza e per questa cura della persona, questo tipo di orientamento è quello che sposo personalmente. Ci sono anche altri libri scritti da loro sull’argomento, ma te li segnalerò solo quando avrò finito di leggerli.

    INFINE ECCO I QUATTRO CAVALIERI. Per stare al passo con Netbranding, almeno in Italia, ti suggerisco di seguirli su Twitter. Ecco i loro quattro  account, da seguire con accuratezza per trarne il maggiore vantaggio possibile per la tua carriera di giornalista freelance. Alla fine metto anche un account di una collega che conosco e che mi è amica, la quale ha fatto del vero netbranding diventando una figura di riferimento per il suo mondo, mai corrotto con altri pareri o altre escursioni improvvisate. Si tratta della giornalista Mariella Caruso, splendida collega siciliana trapiantata a Milano che parla di spettacoli, di cucina, di turismo, di Sicilia e di alcune altre cose meravigliose. Se la segui sai chi è, sai di cosa è esperta, sai cosa fa e di cosa si occupa, di cosa, quindi, può trattare con grande sapienza e coerenza professionale, maturata in decenni di carriera.