Autore: Francesco Facchini

  • Il giornalismo non sa parlare

    Il giornalismo non sa parlare

    Sono arcistufo di sentir parlare del giornalismo in un certo modo.

    E’ passato un po’ di tempo dall’ultima volta che sono venuto qui. Questo luogo, per me, è un posto dove respirare, stare calmo, fare il punto e guardare l’orizzonte. Io vivo ancora di giornalismo, un mestiere che ho ricodificato praticamente da solo. Lo vivo in modo nuovo e durante i giorni che passo mi esprimo, mi diverto e lo esercito con onestà e prospettiva. Ho clienti diversi, modi diversi, strumenti diversi, ma sempre il giornalista faccio: racconto storie rispettando i miei valori e il pubblico cui si chiede di rivolgermi.

    Tutto nasce da una sera a cena

    Ho partecipato a una cena con i colleghi di Nuova Informazione, straordinario gruppo di colleghi che fa sindacato in questo periodo così difficile. Parlare con loro mi arricchisce sempre, perché il nostro gruppo è un luogo nel quale si discutono e si affrontano i problemi del giornalismo. Senza sconti. Tutti quanti stiamo tentando di trovare nuove strade e nuove definizioni del giornalismo che possano dare a questa professione un futuro diverso dal pessimo presente. Nella discussione è emerso un fatto chiaro. Il giornalismo non sa parlare di se, non sa descriversi, non sa spiegarsi e raccontarsi.

    Il giornalismo e una malattia grave

    Il motivo per cui il giornalismo non riesce a ridefinirsi è semplice: perché non sa definirsi. Il giornalismo si racconta per gossip o per notizie negative. Il giornalismo è vittima del tentato suicidio che ogni giorno tenta chi lo descrive come un mondo disfatto, come un lavoro morto, come un orpello da eliminare il prima possibile. Lo fanno gli stessi giornalisti che alimentano, quando parlano del giornalismo, una narrativa fatta di parole negative, di possibilità annullate, di approccio alla professione approssimativo, di mercato del lavoro inesistente, di sfruttamento, di precariato, di abusivato. Quelli che ti ho appena elencato sono aspetti veri del mondo del giornalismo italiano in questo momento.

    Però non sono gli unici.

    Parlare del giornalismo come di un mondo devastato e raccontarlo banalizzando le categorie dei giornalisti in ‘quelli che hanno il culo al caldo’ (e presto verranno segati) e ‘quelli che fanno la fame’, è un autolesionistico tentativo di uccidere quel che resta del giornalismo. La conseguenza di questa retorica è far trasparire un disfacimento totale, tirar giù quei pochi mattoni rimasti del muro della credibilità dei giornalisti, senza ottenere effetto.

    Il giornalismo è vivo e lotta insieme a noi

    Da anni vado dicendo ai colleghi che il giornalismo è vivo. Le possibilità tecnologiche, l’intelligenza artificiale da abbracciare, le sfide della comprensione del presente, le possibilità di essere editori di se stessi, i nuovi mercati del giornalismo, fanno di questo mestiere un mestiere molto sfidante, ma anche molto affascinante. Il giornalismo è vivo e lotta insieme a noi. Però bisogna assolutamente smettere di descriverlo con quel linguaggio che lo rappresenta come un mondo di privilegiati nascosti nelle redazioni e un mondo di precari che in redazione sperano di entrarci per pararsi il culo (per un po’, visto che le redazioni muoiono come le mosche).

    Cambiare linguaggio e parlare con un linguaggio nuovo

    Pretendere di fare il giornalismo e di essere giornalisti come lo si era 30 anni fa è pura utopia. Svegliarsi dal coma, buttare le parole al negativo per creare un nuovo vocabolario del giornalismo è un imperativo che tutti dovrebbero cogliere. I precari non sono tutti i giornalisti: te lo dico. I precari sono coloro che svolgono un lavoro dipendente senza che questo gli venga riconosciuto.

    Fra i lavoratori autonomi non ci sono solo persone che sperano di essere assunte. Ci sono fior fior di liberi professionisti che mandano avanti attività e progetti innovativi con spirito imprenditoriale e interpretando a dovere la nuova professione. Ci sono molte figure professionali eccezionali, molte professionalità complesse e moderne. Ecco, se cominciamo a dare il valore e il linguaggio che merita alla libera professione giornalistica contribuiremo a ridefinirne i confini e a farla uscire da quell’immagine di mondo fatto di personaggi devastati con la manina fuori per chiedere la carità. Immagine che lo stesso linguaggio del giornalismo quando parla di giornalismo, ha costruito.

    La battaglia vera da fare per il giornalismo.

    Il libero professionista del giornalismo vale l’avvocato. Vale il notaio e il commercialista. E’ una libera professione determinante per la società. Se cominciamo cambiando il linguaggio e la narrativa quando parliamo di giornalismo, beh, questo comincerà a far percepire a tutti un cambiamento.

    Costringerà le nostre istituzioni professionali e le istituzioni politiche ad accorgersi che non è questione soltanto di equo compenso, ma è questione di difesa di una delle professioni più importanti della società dover stabilire delle regole. Su quanto vengono pagati i giornalisti, su come vengono pagati. Su come viene valutata la loro professione. Questa è la vera battaglia da fare per il giornalismo e il vero solco sul quale mettere le richieste alle istituzioni necessarie a ridefinire i doveri, ma anche i diritti del giornalista di oggi e di domani.

    Non abbiamo bisogno di elemosina. Abbiamo bisogno di ridefinire doveri, diritti e tutele del giornalista. Adesso.

  • Viaggiare: organizza lo stupore

    Viaggiare: organizza lo stupore

    Sono andato in vacanza, a Berlino.

    Era tantissimo tempo, più o meno 17 anni, che non partivo senza una responsabilità addosso. Voglio dire: ho viaggiato molto, anche in altri continenti, ma c’era sempre un motivo. Lavoro, famiglia, cose da sbrigare. Questa volta ho solo staccato, ho preso il cellulare di lavoro, l’ho chiuso, ho preso un aereo e sono andato in una città fantastica facendo, me lo ha detto il mio smartphone, 39 km a piedi in 4 giorni (e 50 coi mezzi di trasporto). Ho scoperto una cosa che ti voglio raccontare.

    La capacità di sorprenderti

    Ho scoperto che nel viaggio trovo la mia condizione naturale, una sorta di perfezione. In qualunque luogo. Viaggiare è un’azione complessa che ti mette a nudo, ti mette in discussione. Trarre il meglio da un viaggio è una possibilità che devi saper cogliere anche soltanto ascoltando quello che ti succede attorno.

    Viaggiare è una questione di istinto. Io sono istintivo quando lavoro, sono istintivo quando creo. Ho scoperto di essere istintivo quando viaggio. L’ho scoperto perché, per andare a Berlino non ho programmato o pensato alcunché. Sono solo andato. Se pratichi il viaggiare in questo modo, magari qualcosa perdi, ma guadagni la capacità di sorprenderti.

    Un piccolo episodio

    Io e mio figlio viaggiamo con la scusa del calcio. Abbiamo cominciato a Barcellona, ho continuato (questa volta solo) a Berlino. Volevo solo vedere lo stadio Olimpico. Lo stadio del nostro quarto mondiale, della grandeur hitleriana e di Jesse Owens. Ero seduto al pub, facevo colazione e bum: ho scoperto che era il giorno del derby calcistico di Berlino: Herta-Union. Ho tentato l’acquisto di biglietto online, ma nulla. Ci sono andato lo stesso. “Ci sarà una biglietteria”, ho pensato.

    Niente.

    Sono arrivato lì alle 14, la partita era alle 15.30. Ho girato alla ricerca di qualcuno che vendesse un biglietto. Niente. Solo loschi figuri. “Beh, mi è andata male…”. Stavo tornando verso la stazione dei treni quando ho visto un ragazzo, poteva essere mio figlio, con un biglietto in mano. “Lo vendi?”, gli ho detto. “Si – mi ha risposto – Un amico ha avuto un impegno di lavoro e non viene più. Io ho altri 3 amici che mi aspettano dentro e volevo vendere il suo biglietto”. Comprato subito. Ho provato lo stupore: un attimo prima stavo tornando in centro, mesto, un attimo dopo ero dentro questo spettacolo.

    I canti della Kurve dell’Herta.

    La sensazione di sorpresa che ho provato per tutto il pomeriggio è stata potentissima e si è trasformata in un pensiero che ti può essere utile.

    Organizza lo stupore

    Se lavori, se ti impegni nelle tue cose personali, nella famiglia, nel viaggiare, beh, organizza dei momenti in cui… non organizzare alcunché. Dei giorni in cui perderti in città o nei campi, dei viaggi nei quali non pensare ad alcun obiettivo, delle sere passate a fare le prime cose che ti saltano in testa, delle pause in cui giocare, dei lavori da cambiare nel modo in cui questi vengono fatti. Buttati nel vuoto del non conosciuto. Potrebbe andar male, ma se andasse bene per giorni avresti un’energia interiore data dall’aver imbroccato quella giornata completamente vergine da qualsiasi aspettativa. Ecco, l’unica cosa è questa: di tanto in tanto non organizzare. Pensa, stai organizzando lo stupore che proverai se una cosa ti riesce.

  • Il contenuto non è democratico

    Il contenuto non è democratico

    Se il contenuto è re (e lo ha già detto qualcuno), il re non è democratico.

    Sono in Friuli e fa un freddo cane. Son qui per affari di famiglia. Sono momenti nei quali penso a quello che devo fare, ma anche a quello che voglio scrivere. Mentre faccio commissioni o sposto scatoloni, mi iniziano a girare nella testa parole che si mettono a posto e danzano una danza sempre più regolare. Attorno a una cosa che ho saputo, attorno a una che ho visto o vissuto. Su una cosa che ho pensato. Si chiama produzione del contenuto. A me viene in modo istintivo e il mio piano di social e contenuti mensili finisce spesso a essere sbeffeggiato dalla mia realtà incipiente.

    Il contenuto chiede rispetto

    La riflessione che faccio oggi è una riflessione che parte da un’esperienza più volte vissuta. Io vivo di contenuto, vivo di parole e immagini, vivo di creatività “direzionata” se è vero che devo trasformare in contenuti i progetti, i pensieri e le parole dei miei clienti. Però per i contenuti ci vuole rispetto.

    Allora ho pensato a questo giro di parole attorno al contenuto. Il contenuto chiede rispetto perché il contenuto sei tu. Se produci i contenuti per raccontarti o raccontare i tuoi percorsi, quello che mostri al pubblico deve essere progettato in modo serio, deve dare valore agli altri, essere utile, di ispirazione o di riflessione, ma va preso per quello che è. Nessuno può permettersi di discuterne la forma, è pretestuoso attaccarsi a una virgola per discutere il senso di quello che dici, fai vedere o fai sentire.

    Ci possono stare i rilievi sulle imprecisioni, sui refusi, sugli errori strumentali. Non ci può stare la discussione sul senso che attacchi il contenuto per tirarlo giù. Se quello è il tuo quadro, chi lo osserva non può obiettare che hai messo le tue pennellate nel posto sbagliato. Può invece, dire, non mi piace. Può non essere d’accordo. Può recepire un messaggio diverso da quello che avevi intenzione di dare tu.

    Se il contenuto è per un tuo cliente

    Anche in questo caso, per il contenuto che crei tu e che deve interpretare i desiderata di una persona o un’azienda che te lo ha chiesto, il contenuto non si può prestare allo sbrandellamento dei non mi piace e dei “mai io me lo immaginavo…”.

    Il contenuto che crei per terzi, parte dai terzi. Se quello che ritorna tra le loro mani è divergente rispetto a ciò che pensavano non è tuo il fallo. E’ loro. Perché finita la parte di concetto per allestire un contenuto, beh, lì entri in campo tu. Tu con la tua poca o tanta cultura, tu col tuo vissuto, tu coi tuoi pensieri. Chi ti ha chiesto un contenuto si suppone (se non lo ha fatto, male) che abbia letto e visto prima i tuoi contenuti. E sia venuto da te perché te vuole.

    Allora deve fare a fidarsi. Sapere che il contenuto che produrrai è il meglio della tua creatività, ma che non può sedersi al volante della tua macchina creativa, perché lì ci sei e resti seduto tu. Può rilevare errori, imprecisioni, cose non convenienti al suo progetto, ma non può dire “non mi piace”. Il contenuto non è democratico perché il contenuto sei tu e quel tuo modo di trasformare il vissuto, l’ascolto, lo studio, l’osservazione, l’emozione, il sentimento, in contenuto è solo tuo.

  • Il metaverso e l’isteria dei media

    Il metaverso e l’isteria dei media

    Il 2023 sarà il mio primo anno nel metaverso.

    Il primo anno nel quale questa parola entrerà nella mia vita per restarci. Metaverso. Ne parlano in tanti, lo conoscono in pochi. In questi primi giorni mi sto immaginando il 2023. Lo sto riempiendo, capendo, studiando. Lo sto osservando con l’aiuto dei numeri del 2022. Lo sto pensando come un anno in cui sarà difficile replicare il successo del 2022 (a proposito, rileggiti qui l’onore grande che ho vissuto), ma anche un anno nel quale non mancare nella cosa che so fare meglio, guardare al futuro.

    Il metaverso come strumento utile

    La parola di quest’anno sarà, per me, metaverso. Ti dico subito una cosa: voglio che sia utile. Voglio capire come esserci, viverlo, usarlo e come renderlo importante per fare cose nuove che mi portino soddisfazione, conoscenza, ricchezza. E magari portino le stesse cose ad altri.

    Per viverlo lo devo conoscere, per conoscerlo lo devo studiare. Lo faccio ogni mattina. Sto leggendo il libro di Lorenzo Montagna “Metaverso. Noi e il web 3.0“. In quelle righe scopro con precisione tutto quello che i media non riescono a farmi capire. Si tratta di un’opera imprescindibile per chi voglia sapere davvero che cosa ci aspetta. Per ora (non l’ho finito) è un capolavoro. Un libro giusto per chi vuole rendere utile uno strumento, un mondo così nuovo.

    L’isterico parlare

    Quello che non capisco, però, è proprio il comportamento del giornalismo italiano riguardo a questa e a tante altre parole del futuro. Vedo un’isteria che fa passare questi poveri scrivani dall’esaltazione alla distruzione in pochissimo tempo. Ascolto, sento e guardo questo squinternato chiacchiericcio figlio dei rumor che arrivano dall’America. Un giorno il metaverso è il nuovo mondo, il giorno dopo è un inutile e costoso gingillo di Zuck.

    Basta.

    Finitela.

    Il metaverso sarà, intanto. Quindi ti dico che ancora non è. Il metaverso è un approdo finale di un’escalation tecnologica che avrà tanti passi intermedi. Se ci si dedicasse a spiegare la strada che ci porta verso il metaverso e non a passare dall’esaltazione alla delusione in un amen, magari chi vuole scoprire il futuro sarebbe meno disorientato.

    Per ora, mi limito a un consiglio. Leggi il libro di Lorenzo e tutto diventerà un po’ più chiaro.

  • Ordine dei Giornalisti e formazione: un sasso nello stagno

    Ordine dei Giornalisti e formazione: un sasso nello stagno

    L’Ordine dei giornalisti è un’istituzione in cui credo.

    La professione giornalistica in Italia non è mai stata così vituperata e sbrindellata da una crisi profondissima e da un attacco su più fronti che la sta rendendo inutile, ma non ho intenzione di fare l’ennesimo ragionamento su questo stato dell’arte. Ho intenzione di raccontarti una storia, una magia. Ho deciso di passare queste ultime ore del 2021 a scriverti di quello che sta succedendo, ormai da giorni, nella mia posta elettronica e di un sasso che ho gettato nello stagno (perché di acqua ferma si trattava) del mondo della formazione per i giornalisti. Lo faccio perché credo nell’Ordine dei Giornalisti e ho avuto la prova che questa mia fede è ben ripagata. E forse l’hai avuta anche tu.

    Due video-corsi che si chiamano futuro

    Ho vissuto una splendida esperienza nel mondo della formazione e dell’Ordine dei Giornalisti. Te la racconto. Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti mi ha chiesto di realizzare i contenuti per due corsi che si chiamano, più o meno, “Fondamenti e strumenti del giornalismo in mobilità” e “Concetti e strumenti per una nuova professionalità del giornalista”. Due materie mie, ma non ti voglio raccontare di me. Ti voglio dire che questi corsi sono nati dalla volontà dell’Ordine e dalle persone lungimiranti che lo compongono, a partire dal Presidente Carlo Bartoli e dal consigliere Andrea Ferro che mi ha chiesto di realizzarli e mi ha seguito in ogni passo, lasciandomi assoluta libertà didattica e di testi, anche nei passaggi che potevano essere dirompenti o pericolosi.

    Ho fatto “all-in”

    Nel lavoro per realizzarli ho fatto “all-in”, come al tavolo da poker quando senti che la mano è giusta. Tuttavia va notato che ho potuto fare quello che ho fatto solo grazie al lavoro e alla stima che i consiglieri mi hanno dato. Ho tirato il sasso nello stagno della formazione perché la volontà di cambiamento del Consiglio ha fatto in modo che io lo potessi fare. Poi ci sono altre donne e altri uomini che mi hanno aiutato a creare i presupposti di questo lavoro, a partire dai colleghi di Nuova Informazione che mi hanno insegnato cose determinanti per fare in modo che potessi fare quello che ho fatto

    Ho lavorato su quei corsi nel mese di marzo, sono andati in linea nel mese di giugno, sulla piattaforma Formazione Giornalisti. E lì è successo l’incredibile.

    Una marea di colleghi

    Lentamente, ma in modo costante, la mia mail è stata invasa da messaggi di ringraziamento, da storie bellissime di colleghi fantastici, da umanità preziose che hanno rialzato la testa guardando davanti. Da lì il sasso nello stagno gettato dallo stesso Ordine dei Giornalisti nell’acqua ferma della formazione professionale ha iniziato a fare cerchi concentrici che sono arrivati lontanissimo. Dalla Sicilia a Bologna, da Udine a Torino, da Bergamo a Lecce. Gli iscritti a quei due corsi? Una marea di colleghi. Non sto a dirti i numeri, che peraltro conosco. Te ne dico solo uno: quei due corsi sono stati fatti da, più o meno, il 20-25% dei giornalisti italiani attivi. Un’enormità della quale sono onorato. I messaggi verso di me? A star bassi, oltre 200. Te ne faccio leggere uno di un collega che non ho il bene di conoscere.

    Ho cercato di rispondere a tutti, spero di esserci riuscito, tra telefonate, mail whatsapp, messenger. Quello che desidero farti sapere, caro collega, cara collega, è che ho letto tutti i messaggi e li ho tenuti con me. Sono il senso di quello che ho fatto, di quello che abbiamo fatto.

    Ordine dei giornalisti, ora ascoltali

    Dopo quel messaggio che hai appena letto, qui sopra, ho iniziato a pensare una cosa: non posso fermarmi qui. Sono arrivato qui grazie a Carlo Bartoli, Andrea Ferro, a tutti i consiglieri, al Presidente dell’Ordine toscano Marchini che mi fa fare corsi mensilmente (a proposito, sto preparando cose nuove), al consigliere regionale toscano Andrea Giannattasio, alla preziosa Sara Cenni, ai colleghi tutor dei miei corsi e a tutti quelli che mi hanno seguito. Se una nuova formazione c’è è per merito di tutti loro, io sono solo uno strumento.

    L’effetto boomerang

    Tuttavia, caro Ordine dei giornalisti, ora ti devi impegnare ad ascoltare le migliaia di iscritti a quei corsi e i messaggi ricevuti dal sottoscritto. Creerò un dossier in merito, lo porteremo in giro, lo trasformeremo in un sistema. Insomma, io farò il mio, ma tu, caro Odg, devi continuare a fare quello che hai fatto. Devi continuare a dire e a dirci che un’altra professione è possibile e che un’altra formazione è possibile. Altrimenti avrai un terribile effetto boomerang. Quale? Beh, è presto detto. Tutti i messaggi, ma proprio tutti, hanno avuto questo tenore: “Ah, la formazione dell’Ordine era noiosa, inutile e pedante, ma poi sono arrivati questi corsi…”. Già, poi sono arrivate tutte le persone che hanno voluto cambiare la formazione dell’Ordine. E io con loro. Se non continui il cambiamento avrai migliaia di delusi in cambio.

    Allora chiudo questo 2022 con la constatazione di aver fatto la cosa più bella della mia carriera, quella che da un senso a tutto. Ma anche con l’idea che mai come in queste ore, il bello deve ancora venire, perché tante persone hanno voluto che fosse così.

    Non io, tante persone. Auguri a tutti, grazie a tutti e, soprattutto, grazie a loro.

    In fondo, ma non per minore importanza, grazie alla splendida Maria Letizia Mele senza la quale questi corsi non sarebbero mai nati.

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    Sindacato giornalisti, ne abbiamo tutti bisogno

  • 2023: dalla gestione del tempo alla qualità del tempo

    2023: dalla gestione del tempo alla qualità del tempo

    Guardo il 2023 e ancora non lo capisco.

    Sembra un anno irrequieto. Un anno che promette temporali e sole, in rapida successione. Il 2022 mi ha regalato una crescita potente. Il 2023 deve essere diverso. Deve rappresentare il tempo nel quale il mio lavoro e la mia vita passano dalla velocità alla qualità, dalla quantità al rendimento.

    2023, l’anno del ragionamento

    Ho iniziato le analisi di bilancio, la visione del fatturato e delle sue aree, la previsione del 2023 e quello che vedo è bello, ma non è bellissimo. Questi giorni sono i giorni più stanchi dell’anno perché sento il peso (come lo senti tu) della fatica fatta durante i 12 mesi e, guardando il futuro, non lo vedo ancora in modo chiaro. La produzione, la formazione, la consulenza, i contenuti, il coaching operativo per rilanciare carriere e progetti. Guardo i campi nei quali ho lavorato e vedo quelli che sono maturi e quelli che possono ancora crescere. Quelli che sono calati rispetto all’anno prima e quelli che sono aumentati, in quanto a fatturato.

    Ho spinto a più non posso perché volevo realizzare un dato di crescita che avevo in mente e ce l’ho fatta. Tuttavia ho pagato un prezzo notevole in termini di fatica, specialmente per causa di un paio di scelte di relazioni e collaborazioni completamente sbagliate. Sono state un peso enorme da sopportare. Di conseguenza ho iniziato a ragionare sul 2023 e ho visto che questo dovrà essere l’hanno in cui il ragionamento prevale. Su tutto.

    La tua scelta più importante

    Quando sei stato nella merda, come me, ti trascini sempre dietro una sottile inquietudine. Non riesci a essere padrone dei tuoi no. O meglio: cominci a esserlo, ma non del tutto. Se riesci, dopo la salita, a cominciare la discesa verso una condizione di serenità economica, tuttavia, devi fare la tua scelta più importante. Quale? Quella con la quale sostituisci i progetti che ti fanno guadagnare con quelli che ti fanno guadagnare stando bene. Ecco cosa farò nel 2023: sceglierò solo ed esclusivamente iniziative con clienti che mi fanno stare bene. Lo devo a me, lo devo al mio futuro.

    Anche tu dovresti. Ti assicuro che il trade-off tra maggiori guadagni e migliori guadagni vale sempre la pena.

    Il 2023 e il Metaverso

    Il 2023, per me sarà l’anno del Metaverso (con due o tre obiettivi). Voglio scoprire questo mondo e vedo, libro dopo libro, giorno dopo giorno, che non è facile. Non è facile per la confusione che regna e per la tensione che regna. Per ora sembra ancora un territorio nel quale tutti vogliono spacciare per Metaverso quello che Metaverso non è o speculare per tirarci fuori il maggior numero di milioni nel minor tempo possibile. Il Metaverso, però, è e resterà. Per cambiarci. Nel 2023, poi, voglio usarlo, questo Metaverso. Usarlo e trarne vantaggio per la mia professione. Capire come fare contenuti per questo ambiente e che competenze devo maturare. E maturarle. La terza cosa è che spero di guadagnare dal Metaverso. Ho idee precise sul come, ma qui non mi sbilancio. Fanno parte del mio progetto di evoluzione del business nel 2023, diciamo che, se mi permetti, non ti racconto proprio tutto. Leggi qui se vuoi sapere cosa sto facendo.

    Poi succederanno altre cose e mi auguro e ti auguro di essere pronto ad accoglierle. E a farle diventare belle, anche se belle non sembrano.