Categoria: Freelance

Essere freelance oggi. Interpretare il lavoro attraverso le possibilità che la tecnologia che ci circonda può offrire per sviluppare la libera professione.

  • Editore della tua vita e della tua carriera

    Editore della tua vita e della tua carriera

    Editore: una parola strana. Cambiata nel tempo.

    Questo lungo periodo di emergenza ci sta rendendo coscienti della necessità di avere un’immagine digitale, ma la stretta della crisi economica sta già minando questo pensiero dalle fondamenta. Il percorso più giusto è quello di diventare editore del tuo progetto professionale e del tuo business.

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  • Resilienza, la tua dote più importante

    Resilienza, la tua dote più importante

    Resilienza è la parola che amo di più nel vocabolario italiano.

    Il Treccani, alla voce resilienza, dice “… in psicologia, si tratta della capacità di reagire a traumi, difficoltà, tragedie…”. Poco lontano da questa definizione c’è quella che riguarda la tecnologia dei materiali.

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  • Caro giornalista, hai bisogno di un business model

    Caro giornalista, hai bisogno di un business model

    I miei contatti con il mondo accademico e con il mondo dell’Ordine dei Giornalisti si sono diradati.

    Non sto qui a spiegarne le ragioni, anche perché non desidero proprio fare polemica. Tuttavia ti dico che ho visto di tutto. Ho visto soprattutto che ai giornalisti manca anche la più minima cognizione di quello che vuol dire l’espressione business model. Riflettendo proprio sui business model mi sono ricordato che ne avevo parlato molto tempo fa. Puoi vedere il mio articolo qui. Il presente, invece, mi porta a pensare che stiano aumentando le possibilità di crearsi in modo autonomo una carriera, ma non ci sono, sul mercato del lavoro giornalistico attori in grado di cogliere le occasioni.

    I giornali sono morti che camminano.

    Ho visto un’infografica di Prima Comunicazione che ha ben visualizzato il dramma nel quale versano i giornali italiani, in costante emorragia di copie. Questo è lo stato dell’arte e in fondo all’abisso ci sono i giornalisti, obbligati a diventare dei paria intoccabili pagati 5 euro a pezzo (se va bene) per fare i loro pezzi. Questa condizione li ha completamente bloccati nell’operazione di ridefinizione della carriera, degli strumenti, dei committenti e delle piattaforme dove poter fare il lavoro che amano. Come se non bastasse la tecnologia li ha completamente travolti lasciandoli prigionieri del romantico passato della loro processione. Buona ultima è arrivata l’accademia, la quale di business model manco si sogna di parlare. La tv, poi, arranca battendo la coda come un capitone in una pescheria, ricicciando le produzioni broadcast super costose dentro delle app che sono minestroni di contenuti.

    Il business model, però, è necessario.

    Ora le opportunità si stanno moltiplicando. Fioriscono le piattaforme di pubblicazione, con particolare riferimento all’audio e al podcasting. Diminuiscono i costi per poter fare in autonomia produzioni complicatissime (dirette multicamera, registrazioni multicamera, video in 4K), mutano i posti dove c’è esigenza di un giornalista (aziende, enti, istituzioni, personaggi pubblici e potrei stare qui a dirne ancora di più), cambiano le tipologie di prodotti, si creano le community gestite direttamente da giornalisti, ma anche i progetti di interazione (i vecchi eventi) nei quali un giornalista può essere serenamente quel tipo di racconto e di storytelling che crea un interesse per il quale il pubblico vuole pagare. Per sapere, per sentirsi parte di una community, per incidere. Per contare ancora qualcosa. Per sviluppare tutto questo il giornalista che si propone sul mercato ha bisogno di un business model. Analisi del mercato, analisi dei costi, portafogli di prodotti, format di prova, previsioni dei ricavi. Il business model, insomma è necessario…

    Ma perché?

    Il business model è come la strada del proprio percorso personale che non ti fa deflettere dall’obiettivo e non ti fa cedere a condizionamenti che arrivano dal passato. Se, banalmente, non lo usi, quel clientuccio che ti chiede un favore non ti pagherà quello che meriti e quello che può sostenere i tuoi costi e la tua vita. “Ma sì, dai, stai due minuti a scrivere questo testo”: questa è la classica frase trappola che se hai un business model davanti non riuscirai ad accettare. Perché davanti hai i numeri e quelli ti dicono chiaramente che, se accetti la 50 euro di straforo, lavori gratis. Ecco perché il business model serve… eccome se serve. Ti lascio con una domanda: non è che il fatto che non venga insegnato, percepito, ritenuto importante, è frutto di un piano preciso? Aspetto commenti….

  • Carriera: gli elementi importanti per cambiare

    Carriera: gli elementi importanti per cambiare

    Mi sta succedendo una cosa strana quanto meravigliosa: molti colleghi mi contattano e desiderano collaborare con me per cambiare la loro carriera.

    Una sensazione molto particolare e una cosa davvero soddisfacente a livello personale, oltre che professionale. Mi sono ritrovato in questo ambito senza accorgermene fino in fondo, come risultato dell’evoluzione che ho progettato e perseguito nello studio e nella divulgazione della mobile content creation. La cultura del lavoro creativo con le device mobili, infatti, è solo uno strumento in più, nuovo e moderno, per il professionista dell’industria dei media, della comunicazione e della creatività.

    Se non è associato, tuttavia, a una serie di operazioni legate allo sviluppo e alla generazione di occasioni di miglioramento professionale resta lettera morta. Per questo ho creato delle occasioni pubbliche, dal mio speech sul mobile journalism e il business fatto a Mojo Italia 2018, per insegnare e divulgare anche la parte che riguarda l’uso lavorativo della mobile content creation. La cosa ha avuto effetto, nel giro di pochi mesi.

    Le cose di cui hai bisogno.

    Certo, non riesco a immaginarmi come un professional life coach e non pretendo di esserlo. Però conosco le cose di cui hai bisogno per poter cambiare la tua carriera. La mobile content creation è una di quelle. Dopo quel workshop romano, piano, piano, sono arrivate a me alcune decine di persone che si sono giovate dei miei consigli e della mia consulenza non solo per imparare il mobile journalism (o la mobile creation), ma anche per trasformare il mojo in occasioni di carriera.

    D’altronde, molto umilmente, posso dire che la mia carriera è esempio toccabile di come la mia cultura sia uno strumento che apre molte possibilità e il mio modo di renderla fruttuosa sia stato messo in campo con organizzazione del lavoro, capacità autoimprenditoriali, tecniche di marketing, elementi di personal branding, riprogettazione dei prodotti, individuazione di nuovi mercati e organizzazione manageriale di budget e costi. Tutto quello che ho messo vicino per iniziare una didattica con cui iniziare ad aiutare i colleghi sono cose che ho provato io. Sulla mia pelle.

    Cambiare senza invadere.

    Già dopo quello speech a Roma, tre persone si erano rivolte a me, ringraziandomi, con questa frase: “Lei ci ha fatto da coach”. Sinceramente non avevo capito bene cosa volesse dire questa frase, ma ora ho compreso. Sono arrivate una, tre, cinque, dieci, venti persone che mi hanno chiesto della carriera o hanno cercato consulenza per migliorarla. Io mi sono inserito nei loro progetti senza invaderli, senza cambiarli. Ho suggerito le armi, le app, i libri per apprendere, gli schemi per progettare, realizzare, far crescere la loro nuova carriera. Ho preso quello che avevano dentro e l’ho tirato fuori e messo davanti ai loro occhi.

    La Teoria dei Giochi.

    Sono stato pagato per questo, ma ho anche giocato sulla Teoria dei Giochi di John Nash che prevede di essere sempre fruttuoso per il contesto di gruppo in cui ti trovi, come via più duratura per raggiungere risultati economici per te. Insomma, ho suonato la mia musica, senza stonare nei momenti di difficoltà della carriera e senza esaltarmi per i momenti brutti. La carriera è come la musica: non devi mai smettere di suonarla, al tuo ritmo e con il tuo talento, ma ben sapendo che nessuno deve farti cambiare lo spartito almeno che non sia tu a sceglierlo, perché magari ti accorgi che hai sbagliato canzone.

    Foto di TeroVesalainen da Pixabay

  • Farsi pagare una fattura: e se il segreto fosse una piattaforma?

    Farsi pagare una fattura: e se il segreto fosse una piattaforma?

    Farsi pagare una fattura: e se la dritta fosse un sito?

    Quando scrivo pezzi sulla professione parlando di pagamenti delle fatture mi viene la malinconia. Siamo in una tale situazione di disarmo che cercare di essere “positivi” di fronte a un argomento del genere è una cosa che mi mette una tristezza pazzesca. Farsi pagare una fattura: è una vera tragedia. Quando abbiamo fatto il corso “Voglio (devo) fare il freelance” sono andato a scassare i cosidetti a tutti i commercialisti o i legali che mi trovavo a tiro, dicendo e ripetendo come un matto la stessa nenia: “Come si fa a farsi pagare una fattura?”. La configurazione stessa del rapporto tra un freelance e una testata giornalistica fa nascere il rapporto di lavoro in modo sbilenco, ma come possiamo raddrizzarlo in modo che farsi pagare una fattura non diventi una chimera? Forse con una piattaforma.

    E’ un discorso utopistico, ma se non lo fa qualcuno per primo…

    Certo non dovrei farlo io questo discorso e nemmeno tu. Dovrebbero intavolarlo (e seriamente) le componenti del mercato di lavoro giornalistico, al fine di mettersi al servizio della causa e trovare una soluzione. Io addirittura avevo mesi fa proposto questa soluzione qui, ma è caduta nel silenzio. Allora rilancio la cosa e suggerisco una seconda via per far diventare la frase “farsi pagare una fattura” una frase reale (e non da fiction).

    Le componenti come Ordine dei Giornalisti ed editori, dovrebbero codificare insieme formule di pagamento incontestabili e sopportabili per entrambi e dovrebbero farlo, è solo una mia idea, approfittando delle nuove piattaforme di acquisizione lavori che stanno prendendo piede all’estero. Sto parlando di servizi come Paydesk, una piattaforma inglese dove ci si può iscrivere ed essere “affittati” e pagati con certezza da signori clienti. Chiacchierando con Henry Peirse, londinese con un passato giornalistico, divenuto imprenditore proprio per dare risposta a questa esigenza dei freelance (lavorare e farsi pagare, appunto), ho potuto sapere quali servizi offra la sua piattaforma e mi sono messo a sognare.

    Il profilo è gratuito.

    Per il giornalista il profilo è gratis e fra i servizi c’è perfino l’assicurazione che Paydesk garantisce al freelance nell’esecuzione del lavoro. Dati e lavori passati a parte, è interessante la bacheca sul quale si possono mettere i pitch delle storie che si intende realizzare per vedere se qualcuno le compra o ti contatta, come fosse una vera vetrina della gioielleria. Mi ha entusiasmato la coerenza, la pulizia e l’efficacia dei servizi offerti, ma anche il pensiero che una piattforma come questa possa cambiare il gioco.

    Se l’Ordine la rendesse obbligatoria (ma sto ancora sognando)

    Se l’Ordine dei giornalisti la rendesse obbligatoria, se questa piattaforma fosse un tramite tra il freelance che sta in mezzo a una strada (in tutti i sensi) e il caporedattore che gli comanda un pezzo (quando va bene, perché magari è uno stagista), beh, il rapporto verrebbe reso più rigido e meno lasco nella comanda del lavoro e nell’esecuzione stessa. Finirebbero i “manda, manda, che poi vediamo!” e le situazioni in cui il giornalista è obbligato a fare il lavoro e a mandarlo, mettendo a rischio la sua vendibilità, magari, ad altri.

    Con una piattaforma, la contrattazione, il prezzo e il pagamento dovrebbero essere codificate da canali rigidi. Non si vuole stare al gioco? Bene, non si prende il materiale e la finiamo con tutte quelle storie che i giornali inghiottono senza pubblicarlo. Se l’Ordine trovasse un modo di rendere una piattaforma come questa un tramite fisso nel rapporto tra collaboratore giornalistico ed editore, tutte le fatture verrebbero pagate.

    Ora mi sveglio.

    Paydesk promette bene, ma è chiaro che anche la legislazione dovrebbe dare una mano per codificare quei pagamenti tramite piattaforma. I pagamenti, infatti, sono tutti da verificare, per il libero professionista, sotto il profilo fiscale. “La nostra idea è quella di rispondere all’esigenza che il lavoro vada pagato e bene – mi ha raccontato Peirse  in una cordiale chiacchierata di qualche tempo fa -. La nostra piattaforma potrebbe essere perfino un modo per fare pressione e alzare i prezzi: se tutti partecipassero, infatti, costringendo i publisher a passare dalla piattaforma, nessuno scapperebbe facendo il “franco tiratore” per prendere il lavoro… a meno. Perché? Perché verrebbe isolato”.

    Si, però in Italia c’è il furbo…

    Il problema, infatti, è quello. Se ci fosse uno strumento per parificare e stabilizzare i rapporti, sono infatti convinto che in Italia verrebbero subito fuori i furbi. Parlo di quelli che stanno fuori dal gioco perché sicuri di avere in tasca una soluzione migliore. Quella individuale. Qui si potrebbe aprire un’infinita discussione, ma intanto spero di avere puntato lo spot su un mondo interessante, come quello delle piattaforme di “affitto” dei freelance giornalistici. “Se fossi in voi – ha concluso Peirse chiacchierando l’altro giorno – farei parte di una, dieci, cento piattaforme come questa. Le occasioni arriverebbero e la tranquillità di lavorare e venire pagati per questo aumenterebbe la serenità della vostra vita, aumentando la qualità del vostro lavoro”.