Categoria: Giornalismo

Studio da anni il mobile journalism e sono uno dei punti di riferimento della materia in ambito italiano e internazionale. In questa categoria del mio sito ci sono raccolti tutti gli spunti arrivati dalle mie esperienze, dai miei studi e dalla trasformazione della mia figura professionale. Ormai il mobile journalism è il giornalismo di oggi.

  • Giornalismo digitale: le redazioni sono pericolosamente indietro

    Giornalismo digitale: le redazioni sono pericolosamente indietro

    Giornalismo digitale: una fotografia abbastanza impietosa.

    Per fortuna l’Italia non è la “pecora nera” del ritardo della digitalizzazione delle newsroom di tutto il mondo, ma in ogni caso non c’è da stare allegri. A fare “lo stato dell’arte” del giornalismo digitale mondiale ci ha pensato in questo periodo l’International Center for Journalist, un’istituzione americana che dal 1984 sviluppa la cultura della professione giornalistica connessa all’innovazione.

    ICFJ ha collaborato con altri enti di livello internazionale come Georgetown University o la Knight Foundation, ma anche con grandi firme del mondo tecnologico come Google, Survey Monkey, Storyful o Twitter, per cercare di comprendere l’avanzamento verso la digitalizzazione completa delle newsroom di tutto il mondo. Pericolosa la fotografia che è uscita dal lavoro accademico. Una fotografia che tutti dovrebbero leggere e che parla di una situazione di resistenza quasi strutturale al cambiamento.

    Una prima assoluta.

    L’International Center for Journalists, organizzazione con sede a Washington e con collaborazioni strutturate come la Knight Foundation, ha realizzato una “prima assoluta” promuovendo la ricerca “The State of Technology in Global Newsroom”. L’obiettivo è stato cercare di comprendere, grazie a un board di ricercatori di primo livello, a che punto sia la trasformazione digitale del lavoro tuo e mio. Già che sono ringrazio subito la bravissima collega australiana Corinne Podger per avermi dato lo spunto e la possibilità di trovare questo documento che ha messo a nudo le resistenze di una professione al futuro.

    Nelle 77 pagine della survey l’ICFJ tratteggia un mondo in cui, tanto per dirne alcune, nelle newsroom solo il 5% ha degli studi tecnici alle spalle, mentre il 2% viene assunto prendendolo dal mondo del digitale. Solo l’1% degli addetti nelle newsroom è un analytics editor, mentre è particolare anche la percentuale dei manager delle newsroom che sono per il 64% preparati sotto il profilo digitale, contro il solo 45% della forza lavoro dei giornalisti che dirigono. Insomma, di digital ne sanno più i capoccia di quelli che dovrebbero essere gli interpreti del giornalismo digitale.

    Parliamo di fake? Parliamone dai..

    Ecco la cosa davvero brutta o, perlomeno, quella che a me sembra la peggiore di tutte. Dalle indagini statistiche svolte per “The State of Technology in Global Newsroom” pare che solo l’11% usi dei tool di verifica delle notizie fra tutti i giornalisti sentiti per l’indagine. Assurdo, ma vero. Vogliamo parlare di fake news? Facciamolo dai, però prima raccontiamo questa percentuale..

    L’eredità di Tom e Liebe…

    Il documento è l’ultima frontiera per fotografare il cambiamento delle newsroom che sta avvenendo con lentezza e con un filo di malavoglia, se non addirittura di desiderio di non procedere verso il futuro. Una situazione assurda per una professione che viene giornalmente ridimensionata e ridicolizzata dalla velocità con la quale cambia il mondo che le gira intorno. E’ un documento di valore eccezionale, una ricerca che fa riflettere molto e, probabilmente, è il lavoro più coraggioso dell’istituzione nata nel 1984 in un ufficetto dal desiderio dei coniugi giornalisti Tom e Liebe Winship.

    Lui pluripremiato Pulitzer del Boston Globe, lei titolare della famosissima rubrica “ask Beth”, alla fine della loro carriera hanno deciso che la loro missione era condividere la cultura del giornalismo in tutto il mondo. In 33 anni hanno fatto i “disastri” entrando in contatto con 100 mila professionisti di questo settore in 180 diversi paesi. Ecco, comunque, lo strepitoso lavoro di cui ti ho parlato e che ti dovresti “bere” al volo. Buona lettura.

    The State of Technology in Global Newsroom.

  • Mobile journalism: scende in campo la Thomson Foundation

    Mobile journalism: scende in campo la Thomson Foundation

    Thomson Foundation e mojo: tutto il sapere è online.

    La Thomson Foundation, organizzazione inglese intitolata a Lord Roy Thomson, magnate anglocanadese dei media e storico padrone del The Times negli anni ’60, ha messo in campo una squadra imponente, in questi giorni, per monopolizzare l’attenzione dei giornalisti di tutto il mondo e convogliarla verso il mobile journalism. Il format? Quello dei corsi online, con una offerta che parla chiaramente di un pacchetto molto ricco, in grado di fornire preziosissimi strumenti per il futuro professionale.

    Il catalogo, che puoi trovare su questo link, è orientato al mojo, ma anche a tutti quegli ambiti che attengono direttamente alla produzione di contenuti in mobilità. Nei corsi della Thomson Foundation, infatti, si può trovare il guru del mojo internazionale Glen Mulcahy che sciorina la sua materia, ma parla anche di video a 360 gradi.  Oppure dei “teacher” come Chris Birkett, ex Telegraph e BBC, il quale introduce al giornalismo multipiattaforma.

    Un pacchetto di corsi da urlo.

    Le pagine della Thomson Foundation offrono davvero il meglio della preparazione mojo in questo momento. Mi attirano molto un paio di passaggi sul trust e sulla reputation, ma anche sull’engagement e sulle community da creare. Ricorderai, infatti, che da sempre penso che il giornalista debba coltivare con estrema attenzione il suo brand e la sua comunità di lettori: ebbene, questi corsi offrono il meglio per far crescere questi aspetti. Un altro dei punti centrali di questo programma didattico e quello di giornalismo multipiattaforma.

    Il motivo è semplice: la Thomson Foundation sa bene che i giornalisti ora si devono preparare a produrre contenuti da caricare su ogni tipo di pubblicazione. Per questo motivo “Journalism Across Multiple Platform” è uno degli snodi principali di questo pacchetto della Thomson: insegna come i lettori consumano le notizie sui vari siti social, per poi addentrarsi anche sulla produzione di contenuti adatti alle diverse tipologie di luoghi di pubblicazione.

    Si parla anche di Business.

    In questo bundle di corsi che si chiama TFJN, Thomson Foundation Journalism Now, si parla anche di affari sempre con Chris Birkett con il corso “The Business of Journalism: Creating a Brand & Building an Audience“. Capisci dal titolo che è un vero concentrato di indicazioni su come creare modelli di business vincenti per i mojoer e per i giornalisti di oggi. I quali devono essere brand, devono essere talmente riconoscibili nel loro campo dal divenire fonti dirette di informazione, senza l’intermediazione di un editore.

    Già che sono metto giù anche i prezzi: si va dai 350 dollari del corso tenuto da Glen Mulcahy sul mobile journalism fino ai corsi free. Aggiungo anche un paio di altre notizie che possono essere molto utili. Proprio direttamente dall’amico Glen è arrivato un codice sconto di lancio per i due corsi prodotti da lui che ha definito questa avventura come “molto impegnativa, ma importantissima, visto il valore che la Thomson sta dando al mojo”. Si tratta di “mojolaunch50Glen” che abbasserà al 50% le tariffe dei due percorsi firmati Mulcahy.

    La Thomson Foundation guarda oltre.

    C’è un altro modo interessante per regalarsi questi corsi da sogno: se uno riesce a completare efficacemente due dei tre corsi Free contrassegnati con la sigla JN01, JN02 o JN07, avrà libero accesso a un corso a pagamento a scelta. Insomma ragazzo, fatti un mazzo così e studia i corsi gratis. Poi fai quello di Mulcahy: ci siamo capiti?

    Buono studio con la Thomson Foundation, una istituzione che guarda molto lontano e vede molto bene.

  • Giornalisti: guida (semiseria) all’uso dei social network

    Giornalisti: guida (semiseria) all’uso dei social network

    Giornalisti: qualche volta mi chiedo se “ci sono” o “ci fanno”.

    Sto facendo ricerche sui giornalisti e sul loro uso dei social. Ogni mattina passo almeno un’ora, mentre sorseggio il caffé, a informarmi dagli account delle fonti di informazione più importanti per il mio lavoro e per la mia vita. Da tempo non leggo e non compro più i giornali, da tempo penso che l’agenzia di informazione più evoluta, veloce e accurata, sia Twitter. Da tempo non vedo i notiziari televisivi perché nel mio sistema informativo arrivano dopo di me, nel senso che le cose che sento sono già nella categoria delle cose che ho letto o saputo nei minuti o nelle ore precedenti.

    Sempre di più dirigo le mie ricerche di notizie verso i colleghi autorevoli nei campi più interessanti. Cerco, leggo, cerco, twitto, posto, ritwitto. E’ sempre una delle ore migliori della giornata. Però alla fine di quell’ora mi viene sempre l’amaro in bocca, perché penso all’uso idiota che i giornalisti italiani fanno dei social. Distruggendo, molto spesso, due cose: gli zebedei di chi li segue e la loro immagine personale.

    Forse bisogna spiegare la cosa…

    Premetto che anche io ho avuto un percorso di crescita sui social. Premetto anche che, nella categoria dei giornalisti non sono quello che ha gli account perfetti. A volte, la funzione dei ricordi su Facebook, mi è molto utile a eliminare qualche stronzata scritta in passato.

    Tuttavia cerco di fare personal branding e ho deciso da qualche mese, più esattamente da settembre, di fare proprio un mio piano editoriale anche sui social per chiarire i miei “campi” e il mio brand. Sui social media ho letto molto, ma ho deciso di adottare un mio stile, ma quello che mi preoccupa molto è che i giornalisti italiani non abbiano generalmente alba di come si usano e di come si imposta una strategia chiara per la propria immagine digitale.

    Per questo motivo mi è saltata la mosca al naso e ho deciso di fare una guida semiseria all’uso dei social per i giornalisti, guida alla quale poi darò conclusione dicendoti, se ti va di seguirmi, quali siano le impostazioni che ho fato ai miei account con relativi indirizzi.

    Facebook, il mare magnum dell’opinione.

    Non so se è la mia timeline, ma vedo con chiarezza che i colleghi sproloquiano opinioni sul tema del giorno a profusione, dando a ogni giro l’impressione di perdere tempo invece che guadagnarlo sui social. Facebook per un giornalista è uno strumento per diffondere i propri scritti, per valorizzare il proprio lavoro, per cercare notizie, per creare (magari con una fanpage) di fare una community, per incontrare gli intervistabili, per creare link lavorativi.

    Non è un posto dove parteggiare, sparare la minchiata qualunque sul tema del giorno, dire male o bene di Renzi e Berlusconi, soffiare sul fuoco del populismo, schierarsi, vantarsi, scoprirsi, denudarsi, mettere foto dei bambini.  Se vuoi mettere qualcosa di personale, fallo, ma ricordati: privacy un cazzo, è tutto pubblico. La cosa che dovresti fare di più è, tuttavia, qualcosa che sia utile agli altri. Dovresti condividere il tuo valore e la tua professionalità.

    Twitter, l’agenzia giornalistica mondiale.

    Te l’ho detto, è la più grande risorsa possibile per il tuo cazzo di lavoro. Per questo motivo, ora che siamo passati quasi tutti a 280 caratteri, non perdere tempo a sparare battutine. Twitta cose di lavoro, cose del tuo campo, segui gli hashtag che sono buoni per te. Ti dò un consiglio: se vuoi aumentare il tuo giro, twitta in inglese. E’ molto più importante, infatti, conservare un’interazione con le fonti internazionali principali del tuo lavoro e del tuo campo piuttosto che farti comprendere dai pochi italiani che ci sono. Twitter è quel social network nel quale, se vuoi diventare un giornalista-fonte, puoi lavorare meglio per farti una community interessata del tuo argomento. Chi ti dà il suo follow, infatti, resterà volentieri se sarai abile a raccontargli le notizie di cui ha bisogno e che lo hanno portato a darti il tuo gradimento.

    Instagram e Snapchat: forse non è proprio cosa da giornalisti, ma…

    Tutti i testi di quelli fighi sanno che, per farsi un brand giornalistico, bisogna postare principalmente cose che riguardano la professione e il campo di specializzazione. Tuttavia un 20% di cose personali potrebbero andare bene, anche per far capire a chi ti segue che non sei una specie di cyborg…. In questo senso, concentrare il “personale” su Instagram potrebbe darti una immagine bella e “vicina” alle persone, senza “offendere” l’uso che fai degli altri social.

    Quindi per i giornalisti dico Instagram sì, ma spostato sull’ambito personale. La stessa cosa anche per Snapchat che, tuttavia, si unisce a Instagram in una caratteristica molto importante per i prodotti e per i racconti giornalistici. Quale? Si possono fare storie che contengano un valore giornalistico e che siano editate, tuttavia, in verticale e in modi che raggiungono più velocemente un target giovane.

    Il mio piano editoriale? Eccolo.

    Non sono un guru dei social media e, magari, questo piano editoriale avrà cambiamenti. Quello che è certo è che è un piano che orienta gli strumenti social a farmi riconoscere per due anime: io sono Italianmojo e Sharingdaddy. Nel mio profilo Facebook personale troverai il mio lavoro sul blog e un po’ di spruzzate personali. Sulle fanpage di Facebook la mia immagine professionale, su twitter le ultime notizie sulla community mojo (in inglese), su Instagram e Snapchat solo cose personali. Se vuoi sapere come sto, lo troverai tra una story e uno snap, se vuoi leggere il mio blog lo troverai sul mio “Faccialibro” professionale, se ti interessano le ultime mojonews vai su twitter, se vuoi contattarmi per lavoro passa dalle mie pagine @FrancescoFacchiniMojo e @Sharingdaddy.

  • Applicazioni per filmare: Mavis, una magic box

    Applicazioni per filmare: Mavis, una magic box

    Applicazioni per filmare: un mare di opportunità da scoprire.

    Le Applicazioni per filmare sono un punto molto importante della produzione mojo. Essendo un fan del “pure” mojo, propendo per l’uso massimo delle fotocamere native dei cellulari che utilizzate per il vostro lavoro. A mio avviso è un ottimo punto di partenza per l’esercizio e per sapere “a mani nude” tutto quello che può esprimere il tuo aggeggio, prima di fare acquisti. Il momento di passare di grado, tuttavia, arriva presto e allora ti conviene sapere quali sono le migliori applicazioni per filmare. Cosa ne penso io? Penso che valga la pena cominciare da Filmic Pro, specialmente se sei Android, ma devo dire che, nel mondo iOS, c’è una valida alternativa che si chiama Mavis.

    Dall’Inghilterra con furore.

    Mavis è prodotta da un team di Brighton nel Regno Unito e si rivolge ai professional dell’immagine con una serie di caratteristiche che, talvolta, fanno anche spavento. Qualche mese fa ne abbiamo parlato con uno dei membri di questo team, Patrick Holroyd del reparto marketing presente a Galway per Mojocon 2017. Ecco la sua intervista che rivela le principali caratteristiche della app, davvero sconvolgenti per precisione ed efficacia.

    Mavis ti regala pieno controllo sul colore con gli spettrografi necessari, pieno controllo sul focus, differenti tipologie di filming a seconda dei formati, completo controllo sulle specifiche del file (ma come sai, per me filmare in 16/9 a 1280 per 720 è più che abbastanza). Nei confronti di Filmic Pro cede un attimo nel controllo audio che è solo su microfoni esterni (se le mie prove non mi hanno ingannato).

    Cambio di fuoco? Fulminante.

    E’ velocissima, forse la più veloce delle applicazioni per filmare. Mavis è un must have delle applicazioni per filmare per un motivo semplice. Stupisce il modo con cui valorizza la camera nativa del tuo telefono rendendola professionale. Vuoi fare il bianco? Lo fa. Vuoi cambiare il fuoco automaticamente? Lo fa. Oltretutto il tempo di messa a fuoco è fulmineo così come sono approfondite e curate le grafiche per la valutazione dell’inquadratura come i “false colours” o le zebre per indicare zone sovraesposte e sottoesposte. Un vero rammarico? Non poterla testare sul mondo Android dove ci sono processori interessanti che farebbero fare a questa app cose migliori.

    E’ una delle applicazioni per filmare “top”

    Insomma, non mi piace dare alle applicazioni per filmare (o alle altre) che sono di un mondo solo troppa importanza, ma Mavis merita tutta l’attenzione per la facilità con cui si riesce a usare (ha perfino il fuoco col mirino) e per i risultati di ripresa che regala. Insomma, se hai un iPhone e vuoi salire quattro piani più su nelle tecniche di filming, Mavis è un’ottima alternativa a Filmic Pro. A mio avviso, anche il prezzo di poco sotto i 20 euro (tipo 18,99) è uno sforzo che vale la pena fare per i risultati che regala.

  • Master Iulm: inizio una collaborazione-docenza sul mojo

    Master Iulm: inizio una collaborazione-docenza sul mojo

    [fusion_builder_container hundred_percent=”no” equal_height_columns=”no” menu_anchor=”” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” class=”” id=”” background_color=”” background_image=”” background_position=”center center” background_repeat=”no-repeat” fade=”no” background_parallax=”none” parallax_speed=”0.3″ video_mp4=”” video_webm=”” video_ogv=”” video_url=”” video_aspect_ratio=”16:9″ video_loop=”yes” video_mute=”yes” overlay_color=”” video_preview_image=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” padding_top=”” padding_bottom=”” padding_left=”” padding_right=””][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ layout=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” border_position=”all” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” center_content=”no” last=”no” min_height=”” hover_type=”none” link=””][fusion_text]

    Mobile content creation: un’arma in più per gli studenti del Master Iulm.

    Oggi è uno di quei giorni da ricordare. Una parte importante del mio progetto di diffusione della cultura della mobile content creation e del mobile journalism ha trovato sviluppo. In qualità di collaboratore, infatti, sono stato chiamato alla docenza-testimonianza in tre differenti master di specializzazione della IULM, la Libera Università di Lingue e Comunicazione, presso l’ateneo di Via Carlo Bo 1 a Milano.

    E’ un momento molto importante per lo sviluppo del progetto che ho creato. Semplice il motico: per la prima volta ho l’occasione di portare la mia esperienza nel mondo della formazione accademica. Spero di poter essere soltanto un’arma in più a disposizione degli studenti dei Master Iulm che studiano “Management e Comunicazione del Beauty e del Wellness”, “Food and Wine Communication” e “Marketing e Comunicazione dello Sport”.

    Perché è un passo importantissimo.

    Quando ho iniziato il mio percorso ho sempre avuto chiaro l’obiettivo. Ho chiaro anche il percorso che il mobile journalism e la mobile content creation dovevano fare per essere introdotti al maggior numero di colleghi e di persone in generale. Questo percorso passava e passa dalla formazione universitaria. Il contatto provocato dalla collaborazione con l’ateneo milanese, infatti, sarà determinante per dare la materia la collocazione che merita e per farle avere la dignità accademica che merita. Questo indipendentemente dal mondo del giornalismo dal quale provengo, mondo nel quale, strano, ma vero, il mojo incontra le sue più grandi resistenze, almeno in Italia.

    Il linguaggio mojo

    La collaborazione prevede delle giornate dedicate in modo verticale alla mobile content creation e al mobile journalism. Questi Master Iulm, quindi, avranno nelle loro “premesse”, all’inizio dell’esperienza dei corsisti, la giornata mojo.

    Il tutto per fare in modo che la mia esperienza venga poi “utilizzata” durante l’anno sotto la mia supervisione. Il linguaggio mojo, quindi, finirà nella cassetta degli attrezzi del loro lavoro. In attesa che il Master Iulm che frequentano li formi a una professionalità della comunicazione ad alto livello.

    I ringraziamenti doverosi

    Concludo ringraziando i Direttori Scientifici Mauro Ferraresi e Vincenzo Russo per l’occasione, il Coordinatore Didattico Errico Cecchetti per l’accoglienza, la Tutor Giorgia Clemenza (per l’aiuto) e il collega Alessandro Franceschini. Senza di lui tutto questo non sarebbe stato possibile. Sono onorato e il motivo è semplice: dare questa esperienza ai nuovi comunicatori è un primo passo molto importante per aprire la conoscenza di questa materia a tutti.

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  • Social media: il giornalismo è una conversazione, te ne sei accorto?

    Social media: il giornalismo è una conversazione, te ne sei accorto?

    Il giornalismo ai tempi dei social media.

    Allora, se sei uno studente di giornalismo o un giovane giornalista devi dirmi una cosa: ti hanno mai detto che il giornalismo è una conversazione? Se la risposta è no, lo faccio io, ma ti dico che dovresti essere notevolmente incazzato con chi non ti ha insegnato (e doveva) che il giornalismo ai tempi dei social media è una conversazione. Effettivamente mi sono dovuto documentare anche io, riguardo a questa nuova caratteristica del giornalismo: ho dovuto studiare parecchio. Già, perché avendo 46 anni sono nato, come giornalista, in un’epoca nella quale il mio mestiere non era ancora così. Oggi lo è e ringrazio il cielo di averlo capito, studiato, verificato, testato e sviluppato. C’è un piccolo problema, però: in Italia nessuno (o quasi) lo insegna e nessuno (o quasi) usa correttamente questa caratteristica del giornalismo ai tempi dei social media.

    Prima lo strumento, poi mi incazzo.

    Prima di incazzarmi col mondo rotondo, ti dico subito lo strumento indispensabile per capire a fondo questo nuovo mondo del giornalismo e i suoi strumenti. Si tratta di un libro che ho trovato in rete e che sta cambiando radicalmente il mio modo di fare la professione. Nella mia esperienza non ho trovato fonti di conoscenza professionale che mi abbiano fatto comprendere bene questo meccanismo fino al momento in cui ho incrociato “Mobile and Social Media Journalism, a practical guide” del professor Anthony Adornato. Si tratta di un italo-americano che ha fatto una splendida carriera e ora insegna Mobile e Social Media Journalism al college di Ithaca.

    Ha realizzato un manuale di straordinaria importanza partendo dal suo corso e formattando le caratteristiche del nuovo giornalismo. Io sto studiando questo testo con una voracità tale da farmi diminuire le ore di sonno la notte e ci trovo tutto il paradigma della nuova interpretazione che si deve dare al mestiere del cronista. Social media e giornalismo sono un binomio inscindibile e devono essere tenuti insieme e utilizzati per un migliore servizio all’audience, non per sparare opinioni o sentenze (o peggio fare clickbait).

    Il concetto principale di Adornato.

    Ecco il concetto principale che Adornato mette in chiaro in una delle pagine iniziali del suo testo universitario e che rappresenta, molto probabilmente, il cuore del suo lavoro:

    Il giornalismo ha subito un cambiamento da conversazione a una direzione (il giornalista produceva la notizia, la pubblicava, il lettore la leggeva ndb) in una conversazione a due direzioni. Questo sta ridefinendo il ruolo dei giornalisti e il modo in cui devono interagire con il loro pubblico. Pensa al giornalismo, quindi, come a una conversazione a due vie, non come la creazione di qualcosa da leggere.

    Gli editori, ora come ora, non possono più ignorare i lettori attivi sui mobile e sui social media. Il giornalismo, visto come una conversazione, è visto come un’azione condivisa tra giornalisti e audience. Il giornalismo visto come una conversazione incoraggia l’interazione tra giornalista e audience. Invita il giornalista a usare un tono informale, ad ascoltare, ad aprirsi al feedback del lettore stesso. Le device mobili e i social media, quindi, permettono al giornalista di rafforzare la sua connessione con il pubblico, con il preciso obiettivo di servirlo meglio.

    Sono un filo sconvolto (e qui mi incazzo)

    Un concetto semplice, lineare, quanto sconvolgente almeno nella mia testa. Sconvolgente perché ho visto quanto devo ancora fare io in questo percorso e quanto non fanno i giornalisti italiani. Spero che il motivo sia che nessuno glielo ha fatto capire, che nessuno glielo ha insegnato. Sono semiconvinto, tuttavia, che non sia proprio così. Già, perché alcuni giornalisti usano molto bene i social, ma per un sacco di cose tranne fare giornalismo, migliorare il loro giornalismo, interagire col pubblico per servirlo meglio. Ci sono, invece, una pletora di colleghi che coniugano le parole social media e giornalismo con il gioco della faziosità, del parteggiamento, dell’opinione, della seduzione, dello schieramento o, quando sono più normali, del sano spaccio di click al loro lavoro. Bene, fatta salva quest’ultima naturale (e forse utile) indicazione, non abbiamo proprio capito un cazzo dell’uso dei social media per fare giornalismo in Italia.

    I social media non sono un optional, sono un dovere.

    Concludo dicendo che i social media per il giornalista moderno, sono uno strumento di base e fanno assolutamente rima col mobile journalism. Sono necessari per la creazione di una community, per il rapporto con il pubblico, per il reperimento di notizie, per porre delle domande o dare delle risposte. Devono, tuttavia, essere collegati all’esercizio della propria professione, non al cazzeggio e allo sparo della propria opinione. Mi sono sforzato di pensare a un giornalista italiano che utilizzi i social media come strumento integrato per il suo lavoro, sfruttando a pieno le due vie di questa conversazione, chiedendo e rispondendo, condividendo cultura e notizie, interagendo con chi lo legge per servirlo meglio. Dimmi chi lo fa, ti prego, dimmi che mi sto sbagliando, dimmi che te lo hanno insegnato. Quanto spero di sbagliarmi e quanto ho paura di non sbagliarmi.