Studio da anni il mobile journalism e sono uno dei punti di riferimento della materia in ambito italiano e internazionale. In questa categoria del mio sito ci sono raccolti tutti gli spunti arrivati dalle mie esperienze, dai miei studi e dalla trasformazione della mia figura professionale. Ormai il mobile journalism è il giornalismo di oggi.
Fare il mobile journalism è poco una questione di kit e tanto una questione di testa. Per questo motivo penso che dare indicazioni sull’hardware da portarsi dietro quando si va a filmare sia importante, ma sia ancora più importante focalizzarsi su un paio di concetti che non hanno proprio a che fare con gli strumenti con cui si lavora, ma con il modo con il quale si lavora.
Per questo la cosa più importante della borsa del mojo è che sia… leggera. Deve contenere il poco che basta a fare le immagini (perfette) che vi servono e a raccogliere un audio di qualità. Il resto è fuffa. Sembra quasi assurdo quello che ti sto scrivendo, perché il video giornalismo classico fa rima con una miriade di accessori che rendono pesante il proprio zaino. Però è così: meno porti, meglio fai il mojo.
Perché magro è bello (l’altro segreto).
Pur essendo un convinto assertore della buona tavola, come dimostrano spesso le tre cifre che compaiono ogni volta che salgo sulla bilancia, penso che la tua borsa debba mettersi a dieta. Il motivo lo capirai quando sarai sul campo e, con le tecniche di ripresa e di acquisizione immagini del mobile journalism, avrai effetti immediati e positivi sulla qualità di quello che riprendi e sul tempo nel quale riprendi. Libero da pesi e da timori di perdere i pezzi dell’attrezzatura, ti ritroverai ad avere margine operativo più importante, con la filosofia del mobile journalism, per raccontare liberamente, con inquadrature spiazzanti e linguaggio inedito, il soggetto che stai riprendendo, la storia che stai costruendo.
The italian way.
Abbiamo un gap di conoscenza terrificante, noi italiani, per quanto riguarda il mobile journalism. Abbiamo, tuttavia, anche un vantaggio schiacciante che potrebbe portarci alla pari con il resto del mondo in poco tempo in questi periodi di rivoluzione mojo. Quale? La creatività. Se vai in giro leggero, lo capirai. Viene da sola.
Mi avete chiesto in tanti, forse anche tu, quali siano le applicazioni migliori per fare mobile journalism. Finalmente entro nello specifico e dico quello che penso per quanto riguarda l’acquisizione di immagini. Ogni buon mojo sa che la prima regola è “fai con quello che hai”. Per cui a questa domanda, risuonata nelle mie orecchie decine e decine di volte, rispondo così: la migliore applicazione per fare immagini con il telefonino è… nessuna.
Già, perché quello che il mojo predica e predica assai bene è la necessità di valorizzare l’esistente, di evitare qualsiasi spesa possa essere evitata. Allora la migliore app per fare delle immagini meravigliose è la macchina fotografica nativa del vostro telefonino. Ormai siamo a livelli altissimi e con funzionalità meravigliose, quindi migliore è il vostro telefono e minore sarà la necessità di acquistare una applicazione specifica per la registrazione delle immagini.
Una macchina fotografica, due mondi diversi
La vera differenza, però, sembra un particolare secondario dell’apparato fotografico dei vostri smartphone, ma è assolutamente dirimente. A cosa mi sto riferendo? A una funzione che nel mondo Android c’è e nel mondo iPhone non c’è. Dando per scontato che il miglior iPhone e il miglior aggeggio del Robottino, una volta schiacciato “rec” scodellano immagini da film, un piccolo innocuo tastino stravolge completamente i modi di lavorare se sei della mela o di Android. La Mela infatti quella funzione non ce l’ha. Ok, la finisco con la suspence. Sto parlando della funzione start and stop che i telefoni con il sistema operativo del Robot hanno e che quelli con iOS, invece, non hanno. Da una macchina fotografica nativa, quindi, nascono due mondi diversi. Già, perché è diverso il mindset che bisogna avere nell’affrontare la produzione delle immagini se si usa la camera nativa.
Il sistema iOS.
Partendo dalla macchina fotografica, o meglio dal suo modulo montato sugli iPhone, va detto che se è unico il file dell’intervista portante che realizzate, finiscono con l’essere molti i file delle coperture, quelle che, in inglese, si chiamano B-Roll. Se la mentalità mojo, quindi, parte dal non acquistare quello che non è strettamente necessario, va detto che con un iPhone tra le mani il lavoro si complicherà quando dai 4-5-6 minuti di intervista, dovrete poi passare ai file multipli degli shoot di copertura. Il mobile journalism regala tecniche precise di filming con sistema iOS, ma per raccontarle ci vorrebbe il capitolo di un libro (peraltro lo sto scrivendo). Riassumendo tutto in un concetto, sarai portato a fare coperture con una sola filosofia: filma quello che è necessario, non un frame di più.
Il mondo Android.
Se con una device Apple, facendo mobile journalism, ti ritrovi ad avere un file principale e una manciata di file di copertura, il vantaggio del fare immagini con un Android è regalato da quel bottoncino “pausa”. Quando fai le coperture, infatti, restando ferma la necessità di raffinare le tecniche, per non produrre fuffa, il vantaggio enorme sarà che, specialmente se lavori sulle news, quindi devi andare veloce, che il file di B-Roll sarà uno solo. Verrà enormemente facilitato il montaggio e la resa della device sarà migliore, rispetto alla gestione di 15-20 file che sei costretto a fare con l’iPhone. Capito la differenza? Un giochetto non da poco.
La soluzione per video perfetti? E’ Filmic Pro
Della mia app per fare le immagini, te lo ricordo, io appartengo ad iOS, ti parlo comunque molto volentieri e in termini entusiastici. E’ Filmic Pro, un software sviluppato dalla Filmic Inc di Seattle, grazie alla visione del fondatore e Ceo Neill Barham. Trasforma il telefono in una macchina professionale con estremo controllo su esposizione, fuoco, bilanciamento dei colori e quanto altro serva a stabilizzare il modulo fotografico del vostro smartphone. E’ in vendita, per il mondo iOS a 9,99 euro, mentre la versione Android sale a 11,99. Attenzione, non è compatibile con tutti i telefoni del Robot e, infatti, la Filmic ne ha rilasciato una versione ridotta che si chiama Plus a 6,49 euro.
Io, per esempio, ho in questo periodo un Huawei P8 e non posso nemmeno scaricare la versione Pro. Notizia delle notizie. Filmic rilascerà il 16 marzo una release completamente rinnovata che avrà, fra le nuove caratteristiche, degli slider ovali per il controllo contemporaneo di fuoco ed esposizione, delle feature per controllare sovraesposizione e sottoesposizione dell’inquadratura, delle funzioni per verificare con colorazioni specifiche l’esposizione su tutta l’immagine e le ombre, ma anche tanto altro. Lascio al mitico Eliot Fitzroy l’incombenza di portarvi in questo mondo e vi ribadisco: la soluzione è Filmic. In attesa di nuove sorprese.
Il vero motore dell’immagine, tuttavia, resti tu. E le tecniche mojo possono aiutarti a fare l’inquadratura necessaria, senza sprecare un frame di troppo.
Guadagnare di più con il mobile journalism: si può.
Si, ma come faccio a guadagnare di più? Ecco la domanda più ricorrente che mi fanno quando parlo del mobile journalism. Ti presento alcune risposte, ma alla fine ti farò anche io una domanda: continua a leggere. Mi sembra doveroso premettere una cosa, l’ho capita qualche giorno fa guardando un video del collega, appena “acquisito” da Cnn International, Yusuf Omar. Nel suo primo giro via Snapchat della redazione nella quale era appena entrato, Yusuf ha incontrato Christiane Amanpour.
Mi ha impressionato una frase: “Il giornalismo sta benissimo e, proprio in questo periodo, è successa una cosa che ha addirittura migliorato la sua salute: è l’elezione di Trump. Ecco, proprio in questo momento, il giornalismo ha l’opportunità migliore di rivelare la sua vera funzione. Forse la migliore della storia“. Sai, ne sono convinto: il giornalismo non è per nulla in crisi, anzi scoppia di salute. In crisi, perlomeno in Italia, sono i giornalisti e gli editori, che non sanno da che parte andare…
La direzione è mojo.
Mi ha molto rallegrato quella frase, nel panorama di una situazione del lavoro giornalistico italiano che definire avvilente è eufemistico. Il mojo è la direzione verso la quale andare per ritornare ad avere valore con i linguaggi e i tempi che impone il mercato di oggi. E’, sinceramente, una delle poche soluzioni praticabili e la migliore in quanto a possibilità di ritornare a essere, come giornalisti, decisivi. Non sono uno studioso di economia, ma solo un cronista che ha imparato da alcuni errori e ha studiato. Quindi i principi che ti racconterò in questo articolo non hanno la presunzione di essere dogmi, ma ragionamenti basati sulla ricerca e sull’esperienza che potrai utilizzare declinandoli come ti viene meglio nella tua vita professionale.
Consiglio uno: l’attrezzatura e i sotfware costano meno
Il mobile journalism ha un costo pari a un terzo del video giornalismo normale. Con 1000 euro si può costruire un kit (e presto te ne parlerò) che ha la possibilità di riprendere immagini in 4k e un audio perfetto. Se poi vuoi esagerare ne puoi spendere anche 3000, ma con 3000 euro, se il tuo obiettivo è il semplice giornalismo, ci prendi solo una telecamera professionale. Ecco le differenze di scala del prezzo. In un’economia come la nostra, tuttavia, è importante il ragionamento che sta alla base. Il tuo hardware ce l’hai già nella tasca della giacca: qualunque telefonino moderno, con un processore un po’ decente, può rappresentare per te già l’inizio della possibilità di vendere dei contenuti realizzati con una device mobile.
Anche il software costa meno, visto che per acquistare una app per immagini perfette ci vogliono, al massimo, 11,9 euro (dalla parte del mondo Android), mentre il prezzo di Kinemaster è attorno ai 30 euro annui (ti sto dicendo sempre il costo più alto. Dal lato della mela, invece, il prezzo di Luma Fusion, dell’azienda Luma Touch è di poco sotto i 40 euro, ma per sempre. Vuoi comparare questi prezzi con quelli dei software di montaggio per Mac o PC? Te ne dico uno. Per la licenza mensile da acquistare online la Adobe cede il suo Premiere Pro CC a 36 euro mese. Ripeto 36 euro mese: può bastare come economia di scala?
Consiglio due: linguaggio è unico (e va venduto come tale)
Da quello che vedo e che sperimento, il linguaggio del mobile journalism è unico, particolare, difficilmente replicabile con gli strumenti classici del videogiornalismo normale se non con costi tremendamente superiori. Per questo motivo una delle caratteristiche del prodotto che riuscirai a fare con il mojo è la sua particolarità di linguaggio visivo. Va venduta anche quella, cercando di produrre, nei propri video, una buona quantità di immagini pensate e realizzate portando al limite l’attrezzo. Ti faccio un esempio di un mojo reportage che è molto più facile realizzare con il mojo che con il vj. E’ del mojo Philipp Bromwell di Rte, la televisione di stato irlandese.
Alla fine qualsiasi telecamera potrebbe arrivare allo stesso linguaggio, ma con dispersione di tempo e di risorse almeno doppia. Quella che vedi qui, per esempio, è una delle inquadrature classiche della narrativa del mobile journalism che con un iPhone 7 può essere fatta con maggiore velocità, minori risorse (filtri, supporti, etc) e minore impatto sul soggetto ripreso rispetto a quanto si può ottenere con una camera, per piccola che sia. Ecco perché il linguaggio del mojo è diverso e va venduto come particolare. Vale di più, nel senso che può andare oltre i limiti dell’inquadratura classica e costa di meno. Naturalmente dipende dalla notizia, dalla storia, dal modo in cui viene narrata, ma chi fa mojo deve saper vendere anche la diversità del mobile journalism rispetto al linguaggio visivo classico che si può vedere oggi nella maggior parte dei lavori.
Consiglio tre: due video nel tempo di uno.
Anni di esperienza mi hanno fatto capire che 3 minuti montati dal campo e chiusi con la tecnica del mobile journalism ti portano via 2 ore circa, tra arrivo sul campo, produzione immagini, montaggio e deliver. Succede quindi molto spesso che il mojoer consegni il lavoro già quando il videogiornalista classico sta riversando il materiale e iniziando a montare. Il video giornalista normale sta quasi il doppio del tempo. Faccio il conto della serva. Per un servizio base i siti nazionali danno un’ottantina di euro, quando va bene. Non è la paga giusta per il lavoro, ma se io nello stesso tempo di un video giornalista normale ne faccio due di video (tenendo allo stesso livello la qualità e liberando il linguaggio), beh, la mia paga comincia a rinormalizzarsi.
Consiglio quattro: sto facendo più prodotti contemporaneamente
Il mojoer, quando produce una cosa sul campo, la produce e la pensa in modo multimediale. Con un’operazione facilissima può scattare foto mentre filma, con la stessa operazione di acquisizione di un’intervista sta facendo anche un’audio di qualità. Per questo motivo, per eccesso, mentre un mojoer fa un video, potrebbe riconiugare lo stesso materiale in un pezzo per una radio e un testo con fotografie di qualità per un giornale o un sito che gli chieda un articolo scritto. Il video, quindi, è l’equivalente della storica libreria Billy, scheletro iniziale sul quale la mitica Ikea costruisce oltre la metà dei suoi prodotti di arredamento. Chiamalo giornalismo Ikea, ma comincia a stratificare le tue collaborazioni. Ora lo puoi fare.
Consiglio cinque: il self publishing
Con le tecniche del mojo è anche più facile autoprodursi e diventare editori del proprio lavoro. I primi 4 principi, infatti, permettono a tutti di diventare giornalisti e le piattaforme di diffusione dei contenuti aiutano tutti a diventare editori. Certamente in questo campo entrano dinamiche differenti, ma se si riesce a essere un punto di riferimento in un determinato campo o a coltivare un proprio brand, non è lontano il momento (anzi posso dire che è già presente) nel quale puoi diventare editore dei tuoi contenuti e farti pagare per questo. Nel blogging o nei canali Youtube avviene già da tempo, ma con la conversione verso il video di tante altre piattaforme, come Facebook, le opportunità di guadagno aumenteranno considerevolmente.
Consiglio sei: usi diversi dalla produzione giornalistica
Con le tecniche del mojo è possibile creare uffici stampa multimediali ad alta resa per creare contenuti adatti a qualsiasi necessità di un’azienda o, in generale, di un business. Una volta diventato patrone del mobile journalism, per guadagnare meglio, potrai proporre ad aziende di costruire lo storytelling del loro business in un modo unico e davvero particolare. Con gli strumenti del mojoer, infatti, potrai tirar fuori dalle immagini più calore e coinvolgimento per i clienti di qualsiasi videomaker classico. Potrai portare il cellulare in stanze, su tavoli e in posti delle aziende dove una telecamera ci va con molta più difficoltà e far raccontare il business che si sta sviluppando in una maniera più informale e, a tempo lungo, vincente. Nella consulenza di comunicazione politica, ma anche nei servizi a youtuber o public speaker, il mobile journalism può avere un ruolo innovativo, veloce e qualitativo. E tu ci puoi guadagnare.
Consiglio sette: la realtà è immersiva. E tu?
Il mojoer ha dimestichezza con i prodotti visuali a realtà immersiva e con le nuove tecniche di VR, ma anche con la fornitura di servizi per il live su tutte le piattaforme. Questi sono servizi che si possono integrare con la tua produzione giornalistica ed editoriale. Non te lo dimenticare. Video a 360 gradi, se fatti bene, possono avere prezzi molto alti e tu ci puoi guadagnare. Finalmente.
Il giornalismo sta benissimo, sono i giornalisti e gli editori italiani che non stanno molto bene. Il mobile journalism, però, può far guadagnare te e guadagnare loro. Vale la pena provarci.
L’ultima domanda: sai qual è, tuttavia, il fattore che fa la differenza nel mobile journalism per poter guadagnare di più? Io sì. Sei tu.
Quella che si chiude il 2 marzo del 2017 a Barcellona è un’edizione del Mobile World Congress assolutamente interessante per chi fa mobile journalism e mobile videomaking. All’appuntamento europeo della tecnologia mobile, dopo il Ces di Las Vegas sotto tono, si sono scatenate almeno un paio di compagnie, la LG e la Huawei, ma sono state portate alla luce alcune novità che possono cambiare il gioco del mobile journalism per sempre. Ecco di cosa si tratta.
Il 5G sta arrivando
Il momento in cui il mojo diventerà un linguaggio predominante della produzione giornalistica è, praticamente, domani mattina. L’International Telcommunication Union (ITU), l’ente mondiale che si occupa della regolamentazione delle telecomunicazioni ha messo le carte sul tavolo per quanto riguarda la prossima generazione di connessione internet mobile e ha fatto vedere molto chiaramente di che cosa sarà fatto il nostro futuro.
Il 5G, secondo la GSMA, associazione che unisce le più grandi aziende della telefonia mobile, la quale ha diffuso a Barcellona uno studio dal titolo eloquente “The 5G era: Age of boundless connectivity and intelligent automation”, avrà caratteristiche stravolgenti rispetto alla velocità di connessione telefonica a internet che abbiamo ora. Le promesse sono quelle di 10 Gbit/s che, detta in soldoni, faranno andare la nostra possibilità di condividere file su internet a una velocità centinaia di volte superiore a quella dell’odierno 4G (200 volte più veloce garantite).
La connessione sarà stabilissima grazie al fatto che una cella potrà servire un milione di apparecchi collegati ogni chilometro quadrato e si potrà utilizzare anche mentre ci si sposta fino a una velocità di 500 km orari. Ti potrai scordare, quindi, quegli allucinanti viaggi sul Milano-Roma in cui ci metti 15 minuti a mandare una mail. Sempre che tu ci riesca. I video in 4k ultra hd, la Internet of things, tutta una serie di processi di automazione delle industrie e una definitiva entrata nella nostra vita delle auto senza guidatore diventeranno realtà.
Ti mando tutto in tempo reale
Il tutto con una latenza nell’ordine dei millisecondi. Tanto per essere chiari, per latenza si intende “il tempo impiegato da uno o più pacchetti ICMP a raggiungere un altro computer o server in rete (sia essa Internet o LAN)”, come recita Wikipedia. Quindi, sempre per dirtela in soldoni, trasferimento di un giga di video in pochi istanti. Ti piace come idea, caro il mio mojoer? Le aziende del 5G prevedono di mettere a disposizione di 1,1 miliardi di connessioni la rete nuova entro il 2025. Già nel 2020, tuttavia, dovrebbe entrare massivamente sul mercato. A Barcellona è uscita la notizia che Verizon testerà il 5G in 11 città degli Stati Uniti già quest’anno. Lo riporta la Reuters.
Aggeggi 5G e telefonini con effetti “wow”
A Barcellona, per passare dalla rete ai cellulari, alcune case hanno messo in mostra aggeggi che ragionano già in 5g come i modem della Qualcomm della gamma Snapdragon X50. E’ il primo passo per un futuro che è vicinissimo e che vede il primo step nel 2020 con gli attori italiani del mercato quasi tutti indietro tranne Tim. Nelle sale della fiera, tuttavia, hanno tenuto banco alcuni aggeggi che possono cambiare il modo di lavorare per chi fa il mobile journalism o il mobile video making.
Il primo di questi, dotato di vero effetto wow che può far cascare in adorazione qualsiasi mojoer, è il nuovo Sony Xperia XZ Premium. Il gigante giapponese ha fatto vedere su un solo prototipo in tutto lo stand l’effetto Super Slow Motion a 960 fps. Guarda attentamente questo video, che mostra anche come l’apparato ottico del telefonino in questione abbia anche una funzione di cattura predittiva (già hai capito bene, prima del tuo click) per farti prendere la foto migliore.
La dotazione hardware comprende anche un processore octa core Snapdragon 835, 4 GB di RAM e 64 GB di memoria flash UFS, espandibili con schede microSD fino a 256 GB. La connettività è garantita dai moduli WiFi 802.11ac, Bluetooth 5.0, GPS, NFC e LTE Cat. 16 (download fino a 1 Gbps, già qui, per intenderci, siamo a un poì di più che 4G). Lo smartphone supporta anche le tecnologie WiFi Miracast, DLNA e Google Cast. La batteria da 3.230 mAh supporta la ricarica rapida Quick Charge 3.0. L’ottica è un fenomenale 19 megapixel con sistema Motion Eye il quale prevede l’uso di memoria DRAM. La frontale è da 13 mega e diventa perfetta per piani americani e live col telefonino.
Il G6, aggeggino mica male
Anche la LG si è impegnata, sebbene tutti, nei corridoi del MWC, parlassero del grande assente, il Samsung S8, il quale verrà presentato il 29 marzo con un evento dedicato a New York. Il player coreano ha messo giù tutti i suoi assi per riscattare la non brillantissima performance del G5. Ecco la presentazione ufficiale.
La cosa più importante, a parte le caratteristiche tecniche, è la nuova rivoluzionaria proporzione dello schermo 18/9, quindi 2/1. Perfetta per il multitasking, ma anche per la ripresa delle immagini, un vero gamechanger per la possibilità di fare video, pane quotidiano per il mojoer. Così, per fare i fighi, farà lo scanner dell’iride… Per una dettagliata recensione puoi andare qui.
Leica dual camera, una libidine.
La Huawei ha lanciato il P10, ponendo una particolare attenzione all’ottica, comparto che per il mobile journalism è determinante. Il sensore monocromatico da 20 megapixel e un sensore RGB da 12 megapixel, sfruttando la tecnologia sviluppata da Huawei e Leica, smazzano foto perfette in qualsiasi condizione. Il prezzo tra i 679 euro e gli 829 per il P10 Plus (ancora più dotato nel comparto ottico) fanno del gingillo griffato Huawei un prodotto interessante anche per chi lavora da mojoer nel mondo Android, ma non vuole svenarsi per avere un telefonino “pro” in quanto a immagini.
Mobile Journalism: una rivoluzione che parte dagli uomini
Lo so che vorresti che parlassi di app e di truccaglie per fare il mobile journalism: te lo prometto, lo farò quanto prima. Non voglio, tuttavia, rinunciare troppo presto all’approccio culturale di questa materia. Dopo aver provato a dare una definizione e a definire un elemento molto importante per il lavoro del mojo, il pubblico, desidero far due chiacchiere sulla storia di questa filosofia professionale che sta cambiando le professioni visive. E’ una storia quasi (o forse senza quasi) ventennale, ma è diventata realtà soltanto dal 2007, 2008. Parla di uomini, di teste, di cuori e di persone che hanno voluto cambiare il corso degli eventi con quello che avevano in tasca: il telefonino.
In principio era lo Smart Journalism
Se il mojo ha un padre, il padre è Michael Rosenblum. Newyorkese doc, Rosemblum ha lavorato per trent’anni nel campo del videogiornalismo con l’obiettivo di ridurne la pesantezza e di renderlo smarcato, veloce, leggero. A guardare il suo CV internazionale vengono i brividi, visto che è uno che ha completamente reinventato il modo di fare videogiornalismo negli Stati Uniti, non in Italia, dove sarebbe stato un filino più facile. Già 20 anni fa ha fracassato modi e metodi con cui nella grande mela si usava fare news in tv quando la New York Times company gli ha dato il compito di fare NYTV.
La sua filosofia? Eccola ben riassunta in un pezzo del New York Times, dal quale, nel tempo si è staccato per lavorare con colossi che si chiamano CBS o BBC (di cui ha fatto la transizione totale verso il VJ), ma anche per fondare la Rosenblum TV, Current TV (assieme ad Al Gore). Insomma, nel tempo Rosenblum ha puntato tutto sul dimagrimento delle strutture della TV e dei suoi costi, quasi se la sentisse che quel carrozzone che è un grande broadcast, fatto nello stesso pesante modo in ogni angolo del mondo, era pronto a scoppiare. Con questa filosofia è diventato il padre mondiale del Video Giornalismo e dei Video Giornalisti, ma è letteralmente esploso quando tra le sue mani è passato un iPhone 4. Con il gadget più venduto del mondo ha costruito un impero che è partito da Rosenblum TV ed è arrivato a VJ. E’ anche il tipetto che ha guidato la transizione verso il mojo e il video journalism della mitica Voice of America, agenzia di news governativa degli Stati Uniti, attiva dalla seconda guerra mondiale.
Un giorno dissero a Glen: “Go to NY”. E fu mojo…
Siamo più o meno nel 2002 e Glen Mulcahy, un giornalista di RTE, viene chiamato dal capo che brandisce dei biglietti aerei per NY. “Vai a New York e studia il VJ di Rosenblum”, gli disse il boss. Lui si imbarca e ne ritorna con un pacco di informazioni tale che a RTE decidono di cominciare a trasformare tutti in Video Giornalisti. Lui, però, trainer di vocazione oltre che cronistaccio, fa di più. Mentre supervisionava il lavoro di altri cronisti, comincia a girare un pezzo con un iPhone e lo manda in emissione senza dire niente. Piglia un collega e gli chiede di fare lo stesso. Nessuno in regia a Dublino nota la differenza e, quando si presenta davanti al capo redattore per dirgli la verità, la reazione è quella di una bomba. “Quel pezzo e quel pezzo l’ho fatto con l’iPhone”, disse candido. Fu il Quarantotto, visto che la cosa pigliava in mezzo molte categorie diverse tra le professionalità presenti nella rete di stato irlandese.
Da quel momento in poi Mulcahy (che nemmeno so esattamente come si pronuncia, ma presto lo chiederò al diretto interessato) si mette al lavoro per risolvere le questioni interne e avviare la rivoluzione, rivoluzione che esporta come trainer in giro per il mondo, perfino verso la ricettivissima Al Jaazera che ora conta una cinquantina di cronisti mojo nella sua redazione, tutti allenati da Glen. Nel 2015 l’idea di creare MojoCon, la Mobile Journalism World Conference che, grazie al lavoro di Glen e del suo staff, è diventata il punto di riferimento mondiale del mobile journalism e che si avvia, come ho spiegato in questo pezzo del blog, all’edizione numero tre. Un lavoro durato 5 anni che vide la luce nel 2015 con il primo evento all’Aviva Stadium di Dublino, sotto l’egida della RTE che ne è la padrona di casa. Se vuoi vedere di più clicca qui.
Nel frattempo giù sotto…
Intanto down under si forma Ivo Burum, croato di Ragusa trapiantato a Melbourne. Con la sua Burum Media, Ivo è stato il pioniere di una delle correnti principali del mojo, quella che parte dagli User Generated Content per fare storie, format e documentari. Una carriera folgorante la sua, dedicata, soprattutto alla didattica. Il professiore della Deakin University di Burwood, nello stato di Victoria, ha, infatti, messo su carta il più importante manuale di mobile journalism a livello mondiale o perlomeno il più diffuso, assieme al collega Stephen Quinn, ora professore alla Kristiania University College in Norvegia. Particolare la specializzazione di Quinn, nella quale ha potuto prendere a piene mani il vantaggio di essere un mojo: è un giornalista specializzato in.. vino, un ambasciatore della cultura enologica nel mondo, con seguitissime rubriche perfino su China Daily. Quinn è un prolifico divulgatore anche del mojo, come si può evincere dalla sua bio che puoi trovare qui. Su questa asse tra i due è nato questo: MOJO, The Mobile Journalism Handbook: How to Make Broadcast Videos with an iPhone or iPad.
In Asia c’è Yusuf Omar dell’Hindustan Times.
La storia del mobile journalism, quindi è recente ed è fatta di persone che, come disse Glen Mulcahy aprendo Mojocon nel 2015, “hanno voluto abbattere i confini” e creare un nuovo linguaggio giornalistico internazionale. Uno di quelli che ha spaccato tutto è Yusuf Omar, mobile editor dell’Hindustan Times. Pluripiemiato e pazzo scatenato, talmente matto da fare il suo primo reportage mojo andando a piedi da Durban a Damasco, Yusuf sta realizzando l’impresa di organizzare la più grande redazione mojo della terra. Si tratta di quella dell’Hindustan Times, dotata di 750 mojo che vanno in giro per la città a raccontare storie e a trovare notizie con la tecnica del Facebook Live, con i video a 360 gradi, con Snapchat e altre diavolerie del genere.
Oggi Yusuf Omar è un apprezzato speaker di questa disciplina, chiamato in tutto il mondo a tenere lezioni. Vive a Dehli, ma è nato a Londra e ha studiato in Sudafrica, facendo anche l’inviato di guerra e firmando diverse inchieste al limite o oltre il limite dei confini possibili. E’ uno che col solo smartphone addosso ha coperto live le proteste verso Zuma, i funerali di Mandela, la guerra in Siria, l’emergenza Ebola. Ha un’azienda che puoi trovare a questo sito. Non ci crederai, ma è un millennial, nato nel febbraio del 1989. Qui in Italia, i millennial come lui fanno la muffa non pagati in qualche redazione. Questa, tuttavia, è un’altra storia.
Ora ci sono paesi come il Marocco, la Tunisia, il Bostwana e tante altre economie in crescita che stanno investendo sul mojo. E in Italia? Buona parte della storia è ancora da scrivere.
Sono passati poco più di due giorni dalla notizia che puoi leggere in questo articolo del Wall Street Journal e ancora non noto sussulti italiani. Eppure dovrebbero essercene, perché l’annuncio rischia di ribaltare completamente il mercato del broadcast mondiale. Di cosa si tratta? Del fatto che il social network di Zuckerberg ha annunciato che presto rilascerà un’applicazione tv nella quale si potranno vedere i video dei propri amici, dei personaggi che si seguono e, insomma, tutto il flusso visuale che ora scorre nelle nostre timeline. Ci sarà piena integrazione con le smart tv e un flow di contenuti che ridefinirà il nostro uso della televisione, ma soprattutto il tuo e mio modo di fare giornalismo visuale o, perfino, comunicazione visuale. Da qualche tempo a questa parte l’ingresso di Facebook nel mondo del video è stato dirompente e, in questi giorni, si sta materializzando quello che potrebbe essere l’inizio della fine per la televisione come la intendiamo. Basta mettere vicino i fatti accaduti per capirlo.
In principio era una domandina
In principio quella domandina, “A cosa stai pensando?” era il mantra. Adesso è vecchissima, superata dalla filosofia di Zuck che vuole rendere sociale qualsiasi frame della vita dei 7 miliardi di umani sulla terra. Si sono susseguiti i video, la diretta, i flussi dei canali televisivi, ma, di recente è successo ben altro. 7
Sto parlando del rilascio di una versione di Messenger che prevede videomessaggi, della partenza dell’audio appena vi mettete a guardare in orizzontale i video, dell’acquisizione di formati video verticali e, soprattutto, dell’annuncio fatto martedì. Sto parlando di quello, appunto, del rilascio di una specifica applicazione Tv per convogliare sulle smart television che sono ormai alla portata di tutti, il fiume di frame che ci inonda ogni giorno.
Ormai la gran parte del mondo occidentale vede video molto più dal social che dalla televisione ed è per questo motivo che il prode Mark ha varato l’ingresso del suo gingillo d’oro, il quale peraltro è già il secondo distributore mondiale di video nel web dopo Google, nel mondo del broadcasting. Lo ha fatto, come al solito, rinnovando il mezzo di condivisione, ma aprendo anche alla possibilità, già dichiarata come passo successivo, di mettere le mani sugli “advertising dollars” delle TV.
Il mondo della TV dovrà cambiare
Il mondo della Tv, di conseguenza, dovrà cambiare, se non vuole rimanere inghiottito dal mostro Facebook. Si dovrà alleare, mandando flussi in diretta anche attraverso il social di Menlo Park. Già lo fa, ma c’è da scommetersi che FB, dopo aver pagato alcuni media in giro per il mondo per mandare in dirette facebook dei propri contenuti (fra questi Repubblica), metterà mano al portafoglio anche per portarsi in casa le major tv.
Se le tv non si muoveranno verso questo nuovo canale c’è da credere che la fine, per loro, si possa avvicinare, almeno per il modello mastodontico che hanno in quanto a business. Oltretutto le caratteristiche della App Tv andranno verso una capacità responsiva elevata creando una timeline visuale conformata secondo gli interessi dell’iscritto a Facebook che la voglia usare. C’è un’altra questione aperta
E il giornalismo a ruota, anzi prima…
Se la tv dovrà cambiare, medesima sorte tocca al giornalismo. Più in particolare modo parlo del giornalismo dei freelance o dei producer, insomma, dei mobile journalist. Facebook, infatti, promette di inserire nel feed di video i contenuti preferiti dall’utilizzatore. Fra questi avranno pieno diritto di cittadinanza anche quelli che il mobile journalist, il freelance producer, deciderà di pubblicare sui suoi canali. Non ho fonti certe in tale senso, ma non ti dico una baggianata se penso che Facebook, nelle sue mosse accessorie a questra rivoluzione, potrà mettere anche un sistema di monetizzazione dei video con delle revenue sharing sull’advertising.
Seguendo il ragionamento, quindi, spero che cominci a tornarti il conto di quanto sia importante crearsi un pubblico, sia per i prodotti che si desidera vendere, sia per la propria professionalità. Esso, infatti, rappresenta il potenziale bacino d’utenza attivo, “ingaggiato” e interessato a quanto si produce. Da quel pubblico si può ottenere autorevolezza ulteriore, ma anche confronto, notizie e, infine, soldi. Uno dei mezzi può essere anche questa nuova app di Facebook per la Tv, un passo del social di Menlo Park che rappresenta, sicuramente, l’inizio della fine del mondo del boradcasting come lo conosciamo.
Ehi, ti dico in un orecchio un’ultima cosetta. Esaminando alcuni strani movimenti di Facebook per un’inchiesta, mi sono imbattuto in una diretta della partita Real Madrid-Napoli di Champions League, completamente illegale. Ecco, questo apre un fronte: quello dei diritti televisivi. Visto dal mio modesto punto di osservazione penso che il passaggio di Facebook ad aggredire le Tv andrà a toccare anche quel tasto: come si gestiranno i diritti sugli eventi come le partite di calcio, le quali muovono miliardi in tutto il mondo? Credo che in qualche stanza dei bottoni di più di qualche tv siano sul preoccupato andante.