Studio da anni il mobile journalism e sono uno dei punti di riferimento della materia in ambito italiano e internazionale. In questa categoria del mio sito ci sono raccolti tutti gli spunti arrivati dalle mie esperienze, dai miei studi e dalla trasformazione della mia figura professionale. Ormai il mobile journalism è il giornalismo di oggi.
Mojofest ritorna anche nel 2020 e questa è una notizia. A Galway nel 2019 ci si era lasciati con un arrivederci che sembrava un addio, ma Glen Mulcahy e il suo team sono riusciti a fare un vero miracolo. In questo periodo molto difficile dal punto di vista economico hanno trovato una solida partnership con l’evento inglese Media Production and Technology Show e hanno incastonato Mojofest in questa manifestazione che rappresenta un eccellente punto di incontro per l’industria dei media in Inghilterra (e oltre). Andrà in scena il 13 e il 14 maggio 2020 all’Olympia Theatre con ingresso gratuito per la due giorni. La fiera, famosa come MPS nel territorio inglese, è organizzata dalla rivista Media Business Insights e conterrà anche il meglio della industria della mobile content creation che arriva da Mojofest. Questa confluenza è un evidente segnale che la storia sta per cambiare. Il motivo? Te lo spiego subito.
Mobile Content Creation e Broadcasting: alla pari.
La parte di Mojofest di questo evento avrà anche numerosi workshop a pagamento in un probabile terzo giorno di accesso alla venue dell’Olympia. Ah, a proposito: se volete il vostro ingresso registratevi qui. In gennaio Mulcahy e i suoi comunicheranno il calendario e si potrà acquistare il biglietto per i seminari sul sito di Mojofest. Mulcahy è riuscito nell’impresa storica di far valere il mojo e la sua community alla pari dell’industria della tv e di metterle insieme, sullo stesso piano. Londra, infatti, è un posto dove si sta sperimentando da tempo l’integrazione tra mobile journalism e broadcasting e l’evento di maggio sarà un acceleratore di questo processo di dialogo, finalmente alla pari.
Complimenti a Glen.
Glem Mulcahy, fondatore della comunità mondiale dei mojo, è stato magistrale nell’operazione di alleggerimento dei costi e di moltiplicazione delle opportunità. Davvero un’operazione fenomenale da parte di chi ha capito, così come è per Philippe Couve e per la sua La Vidéo Mobile, che se si voleva un futuro per la mobile content creation ci si doveva aprire all’innovazione nel mondo dei media. Già, perché in fondo, noi siamo quelli che stanno cambiando l’industria dei media. E se ne sono accorti in molti .
I miei contatti con il mondo accademico e con il mondo dell’Ordine dei Giornalisti si sono diradati.
Non sto qui a spiegarne le ragioni, anche perché non desidero proprio fare polemica. Tuttavia ti dico che ho visto di tutto. Ho visto soprattutto che ai giornalisti manca anche la più minima cognizione di quello che vuol dire l’espressione business model. Riflettendo proprio sui business model mi sono ricordato che ne avevo parlato molto tempo fa. Puoi vedere il mio articolo qui. Il presente, invece, mi porta a pensare che stiano aumentando le possibilità di crearsi in modo autonomo una carriera, ma non ci sono, sul mercato del lavoro giornalistico attori in grado di cogliere le occasioni.
I giornali sono morti che camminano.
Ho visto un’infografica di Prima Comunicazione che ha ben visualizzato il dramma nel quale versano i giornali italiani, in costante emorragia di copie. Questo è lo stato dell’arte e in fondo all’abisso ci sono i giornalisti, obbligati a diventare dei paria intoccabili pagati 5 euro a pezzo (se va bene) per fare i loro pezzi. Questa condizione li ha completamente bloccati nell’operazione di ridefinizione della carriera, degli strumenti, dei committenti e delle piattaforme dove poter fare il lavoro che amano. Come se non bastasse la tecnologia li ha completamente travolti lasciandoli prigionieri del romantico passato della loro processione. Buona ultima è arrivata l’accademia, la quale di business model manco si sogna di parlare. La tv, poi, arranca battendo la coda come un capitone in una pescheria, ricicciando le produzioni broadcast super costose dentro delle app che sono minestroni di contenuti.
Il business model, però, è necessario.
Ora le opportunità si stanno moltiplicando. Fioriscono le piattaforme di pubblicazione, con particolare riferimento all’audio e al podcasting. Diminuiscono i costi per poter fare in autonomia produzioni complicatissime (dirette multicamera, registrazioni multicamera, video in 4K), mutano i posti dove c’è esigenza di un giornalista (aziende, enti, istituzioni, personaggi pubblici e potrei stare qui a dirne ancora di più), cambiano le tipologie di prodotti, si creano le community gestite direttamente da giornalisti, ma anche i progetti di interazione (i vecchi eventi) nei quali un giornalista può essere serenamente quel tipo di racconto e di storytelling che crea un interesse per il quale il pubblico vuole pagare. Per sapere, per sentirsi parte di una community, per incidere. Per contare ancora qualcosa. Per sviluppare tutto questo il giornalista che si propone sul mercato ha bisogno di un business model. Analisi del mercato, analisi dei costi, portafogli di prodotti, format di prova, previsioni dei ricavi. Il business model, insomma è necessario…
Ma perché?
Il business model è come la strada del proprio percorso personale che non ti fa deflettere dall’obiettivo e non ti fa cedere a condizionamenti che arrivano dal passato. Se, banalmente, non lo usi, quel clientuccio che ti chiede un favore non ti pagherà quello che meriti e quello che può sostenere i tuoi costi e la tua vita. “Ma sì, dai, stai due minuti a scrivere questo testo”: questa è la classica frase trappola che se hai un business model davanti non riuscirai ad accettare. Perché davanti hai i numeri e quelli ti dicono chiaramente che, se accetti la 50 euro di straforo, lavori gratis. Ecco perché il business model serve… eccome se serve. Ti lascio con una domanda: non è che il fatto che non venga insegnato, percepito, ritenuto importante, è frutto di un piano preciso? Aspetto commenti….
Ho deciso di partire per Parigi con un iPhone SE e con Adobe Rush come filosofia di montaggio e come flusso. Ho raccolto sul campo moltissime informazioni su come un vecchio telefono si comporta con il mondo delle app più nuove e più performanti. L’iPhone SE lavora anche con le ultime suite di montaggio ed esegue le operazioni con una buona velocità, sebbene ormai lo schermo sia irrimediabilmente piccolo. Lo smartphone rallenta, è naturale, quando gli vengono chieste operazioni come l’esportazione o l’attacco al gps, due cose piuttosto faticose per qualsiasi telefono, puoi credere per il primo telefono della Apple con architettura a 64 bit.
L’iPhone SE stupisce
l’SE, sul campo, è spettacolare sull’immagine posata, ferma, sulla luce naturale, ma anche bassa. L’hardware è ancora molto efficiente, ma forse il meglio del telefono lo tira fuori il software. Per un vecchio come me è un problema montare su uno schermo così piccolo, ma bisogna dire che SE tiene e fa girare tutto, esegue tutte le operazioni e non si tira mai indietro. Pretendere che viva una giornata intera è follia, con le app di oggi non è possibile, quindi se ci lavori devi portarti batterie. La leggerezza, la velocità d’uso, la basicità delle possibilità operative (voci, immagini ferme, pochi svolazzi, molta sostanza) fa in modo che si possa incontrare un linguaggio mojo più semplice, ma ugualmente molto bello.
La questione dell’obsolescenza e il problema della connessione internet.
Molta parte del mondo della mobile content creation lavora su macchine come queste è forse è il caso di fare un appello a produttori di tenere conto che la loro maledetta obsolescenza programmata è un danno per la parte più grande dei creators di tutto il mondo. Ad ogni modo il mio iPhone SE ha retto tutti gli urti e mi ha fatto raccontare l’esperienza di questa prima visita a Satis in questo modo, direi, discreto. Adobe Rush ha fatto il resto, dandomi enormi potenzialità a livello di montaggio e di grafica, ma facendomi penare moltissimo dal punto di vista del cloud. Con la connessione internet che avevo a disposizione a Parigi non ho potuto terminare il video al pc. Volevo farlo per non spaccarmi gli occhi in quello schermino del mio iPhone SE. Invece nulla: ho finito sull’SE.
Torino mi ha regalato oggi la possibilità di sentire una conferenza di uno dei più grandi innovatori del mondo dei media.Sto parlando dell’italo-portoghese naturalizzato americano Francesco Paulo Marconi, fuoriclasse della ricerca nell’industria dell’informazione mondiale, ricercatore, studioso e dirigente di altissimo livello, ora a capo della Ricerca e Sviluppo del Wall Street Journal dopo aver ricoperto lo stesso ruolo alla Associated Press. Ti ho già parlato di lui qui, quando molto tempo fa evidenziavo il suo nome e la sua carriera mettendola nel novero degli eroi del nostro lavoro. Oggi l’ho sentito entrare nello specifico del lavoro che sta creando con il suo team al Wall Street Journal e l’ho visto all’opera mentre indicava la via del futuro.
Un mondo lontano da noi
Il mondo del giornalismo italiano è lontano anni luce dalla visione e dall’azione di Marconi e i suoi gesti e le sue parole me lo hanno confermato. Ho riscontrato anche una strepitosa distanza tra l’accademia italiana del giornalismo e della comunicazione e i temi con i quali Marconi lavora. Me lo hanno confermato alcune esperienze personali recenti e la precisione con cui Marconi si è diretto al cuore del problema che, nelle nostre italiche stanze dei bottoni, non sanno nemmeno dove stia di casa.
Di cosa sto parlando: del fatto che il futuro dei media, questa è la via di Marconi, si gioca nel misurare la distanza dell’uomo, del giornalista, con l’intelligenza artificiale. Più l’uomo sarà lontano dall’algoritmo, più l’uomo verrà sostituito dall’algoritmo che presenterà in automatico news responsive e create ad hoc per il mondo che l’utilizzatore finale ha bisogno di costruirsi attorno. Per questo, mentre lo sentivo, era uno solo il pensiero: Povera Italia del giornalismo…
La via di Marconi
Ecco su cosa si basa il futuro dei media per Francesco Paulo Marconi. La sua lezione è stata una visione, un volo sopra il panorama di quanto la AI possa intervenire, sia in positivo, sia in negativo, nel nostro mondo e in quello della comunicazione in particolare. Per affrontare il nostro rapporto con l’Intelligenza Artificiale dovremo essere istruiti sui suoi meccanismi in mondo profondo, per evitare di venire travolti dalle Deep Fake, vale a dire dalle fake news create dal computer e molto difficili da analizzare e da smascherare.
L’algoritmo più complesso.
L’Intelligenza artificiale, però, “resta uno strumento e i giornalisti non devono temere il cambiamento che questo strumento porterà – ha raccomandato Marconi durante la sua lectio magistrali – perché sartà difficilissimo sostituire le qualità emotive come l’istinto e l’empatia. L’Intelligenza Artificiale, però, non deve essere utilizzata come una macchina che sforna contenuti basati sulla responsività al lettore e basta.
La AI deve essere utilizzata come strumento per risolvere i problemi del produttore di contenuti, sostituendosi a esso solo per quei processi che sono time consuming e non nel processo creativo che dovrà essere governato dall’uomo che farà la storia con il coding invece che scrivendo. Un processo semplice che fa rima con un Umanesimo tecnologico del quale abbiamo molto bisogno. Non dimentichiamoci che l’algoritmo più complicato e inimitabile è e resta l’uomo”.
lol mobile journalism è morto, finalmente. Provocazione? Si, provocazione.
Tuttavia la frase non è lontana dalla realtà. Tutto sta per cambiare proprio a partire dal 2019 e a beneficiarne sarà ancora la mobile content creation. In questo articolo connetterò alcuni puntini di avvenimenti accaduti nelle ultime ore e sottometterò alla tua attenzione alcuni pensieri collegati agli ultimi fatti. Ecco il primo.
Sono stati presentati ieri e hanno ricevuto una valanga di critiche, basate sul sostanziale insuccesso delle prime due edizioni. Gli spectacles sono gli occhiali dotati di telecamera full hd che Snapchat considera come la testa di ponte di un mercato che sta per esplodere, ma non è ancora esploso. Creano video da 15 secondi e anche foto che, con un collegamento wifi, possono essere riversati nella app di Snapchat per essere utilizzati in modo diretto o esportati per essere utilizzati in altre situazioni.
Gli Spectacles, invece, sono il simbolo di un’evoluzione che sarà importantissima per quanto riguarda la mobile content creation che potrei ridefinire come wearable content creation. Questa terza edizione ha 2 camere hd, 4 microfoni, filtri in 3d ed effetti grafici con la realtà aumentata inseribili nei propri shot. Non si può dire che siano ancora un gadget, ma sono diventati una macchina di produzione di un linguaggio visivo che può scardinare ancora la grammatica visuale che conosciamo.
Smartphone? No, ponte.
Gli Spectacles sono uno dei tanti hardware che si collegano allo smartphone usandolo come destinazione del file semilavorato e luogo nel quale il file viene trasformato in un lavoro definitivo. Lo smartphone come lo conosciamo noi mobile content creators, quindi, è morto e sta per diventare il computer che esprime la sua potenza di calcolo per mettere insieme i contenuti prodotti con altre device. un ponte tra l’acquisizione di immagini e la pubblicazione.
State attenti al mercato degli wearable, perché sarà una guerra e si baserà molto sull’interazione con lo smartphone. Cito a memoria. La Microsoft con le Hololens, la Apple con i suoi glasses che sono in lavorazione, forse anche Google con il progetto Glasses che ha nel cassetto: tutti questi progetti sembrano essere ancora in pista e destinati certamente a influire sulla mobile content creation in ambito creativo e di giornalismo. Sta nascendo, infatti, il wearable journalism e ha un futuro e un profeta, Yusuf Omar.
Il wearable journalism.
La possibilità di filmare con telecamere attaccate al corpo, le quali riproducono la visualità dei nostri occhi, acquisendo un audio di qualità (veramente sono stupito da questo aspetto degli Spectacles) cambia tutto il mondo dei nostri video. Con editing lineare possiamo creare video che sono esperienze, possiamo guardare quello che guarda chi sta facendo il video e ci sta raccontando una storia.
Se guardate anche il prodotto di Trendloader capirete che si può perfino fare livestreaming da quel punto visuale e quindi ogni limite cade. Su Indiegogo già fioriscono prototipi di wearable camera e di altri tipi di dispositivi che si possono indossare, in un mercato molto vivo, ma anche molto pericoloso (molte le startup che propongono un hardware che poi non riescono a realizzare per difficoltà tecniche). Comunque è sicuro che il momento che stiamo vivendo è quello della nascita del wearable journalism e dell’arretramento dello smartphone al ruolo di computer.
Il profeta, Yusuf Omar.
Il mobile journalist visionario Yusuf Omar, co fondatore di Hashtag Our Stories, è il profeta del wearable journalism. Ci lavora da quando sono usciti gli Spectacles prima edizione e, ora che la sua start up è dentro la galassia Snapchat, ha cambiato il suo modo di fare video in senso totalmente wearable. Con i suoi shot racconta giornate normali e storie importanti, facendo vivere a chi guarda le sue stesse emozioni, quasi fisiche. Seguitelo con attenzione, sta dettando la linea del futuro del giornalismo trasformando ogni hardware nel messaggero di un nuovo linguaggio con cui costruire le storie per immagini.
La Opkix è una wearable camera con memoria da 4 giga che può essere vestita con diversi accessori, dall’anello alla collana, dal petto al cappello. Forse è questo il prodotto simbolo del “wejou” (possiamo chiamarlo così?) il quale ha altri modi per esprimersi come la Front Row Camera. Siamo solo agli inizi di questa disciplina, ma è già chiaro che la mobile content creation sta continuando a fare grandi passi avanti per cambiare costantemente il linguaggio del video e avvicinarlo alla cattura della realtà per come noi la vediamo. è il passo prima della realtà virtuale o aumentata, mondo nel quale verremo immersi presto. Sei pronto? Ti guido io.
A Mojofest è stato il giorno dei grandi panel, delle grandi scoperte e dell’italiano Angelo Chiacchio.
Ho spacciato pochi contenuti nella seconda giornata di Mojofest andata in scena il 7 giugno 2019. Duplice il motivo: l’evento ci ha regalato panel di rara importanza e ho impostato i progetti per il futuro, come succede ogni volta che vengo a Galway. Oggi è stato il giorno di grandi session come quella di Philip Bloom e di Philip Bromwell, ma anche il giorno in cui ho proprio scoperto Adobe Premiere Rush. E’ stato, tuttavia, anche il giorno nel quale è comparso sulla scena il giovane filmmaker Angelo Chiacchio, materano purosangue e realizzatore del documentario Ephemera, sul suo viaggio di oltre 300 giorni attorno al mondo per visitare le culture e i posti che sono a più alto rischio di sparizione.
A intimate quest for the most evanescent things on the planet, to tell about mankind relationship with the land with mobile and social visual stories.
Il mojo regala emozione e vita vera.
Angelo è un cittadino del mondo e di professione fa il designer digitale. Il progetto Ephemera. tuttavia, ha rivelato al mondo, almeno dalle poche immagini che ho visto, un vero fuoriclasse dell’immagine che ha lavorato con il mojo per saper cogliere emozioni e pezzi di vita che gli capitavano da vanti. La grande lezione di Angelo è quella della narrazione moderna, con qualsiasi strumento. E’ una lezione che fa rima con il centro della filosofia mojo, vale a dire la capacità, grazie alla tecnologia, di vivere davvero la storia che si racconta, peraltro senza mai rubarle la scena.