Categoria: Giornalismo

Studio da anni il mobile journalism e sono uno dei punti di riferimento della materia in ambito italiano e internazionale. In questa categoria del mio sito ci sono raccolti tutti gli spunti arrivati dalle mie esperienze, dai miei studi e dalla trasformazione della mia figura professionale. Ormai il mobile journalism è il giornalismo di oggi.

  • iPhone SE: lo smartphone vintage funziona

    iPhone SE: lo smartphone vintage funziona

    Esperienze sul campo a Parigi

    Ho deciso di partire per Parigi con un iPhone SE e con Adobe Rush come filosofia di montaggio e come flusso. Ho raccolto sul campo moltissime informazioni su come un vecchio telefono si comporta con il mondo delle app più nuove e più performanti. L’iPhone SE lavora anche con le ultime suite di montaggio ed esegue le operazioni con una buona velocità, sebbene ormai lo schermo sia irrimediabilmente piccolo. Lo smartphone rallenta, è naturale, quando gli vengono chieste operazioni come l’esportazione o l’attacco al gps, due cose piuttosto faticose per qualsiasi telefono, puoi credere per il primo telefono della Apple con architettura a 64 bit.

    L’iPhone SE stupisce

    l’SE, sul campo, è spettacolare sull’immagine posata, ferma, sulla luce naturale, ma anche bassa. L’hardware è ancora molto efficiente, ma forse il meglio del telefono lo tira fuori il software. Per un vecchio come me è un problema montare su uno schermo così piccolo, ma bisogna dire che SE tiene e fa girare tutto, esegue tutte le operazioni e non si tira mai indietro. Pretendere che viva una giornata intera è follia, con le app di oggi non è possibile, quindi se ci lavori devi portarti batterie. La leggerezza, la velocità d’uso, la basicità delle possibilità operative (voci, immagini ferme, pochi svolazzi, molta sostanza) fa in modo che si possa incontrare un linguaggio mojo più semplice, ma ugualmente molto bello.

    La questione dell’obsolescenza e il problema della connessione internet.

    Molta parte del mondo della mobile content creation lavora su macchine come queste è forse è il caso di fare un appello a produttori di tenere conto che la loro maledetta obsolescenza programmata è un danno per la parte più grande dei creators di tutto il mondo. Ad ogni modo il mio iPhone SE ha retto tutti gli urti e mi ha fatto raccontare l’esperienza di questa prima visita a Satis in questo modo, direi, discreto. Adobe Rush ha fatto il resto, dandomi enormi potenzialità a livello di montaggio e di grafica, ma facendomi penare moltissimo dal punto di vista del cloud. Con la connessione internet che avevo a disposizione a Parigi non ho potuto terminare il video al pc. Volevo farlo per non spaccarmi gli occhi in quello schermino del mio iPhone SE. Invece nulla: ho finito sull’SE.

  • Media: il futuro lo indica Francesco Marconi

    Media: il futuro lo indica Francesco Marconi

    I media hanno bisogno di un futuro diverso

    Torino mi ha regalato oggi la possibilità di sentire una conferenza di uno dei più grandi innovatori del mondo dei media.Sto parlando dell’italo-portoghese naturalizzato americano Francesco Paulo Marconi, fuoriclasse della ricerca nell’industria dell’informazione mondiale, ricercatore, studioso e dirigente di altissimo livello, ora a capo della Ricerca e Sviluppo del Wall Street Journal dopo aver ricoperto lo stesso ruolo alla Associated Press. Ti ho già parlato di lui qui, quando molto tempo fa evidenziavo il suo nome e la sua carriera mettendola nel novero degli eroi del nostro lavoro. Oggi l’ho sentito entrare nello specifico del lavoro che sta creando con il suo team al Wall Street Journal e l’ho visto all’opera mentre indicava la via del futuro.

    Un mondo lontano da noi

    Il mondo del giornalismo italiano è lontano anni luce dalla visione e dall’azione di Marconi e i suoi gesti e le sue parole me lo hanno confermato. Ho riscontrato anche una strepitosa distanza tra l’accademia italiana del giornalismo e della comunicazione e i temi con i quali Marconi lavora. Me lo hanno confermato alcune esperienze personali recenti e la precisione con cui Marconi si è diretto al cuore del problema che, nelle nostre italiche stanze dei bottoni, non sanno nemmeno dove stia di casa.

    Di cosa sto parlando: del fatto che il futuro dei media, questa è la via di Marconi, si gioca nel misurare la distanza dell’uomo, del giornalista, con l’intelligenza artificiale. Più l’uomo sarà lontano dall’algoritmo, più l’uomo verrà sostituito dall’algoritmo che presenterà in automatico news responsive e create ad hoc per il mondo che l’utilizzatore finale ha bisogno di costruirsi attorno. Per questo, mentre lo sentivo, era uno solo il pensiero: Povera Italia del giornalismo…

    La via di Marconi

    Ecco su cosa si basa il futuro dei media per Francesco Paulo Marconi. La sua lezione è stata una visione, un volo sopra il panorama di quanto la AI possa intervenire, sia in positivo, sia in negativo, nel nostro mondo e in quello della comunicazione in particolare. Per affrontare il nostro rapporto con l’Intelligenza Artificiale dovremo essere istruiti sui suoi meccanismi in mondo profondo, per evitare di venire travolti dalle Deep Fake, vale a dire dalle fake news create dal computer e molto difficili da analizzare e da smascherare.

    L’algoritmo più complesso.

    L’Intelligenza artificiale, però, “resta uno strumento e i giornalisti non devono temere il cambiamento che questo strumento porterà – ha raccomandato Marconi durante la sua lectio magistrali – perché sartà difficilissimo sostituire le qualità emotive come l’istinto e l’empatia. L’Intelligenza Artificiale, però, non deve essere utilizzata come una macchina che sforna contenuti basati sulla responsività al lettore e basta.

    La AI deve essere utilizzata come strumento per risolvere i problemi del produttore di contenuti, sostituendosi a esso solo per quei processi che sono time consuming e non nel processo creativo che dovrà essere governato dall’uomo che farà la storia con il coding invece che scrivendo. Un processo semplice che fa rima con un Umanesimo tecnologico del quale abbiamo molto bisogno. Non dimentichiamoci che l’algoritmo più complicato e inimitabile è e resta l’uomo”.

  • Mobile journalism? Morto. Ecco il wearable journalism.

    Mobile journalism? Morto. Ecco il wearable journalism.

    lol mobile journalism è morto, finalmente. Provocazione? Si, provocazione.

    Tuttavia la frase non è lontana dalla realtà. Tutto sta per cambiare proprio a partire dal 2019 e a beneficiarne sarà ancora la mobile content creation. In questo articolo connetterò alcuni puntini di avvenimenti accaduti nelle ultime ore e sottometterò alla tua attenzione alcuni pensieri collegati agli ultimi fatti. Ecco il primo.

    Gli Spectatles 3

    Sono stati presentati ieri e hanno ricevuto una valanga di critiche, basate sul sostanziale insuccesso delle prime due edizioni. Gli spectacles sono gli occhiali dotati di telecamera full hd che Snapchat considera come la testa di ponte di un mercato che sta per esplodere, ma non è ancora esploso. Creano video da 15 secondi e anche foto che, con un collegamento wifi, possono essere riversati nella app di Snapchat per essere utilizzati in modo diretto o esportati per essere utilizzati in altre situazioni.

    Gli Spectacles, invece, sono il simbolo di un’evoluzione che sarà importantissima per quanto riguarda la mobile content creation che potrei ridefinire come wearable content creation. Questa terza edizione ha 2 camere hd, 4 microfoni, filtri in 3d ed effetti grafici con la realtà aumentata inseribili nei propri shot. Non si può dire che siano ancora un gadget, ma sono diventati una macchina di produzione di un linguaggio visivo che può scardinare ancora la grammatica visuale che conosciamo.

    Smartphone? No, ponte.

    Gli Spectacles sono uno dei tanti hardware che si collegano allo smartphone usandolo come destinazione del file semilavorato e luogo nel quale il file viene trasformato in un lavoro definitivo. Lo smartphone come lo conosciamo noi mobile content creators, quindi, è morto e sta per diventare il computer che esprime la sua potenza di calcolo per mettere insieme i contenuti prodotti con altre device. un ponte tra l’acquisizione di immagini e la pubblicazione.

    State attenti al mercato degli wearable, perché sarà una guerra e si baserà molto sull’interazione con lo smartphone. Cito a memoria. La Microsoft con le Hololens, la Apple con i suoi glasses che sono in lavorazione, forse anche Google con il progetto Glasses che ha nel cassetto: tutti questi progetti sembrano essere ancora in pista e destinati certamente a influire sulla mobile content creation in ambito creativo e di giornalismo. Sta nascendo, infatti, il wearable journalism e ha un futuro e un profeta, Yusuf Omar.

    Il wearable journalism.

    La possibilità di filmare con telecamere attaccate al corpo, le quali riproducono la visualità dei nostri occhi, acquisendo un audio di qualità (veramente sono stupito da questo aspetto degli Spectacles) cambia tutto il mondo dei nostri video. Con editing lineare possiamo creare video che sono esperienze, possiamo guardare quello che guarda chi sta facendo il video e ci sta raccontando una storia.

    Se guardate anche il prodotto di Trendloader capirete che si può perfino fare livestreaming da quel punto visuale e quindi ogni limite cade. Su Indiegogo già fioriscono prototipi di wearable camera e di altri tipi di dispositivi che si possono indossare, in un mercato molto vivo, ma anche molto pericoloso (molte le startup che propongono un hardware che poi non riescono a realizzare per difficoltà tecniche). Comunque è sicuro che il momento che stiamo vivendo è quello della nascita del wearable journalism e dell’arretramento dello smartphone al ruolo di computer.

    Il profeta, Yusuf Omar.

    Il mobile journalist visionario Yusuf Omar, co fondatore di Hashtag Our Stories, è il profeta del wearable journalism. Ci lavora da quando sono usciti gli Spectacles prima edizione e, ora che la sua start up è dentro la galassia Snapchat, ha cambiato il suo modo di fare video in senso totalmente wearable. Con i suoi shot racconta giornate normali e storie importanti, facendo vivere a chi guarda le sue stesse emozioni, quasi fisiche. Seguitelo con attenzione, sta dettando la linea del futuro del giornalismo trasformando ogni hardware nel messaggero di un nuovo linguaggio con cui costruire le storie per immagini.

    Ho scoperto la Opkix e altre storie.

    La Opkix è una wearable camera con memoria da 4 giga che può essere vestita con diversi accessori, dall’anello alla collana, dal petto al cappello. Forse è questo il prodotto simbolo del “wejou” (possiamo chiamarlo così?) il quale ha altri modi per esprimersi come la Front Row Camera. Siamo solo agli inizi di questa disciplina, ma è già chiaro che la mobile content creation sta continuando a fare grandi passi avanti per cambiare costantemente il linguaggio del video e avvicinarlo alla cattura della realtà per come noi la vediamo. è il passo prima della realtà virtuale o aumentata, mondo nel quale verremo immersi presto. Sei pronto? Ti guido io.

    Foto di copertina di Pixabay

  • Mojofest Day 2: il genio italiano di Ephemera Documentary

    Mojofest Day 2: il genio italiano di Ephemera Documentary

    A Mojofest è stato il giorno dei grandi panel, delle grandi scoperte e dell’italiano Angelo Chiacchio.

    Ho spacciato pochi contenuti nella seconda giornata di Mojofest andata in scena il 7 giugno 2019. Duplice il motivo: l’evento ci ha regalato panel di rara importanza e ho impostato i progetti per il futuro, come succede ogni volta che vengo a Galway. Oggi è stato il giorno di grandi session come quella di Philip Bloom e di Philip Bromwell, ma anche il giorno in cui ho proprio scoperto Adobe Premiere Rush. E’ stato, tuttavia, anche il giorno nel quale è comparso sulla scena il giovane filmmaker Angelo Chiacchio, materano purosangue e realizzatore del documentario Ephemera, sul suo viaggio di oltre 300 giorni attorno al mondo per visitare le culture e i posti che sono a più alto rischio di sparizione.

    EPHEMERA – A mobile documentary about a disappearing world

    A intimate quest for the most evanescent things on the planet, to tell about mankind relationship with the land with mobile and social visual stories.

    Il mojo regala emozione e vita vera.

    Angelo è un cittadino del mondo e di professione fa il designer digitale. Il progetto Ephemera. tuttavia, ha rivelato al mondo, almeno dalle poche immagini che ho visto, un vero fuoriclasse dell’immagine che ha lavorato con il mojo per saper cogliere emozioni e pezzi di vita che gli capitavano da vanti. La grande lezione di Angelo è quella della narrazione moderna, con qualsiasi strumento. E’ una lezione che fa rima con il centro della filosofia mojo, vale a dire la capacità, grazie alla tecnologia, di vivere davvero la storia che si racconta, peraltro senza mai rubarle la scena.

    L’intervista con Angelo Chiacchio
  • Il mobile journalism è morto

    Il mobile journalism è morto

    Mi chiedono spesso di raccontare cos’è il mobile journalism. Bene: ora posso dire cos’era il mobile journalism. Già, hai letto bene: ho scritto cos’era.

    Il mobile journalism era questo: era quella cultura professionale che interpretava la produzione di contenuti multimediali di carattere editoriale per il giornalismo o la comunicazione corporate realizzati con il solo ausilio di apparecchiature di produzione, lavorazione e codificazione rappresentate dallo smartphone o dagli strumenti di ripresa e produzione che possono avere con lo stesso interazione diretta via plug and play o tramite collegamento bluetooth o wi-fi. Il tutto al fine di poter realizzare contenuti dallo storytelling unico (anche immersivo) e di poter procedere alla consegna o alla pubblicazione diretta in mobilità totale. L’esperienza di creazione del risultato finale si intende vissuta su apparecchi mobili per facilitare il processo di trasformazione dei linguaggi giornalistici ed editoriali multimediali al fine di risultare efficaci per una fruizione del contenuto da schermi mobili.

    Provocazione? Sì, provocazione, ma non troppo. Il mobile journalism e la mobile content creation, in 12 anni di storia (i primi vagiti del movimento iniziarono a Londra nel 2007) sono diventati grandi. Dai primi esperimenti del mojo lab della Reuters fino a oggi, la qualità, la tecnologia, il linguaggio e la diffusione di questa cultura, hanno creato un fenomeno mondiale.

    Contro le resistenze e contro il potere delle antenne satellitari e della tv broadcasting, il mobile journalism ha iniziato a “infettare” i processi produttivi di ogni redazione ai quattro angoli del pianeta, con delle punte di eccellenza dall’Irlanda all’India, dalla Svezia all’Australia. Le app, i supporti, i microfoni, le lenti, gli smartphone (sempre più potenti e dotati “fotograficamente”) hanno poi fatto il resto, creando un’ecosistema nel quale il mojo è il linguaggio di produzione delle storie e delle news che poi viaggiano sul web e arrivano alle nostre device mobili.

    Lo smartphone al centro del mondo.

    Il mondo è quindi diventato un posto che si informa, si lega, si fidanza, si sposa, si separa, nasce (e qualche volta si uccide) attraverso lo smartphone. Ora il telefonino è la porta attraverso la quale guardiamo il mondo. Per questo motivo penso sia ora, per il mobile journalism come tecnica e come corrente professionale, di andare in pensione. Già, il mobile journalism è morto, perché questa cultura che ha al centro lo smartphone e si esprime nei più svariati campi (il pluripremiato regista Steven Soderbergh ha già licenziato 2 film fatti con gli iPhone) si è smarcata dalle redazioni e dalla community dei nerd della materia.

    Il mindset che cambia le cose.

    Ormai essere mojo è un mindset che abbraccia molti prodotti della creazione e che rappresenta la radice del cambiamento del mondo dei media. La dittatura della televisione sta finendo e con lei quella delle telecamere. Sta iniziando l’era del video preso dalla realtà anche per il racconto di una notizia, di una storia, di un prodotto, di un servizio. La realtà entra più facilmente attraverso lo smartphone con il quale si spacca la barriera dell’hardware che intimidisce per entrare più vicino alle storie. Molto più vicino. Se contiamo che sta nascendo anche una generazione di piccoli microfoni senza fili, beh, la nuova grammatica del video (che è la nostra nuova lettera scritta) diventa realtà.

    Un nuovo strumento di scrittura

    “Lo smartphone è la nostra penna”, mi ha riferito durante un viaggio di studio a Londra Hosam El Nagar, direttore dell’innovazione di Thomson Foundation, una delle istituzioni che più si impegna nel diffondere il mobile journalism. “E’ la penna del nostro tempo e noi dobbiamo saper scrivere bene con questa penna – ha continuato – Il mobile journalism, quindi, è la cultura che ci serve per scrivere, per fare bene il racconto visuale di quello che ci circonda. Già, perché ormai vogliamo farlo tutti. Ormai fare video non è solo per giornalisti. E’ per tutti”. Ecco perché il mobile journalism è morto, perché in questo mondo ci sono 3 miliardi di potenziali mojoer che vogliono raccontare una storia. Qualunque essa sia.

    Il giornalismo: un mondo arretrato in una crisi profonda.

    L’espressione mobile content creation giustifica meglio l’importanza di questa cultura. Per tutti, non solo per i media. Ci sono app per filmare, app per montare, app per fare grafiche e animazioni, programi che possono lavorare in cloud, microfoni e lenti professionali: c’è tutto il materiale necessario per fare qualsiasi cosa con lo smartphone. Qualsiasi cosa. Dall’inizio… alla pubblicazione.

    Diventa automatico pensare che il problema del mobile journalism sia continuare a far giri attorno al… journalism, anche perché io per primo, nel mio progetto di divulgazione di questa cultura, sto saggiando tutti i giorni le difficoltà del cambiare dall’interno un mondo arretrato e in crisi profonda come quello del giornalismo.

    Ben inteso: critico questo mondo, ma non ho alcuna intenzione di uscire dal giornalismo. Lo voglio cambiare e non avrò requie fino a quando non lo avrò fatto.

    Un nuovo linguaggio per cambiare.

    La mobile content creation è l’apertura di inquadratura del mobile journalism che non può continuare a evitare il confronto con il cambiamento dei media. La mobile content creation è lo strumento del cambiamento dei media, ma attorno allo smartphone (finalmente) si sta sviluppando una vera e propria mobile media economy. In questa epoca, infatti, assistiamo a una grave crisi del giornalismo (in generale, ma italiano in particolare), ma anche al fiorire di una serie di possibilità tecniche per realizzare contenuti che mai avremmo pensato di poter toccare con le mani.

    Ogni giornalista può sviluppare il suo business proprio grazie al mojo.

    Ogni giornalista o comunicatore può essere producer di con tenuti di livello professionale con un equipaggiamento sotto i 1000 euro e delle app che costano poche decine di euro. E quindi? E quindi nessuno le usa… perché non si conoscono le potenzialità di quell’aggeggio che abbiamo in tasca. Bisogna, invece, pensare che ci sono una serie di strumenti, oltre a quelli di produzione, che permettono di creare valore economico dal proprio lavoro.

    Anche nei media lo smartphone è al centro e sta facendo nascere qualcosa di nuovo.

    Quando parlo di strumenti di lavoro e di creazione di ricchezza per i produttori di contenuti parlo di marketplace, di lavoro richiesto ed eseguito da remoto, di produzioni creative sponsorizzate, di microcrowdfunding, di progetti editoriali creati autonomamente, di piattaforme di vendita diretta dei contenuti, ma anche di nuovi modelli di business.

    Già, se lo smartphone è il nostro mezzo di informazione principale allora vale la pena di pensare che si è già creato un mondo di media business (non solo rappresentato dai big della tecnologia) che ruota attorno al telefono, come punto di partenza e di arrivo del percorso della news. Non sto parlando di citizen journalism o di social, di influencer o di yotuber, sto parlando di tutta quella generazione di nuove app e di nuovi centri di informazione che stanno dando valore ai propri lettori, alle proprie comunità, ai propri “member” con un’interazione diretta e biunivoca. La quale ruota attorno allo smartphone.

    Le nuove esperienze editoriali

    Le esperienze sono molte: Quartz, The Skimm, Tortoise. Segnati questi nomi (e per il resto segui il mio lavoro perché sarà basato su questi argomenti per molto tempo). Vuoi sapere cosa sono? Sono delle newsroom che hanno sviluppato app così avveniristiche da rappresentare un valore importante che arriva giornalmente negli smartphone di chi si abbona.

    Hanno sviluppato interazioni con una vera community di riferimento che si sivluppa in un circolo virtuoso di informazioni, di cultura e di visione del mondo, con lo smartphone al centro. Ricevendo il prodotto giornalistico e contribuendo al prodotto giornalistico, il lettore-attore di questo nuovo modo di fare i media si trova dentro un ecosistema nel quale conta. Conta la sua voce, conta quello che sceglie e che riceve nel telefono, ma anche quello che dice ai suoi media che hanno veri e propri canali dedicati di conversazione con il “member”. Per questo vuole pagare.

    Mobile media economy.

    Sta nascendo una mobile media economy che dà valore economico alla conversazione e che rende attivo, finalmente, il lettore-attore delle news. E’ finito il mondo dei media che ci rendono passivi o limitati a qualche like o commento. E’ iniziato il mondo del lettore interattivo nel processo di produzione della notizia e della fruizione. E tutto questo è mobile.

    Nei media italiani non si vede l’ombra di tutto questo rinnovamento e ci si ostina a considerare mobile un quotidiano online che si riesce a leggere da smartphone. Anche il mio blog si legge benissimo da smartphone, ma è tutto fuorché nuovo. Viviamo in un paese i cui media sono in uno stato di arretratezza culturale tale da far dubitare che ne possano mai uscire, ma abbiamo anche un mare di telefonini a disposizione e un terreno su cui potremmo far crescere una nuova mobile media economy. Insomma, il mobile journalism con le sue piccole o grandi comunità, vive un momento adolescenziale, un momento in cui non sa cosa farà da grande.

    Potrebbe anche morire senza lasciare traccia.

    L’unica strada ragionevole è il percorso che parte dall’uso professionale dello smartphone per produrre contenuti, allo sviluppo di progetti personali e professionali attinenti a questo linguaggio, fino alla produzione di nuovi media “mobile” che riano reale valore ai loro lettori-membri. Tra l’altro cerchiamo di tener conto anche di questo: lo smartphone è alla fine dei suoi giorni. Sarà meglio cominciare la rivoluzione nell’uso del mobile, prima che ci sparisca da sotto al naso, sostituito da chissà quale diavoleria da indossare.

    Un appello

    Concludo con un appello: vedo la community nazionale e internazionale attraversata da difficoltà di rapporti, da prevalere di interessi personali. Per parte mia non parteciperò a questo giochino di chi si assume la paternità del mobile journalism o di chi crede di avere la verità in tasca. Continuerò a essere in contatto con tutti coloro che vorranno avere un’interazione con me e una visione coerente e consistente sul cambiamento del mondo del giornalismo.

    Se vogliamo continuare a considerare il mobile journalism come una soluzione B, come un giochino o come una soluzione che costa meno, possiamo farlo. Possiamo anche dire che il mobile journalism è filmare con lo smartphone e montare con final cut. Possiamo anche ossequiare questo o quel produttore di smartphone o quel produttore di app o di hardware. Perderemo la possibilità di continuare a mettere insieme i pezzi di questa cultura di cambiamento del giornalismo. Io non ci sto e vado avanti. Voglio modificare linguaggi, posti, strumenti e meccanismi della mia professione. E tu?

    Ci stai?

    P. Grazie a Nick Garnett per aver scritto per primo della morte del mojo. Lui aveva ragione e io torto.

  • Mobile journalism? Facciamo media innovation

    Mobile journalism? Facciamo media innovation

    Media innovation. Questa espressione mi frulla in testa da quando sono tornato da Parigi.

    La crescita della community e della cultura del mobile journalism e della mobile content creation deve passare da una nuova dimensione. La dimensione della media innovation. La materia sulla quale mi sono messo a lavorare è viva ed è il sangue che corre nelle vene dell’innovazione nel mondo dei media. L’interazione tra i media e i lettori, o gli spettatori, è cambiata e se cerchi bene l’oggetto che l’ha fatta cambiare, scopri facilmente che è lo smartphone. E quindi? Quindi la mobile content creation è il linguaggio con cui si creano i contenuti per il nuovo ecosistema dei media con il quale facciamo i conti tutti i giorni. Il mojo, per farla breve, è quel settore del giornalismo e della produzione che sta rinnovando il mondo dei media. Per questo la nostra, la mia, la tua dimensione mojo deve essere aumentata fino ad assumere un’altra fisionomia. Insomma, è il momento di fare media innovation.

    Stiamo guidando verso il futuro o stiamo guidando il futuro?

    Allora, telefono in mano, stiamo reinventando il futuro del giornalismo e dei media e stiamo solo aspettando che l’era della televisione dia gli ultimi colpi di coda. Il mojo, la mobile content creation, sono gli elementi che guidano il futuro dello sviluppo del mondo dei media. Con un telefonino in mano si può creare un intero modello di business profittevole e scalabile di un medium di nuova generazione. Sto studiando ormai da tempo le dinamiche di sviluppo della carriera grazie allo smartphone e alle tecniche della mobile content creation. La produzione di contenuti mojo libera interazioni con piattaforme sociali, marketplace, servizi di creazione di media e quanto altro è necessario per sviluppare nuovi prodotti e nuovi servizi nel mondo della comunicazione. E nuovi media.

    Il faro Yusuf: il miglior giornalista del mondo.

    Faccio solo un paio di considerazioni su questo ragionamento a rafforzamento del concetto che il mobile journalism è la casa del rinnovamento dei media in generale. Sto seguendo da un paio di settimane il corso gratuito di mobile journalism tenuto da Yusuf Omar, il media innovator che rappresenta un punto di riferimento nel panorama dei nuovi linguaggi mondiali della produzione di format innovativi (e anche di business, sebbene ci sia un distinguo da fare). Nel corso che tiene in questo momento online e che puoi trovare qui, per il Knight Center della University of Texas, sta mostrando coi fatti di essere il giornalista che, in questo momento, detta i tempi e i temi del futuro. Non ci credi? Libero di farlo. Io però una guardata la darei.

    Spiego il motivo per cui ho sparato questa sentenza. Le modalità di ricerca, sviluppo, creatività, produzione, post-produzione e pubblicazione del suo format, Hashtag our Stories, sono completamente diverse da qualsiasi linguaggio passato. La sua penetrazione nei confronti dei nuovi settori del pubblico (quelli che non leggono il giornale e quelli che non hanno la tv) è sorprendente. Il rispetto dei canoni irrinunciabili del giornalismo, però, è totale.

    Resta da costruire la profittabilità del business.

    Il distinguo di cui ti ho parlato poco sopra, per l’iniziativa dell’amico Yusuf, è la scalabilità del business e la distribuzione della ricchezza creata dal valore aggiunto del suo incredibile format liquido che è in uno, nessuno, centomila luoghi. Da quello che ho potuto comprendere HOS è sostenuto da dinamiche indirette (Yusuf si finanzia coi corsi) o da istituzioni che donano. Però, se ci pensi, comincia ad indicare una via per il rinnovamento del mercato dei media che è una strada maestra se si vuole avere un futuro. Hai qualche idea di cosa si tratti? Si tratta di questo: il giornalismo è una conversazione. Qualcosa si fa più chiaro? Vado ancora più nello specifico perchè forse è il caso di dirti proprio in modo esplicito su cosa si sta costruendo una nuova maniera di fare il giornalismo e i media. Una cosetta da niente, una cosetta della quale i media italiani non sanno niente.

    Il valore economico della conversazione.

    Ora, purtoppo, viviamo in un mondo che continua a buttare sul mercato media replicanti il modello, visto, rivisto e stravisto, di una produzione offerta, al massimo customizzabile, di un medium creato in un luogo di realizzazione, una redazione, e consegnato al mercato su varie piattaforme. In questi giorni, invece, ho conosciuto modelli di media che stanno sviluppando due concetti che sono facilmente realizzabili con lo smartphone. Come prima cosa creano una community con l’obiettivo di servirla. Il secondo obiettivo, invece, è di creare una specie di generazione controllata dagli utenti degli argomenti dei quali si vuole che il nuovo medium parli o approfondisca.

    Il caso Tortoise

    Un esempio su tutti? Lo sconvolgente caso di Tortoise, la newsroom inglese che ha inventato un modo nuovo di fare informazione. Questo mezzo di comunicazione è un ponte che fa conversare lettori e produttori delle notizie in un flusso continuo di informazione, stravolgendo completamente il ruolo, sommariamente passivo, dei lettori-spettatori dei media conosciuti fino a questo momento. Viene chiara, quindi, l’idea che nel nuovo mondo dei media si vuole dare valore economico alla conversazione. Ed evidentemente ci si riesce. Chi non vorrebbe leggere un giornale che parla delle cose che gli stanno veramente a cuore? Ultima nota: Tortoise ha rallentato il ritmo delle notizie per darle verificate, approfondite, scritte bene. Solo per questo sono dei geni, ma anche per molto molto altro. Cominciamo a fare media innovation imparando? Sarà il caso.