Categoria: Giornalismo

Studio da anni il mobile journalism e sono uno dei punti di riferimento della materia in ambito italiano e internazionale. In questa categoria del mio sito ci sono raccolti tutti gli spunti arrivati dalle mie esperienze, dai miei studi e dalla trasformazione della mia figura professionale. Ormai il mobile journalism è il giornalismo di oggi.

  • Il mobile journalism è morto

    Il mobile journalism è morto

    Mi chiedono spesso di raccontare cos’è il mobile journalism. Bene: ora posso dire cos’era il mobile journalism. Già, hai letto bene: ho scritto cos’era.

    Il mobile journalism era questo: era quella cultura professionale che interpretava la produzione di contenuti multimediali di carattere editoriale per il giornalismo o la comunicazione corporate realizzati con il solo ausilio di apparecchiature di produzione, lavorazione e codificazione rappresentate dallo smartphone o dagli strumenti di ripresa e produzione che possono avere con lo stesso interazione diretta via plug and play o tramite collegamento bluetooth o wi-fi. Il tutto al fine di poter realizzare contenuti dallo storytelling unico (anche immersivo) e di poter procedere alla consegna o alla pubblicazione diretta in mobilità totale. L’esperienza di creazione del risultato finale si intende vissuta su apparecchi mobili per facilitare il processo di trasformazione dei linguaggi giornalistici ed editoriali multimediali al fine di risultare efficaci per una fruizione del contenuto da schermi mobili.

    Provocazione? Sì, provocazione, ma non troppo. Il mobile journalism e la mobile content creation, in 12 anni di storia (i primi vagiti del movimento iniziarono a Londra nel 2007) sono diventati grandi. Dai primi esperimenti del mojo lab della Reuters fino a oggi, la qualità, la tecnologia, il linguaggio e la diffusione di questa cultura, hanno creato un fenomeno mondiale.

    Contro le resistenze e contro il potere delle antenne satellitari e della tv broadcasting, il mobile journalism ha iniziato a “infettare” i processi produttivi di ogni redazione ai quattro angoli del pianeta, con delle punte di eccellenza dall’Irlanda all’India, dalla Svezia all’Australia. Le app, i supporti, i microfoni, le lenti, gli smartphone (sempre più potenti e dotati “fotograficamente”) hanno poi fatto il resto, creando un’ecosistema nel quale il mojo è il linguaggio di produzione delle storie e delle news che poi viaggiano sul web e arrivano alle nostre device mobili.

    Lo smartphone al centro del mondo.

    Il mondo è quindi diventato un posto che si informa, si lega, si fidanza, si sposa, si separa, nasce (e qualche volta si uccide) attraverso lo smartphone. Ora il telefonino è la porta attraverso la quale guardiamo il mondo. Per questo motivo penso sia ora, per il mobile journalism come tecnica e come corrente professionale, di andare in pensione. Già, il mobile journalism è morto, perché questa cultura che ha al centro lo smartphone e si esprime nei più svariati campi (il pluripremiato regista Steven Soderbergh ha già licenziato 2 film fatti con gli iPhone) si è smarcata dalle redazioni e dalla community dei nerd della materia.

    Il mindset che cambia le cose.

    Ormai essere mojo è un mindset che abbraccia molti prodotti della creazione e che rappresenta la radice del cambiamento del mondo dei media. La dittatura della televisione sta finendo e con lei quella delle telecamere. Sta iniziando l’era del video preso dalla realtà anche per il racconto di una notizia, di una storia, di un prodotto, di un servizio. La realtà entra più facilmente attraverso lo smartphone con il quale si spacca la barriera dell’hardware che intimidisce per entrare più vicino alle storie. Molto più vicino. Se contiamo che sta nascendo anche una generazione di piccoli microfoni senza fili, beh, la nuova grammatica del video (che è la nostra nuova lettera scritta) diventa realtà.

    Un nuovo strumento di scrittura

    “Lo smartphone è la nostra penna”, mi ha riferito durante un viaggio di studio a Londra Hosam El Nagar, direttore dell’innovazione di Thomson Foundation, una delle istituzioni che più si impegna nel diffondere il mobile journalism. “E’ la penna del nostro tempo e noi dobbiamo saper scrivere bene con questa penna – ha continuato – Il mobile journalism, quindi, è la cultura che ci serve per scrivere, per fare bene il racconto visuale di quello che ci circonda. Già, perché ormai vogliamo farlo tutti. Ormai fare video non è solo per giornalisti. E’ per tutti”. Ecco perché il mobile journalism è morto, perché in questo mondo ci sono 3 miliardi di potenziali mojoer che vogliono raccontare una storia. Qualunque essa sia.

    Il giornalismo: un mondo arretrato in una crisi profonda.

    L’espressione mobile content creation giustifica meglio l’importanza di questa cultura. Per tutti, non solo per i media. Ci sono app per filmare, app per montare, app per fare grafiche e animazioni, programi che possono lavorare in cloud, microfoni e lenti professionali: c’è tutto il materiale necessario per fare qualsiasi cosa con lo smartphone. Qualsiasi cosa. Dall’inizio… alla pubblicazione.

    Diventa automatico pensare che il problema del mobile journalism sia continuare a far giri attorno al… journalism, anche perché io per primo, nel mio progetto di divulgazione di questa cultura, sto saggiando tutti i giorni le difficoltà del cambiare dall’interno un mondo arretrato e in crisi profonda come quello del giornalismo.

    Ben inteso: critico questo mondo, ma non ho alcuna intenzione di uscire dal giornalismo. Lo voglio cambiare e non avrò requie fino a quando non lo avrò fatto.

    Un nuovo linguaggio per cambiare.

    La mobile content creation è l’apertura di inquadratura del mobile journalism che non può continuare a evitare il confronto con il cambiamento dei media. La mobile content creation è lo strumento del cambiamento dei media, ma attorno allo smartphone (finalmente) si sta sviluppando una vera e propria mobile media economy. In questa epoca, infatti, assistiamo a una grave crisi del giornalismo (in generale, ma italiano in particolare), ma anche al fiorire di una serie di possibilità tecniche per realizzare contenuti che mai avremmo pensato di poter toccare con le mani.

    Ogni giornalista può sviluppare il suo business proprio grazie al mojo.

    Ogni giornalista o comunicatore può essere producer di con tenuti di livello professionale con un equipaggiamento sotto i 1000 euro e delle app che costano poche decine di euro. E quindi? E quindi nessuno le usa… perché non si conoscono le potenzialità di quell’aggeggio che abbiamo in tasca. Bisogna, invece, pensare che ci sono una serie di strumenti, oltre a quelli di produzione, che permettono di creare valore economico dal proprio lavoro.

    Anche nei media lo smartphone è al centro e sta facendo nascere qualcosa di nuovo.

    Quando parlo di strumenti di lavoro e di creazione di ricchezza per i produttori di contenuti parlo di marketplace, di lavoro richiesto ed eseguito da remoto, di produzioni creative sponsorizzate, di microcrowdfunding, di progetti editoriali creati autonomamente, di piattaforme di vendita diretta dei contenuti, ma anche di nuovi modelli di business.

    Già, se lo smartphone è il nostro mezzo di informazione principale allora vale la pena di pensare che si è già creato un mondo di media business (non solo rappresentato dai big della tecnologia) che ruota attorno al telefono, come punto di partenza e di arrivo del percorso della news. Non sto parlando di citizen journalism o di social, di influencer o di yotuber, sto parlando di tutta quella generazione di nuove app e di nuovi centri di informazione che stanno dando valore ai propri lettori, alle proprie comunità, ai propri “member” con un’interazione diretta e biunivoca. La quale ruota attorno allo smartphone.

    Le nuove esperienze editoriali

    Le esperienze sono molte: Quartz, The Skimm, Tortoise. Segnati questi nomi (e per il resto segui il mio lavoro perché sarà basato su questi argomenti per molto tempo). Vuoi sapere cosa sono? Sono delle newsroom che hanno sviluppato app così avveniristiche da rappresentare un valore importante che arriva giornalmente negli smartphone di chi si abbona.

    Hanno sviluppato interazioni con una vera community di riferimento che si sivluppa in un circolo virtuoso di informazioni, di cultura e di visione del mondo, con lo smartphone al centro. Ricevendo il prodotto giornalistico e contribuendo al prodotto giornalistico, il lettore-attore di questo nuovo modo di fare i media si trova dentro un ecosistema nel quale conta. Conta la sua voce, conta quello che sceglie e che riceve nel telefono, ma anche quello che dice ai suoi media che hanno veri e propri canali dedicati di conversazione con il “member”. Per questo vuole pagare.

    Mobile media economy.

    Sta nascendo una mobile media economy che dà valore economico alla conversazione e che rende attivo, finalmente, il lettore-attore delle news. E’ finito il mondo dei media che ci rendono passivi o limitati a qualche like o commento. E’ iniziato il mondo del lettore interattivo nel processo di produzione della notizia e della fruizione. E tutto questo è mobile.

    Nei media italiani non si vede l’ombra di tutto questo rinnovamento e ci si ostina a considerare mobile un quotidiano online che si riesce a leggere da smartphone. Anche il mio blog si legge benissimo da smartphone, ma è tutto fuorché nuovo. Viviamo in un paese i cui media sono in uno stato di arretratezza culturale tale da far dubitare che ne possano mai uscire, ma abbiamo anche un mare di telefonini a disposizione e un terreno su cui potremmo far crescere una nuova mobile media economy. Insomma, il mobile journalism con le sue piccole o grandi comunità, vive un momento adolescenziale, un momento in cui non sa cosa farà da grande.

    Potrebbe anche morire senza lasciare traccia.

    L’unica strada ragionevole è il percorso che parte dall’uso professionale dello smartphone per produrre contenuti, allo sviluppo di progetti personali e professionali attinenti a questo linguaggio, fino alla produzione di nuovi media “mobile” che riano reale valore ai loro lettori-membri. Tra l’altro cerchiamo di tener conto anche di questo: lo smartphone è alla fine dei suoi giorni. Sarà meglio cominciare la rivoluzione nell’uso del mobile, prima che ci sparisca da sotto al naso, sostituito da chissà quale diavoleria da indossare.

    Un appello

    Concludo con un appello: vedo la community nazionale e internazionale attraversata da difficoltà di rapporti, da prevalere di interessi personali. Per parte mia non parteciperò a questo giochino di chi si assume la paternità del mobile journalism o di chi crede di avere la verità in tasca. Continuerò a essere in contatto con tutti coloro che vorranno avere un’interazione con me e una visione coerente e consistente sul cambiamento del mondo del giornalismo.

    Se vogliamo continuare a considerare il mobile journalism come una soluzione B, come un giochino o come una soluzione che costa meno, possiamo farlo. Possiamo anche dire che il mobile journalism è filmare con lo smartphone e montare con final cut. Possiamo anche ossequiare questo o quel produttore di smartphone o quel produttore di app o di hardware. Perderemo la possibilità di continuare a mettere insieme i pezzi di questa cultura di cambiamento del giornalismo. Io non ci sto e vado avanti. Voglio modificare linguaggi, posti, strumenti e meccanismi della mia professione. E tu?

    Ci stai?

    P. Grazie a Nick Garnett per aver scritto per primo della morte del mojo. Lui aveva ragione e io torto.

  • Mobile journalism? Facciamo media innovation

    Mobile journalism? Facciamo media innovation

    Media innovation. Questa espressione mi frulla in testa da quando sono tornato da Parigi.

    La crescita della community e della cultura del mobile journalism e della mobile content creation deve passare da una nuova dimensione. La dimensione della media innovation. La materia sulla quale mi sono messo a lavorare è viva ed è il sangue che corre nelle vene dell’innovazione nel mondo dei media. L’interazione tra i media e i lettori, o gli spettatori, è cambiata e se cerchi bene l’oggetto che l’ha fatta cambiare, scopri facilmente che è lo smartphone. E quindi? Quindi la mobile content creation è il linguaggio con cui si creano i contenuti per il nuovo ecosistema dei media con il quale facciamo i conti tutti i giorni. Il mojo, per farla breve, è quel settore del giornalismo e della produzione che sta rinnovando il mondo dei media. Per questo la nostra, la mia, la tua dimensione mojo deve essere aumentata fino ad assumere un’altra fisionomia. Insomma, è il momento di fare media innovation.

    Stiamo guidando verso il futuro o stiamo guidando il futuro?

    Allora, telefono in mano, stiamo reinventando il futuro del giornalismo e dei media e stiamo solo aspettando che l’era della televisione dia gli ultimi colpi di coda. Il mojo, la mobile content creation, sono gli elementi che guidano il futuro dello sviluppo del mondo dei media. Con un telefonino in mano si può creare un intero modello di business profittevole e scalabile di un medium di nuova generazione. Sto studiando ormai da tempo le dinamiche di sviluppo della carriera grazie allo smartphone e alle tecniche della mobile content creation. La produzione di contenuti mojo libera interazioni con piattaforme sociali, marketplace, servizi di creazione di media e quanto altro è necessario per sviluppare nuovi prodotti e nuovi servizi nel mondo della comunicazione. E nuovi media.

    Il faro Yusuf: il miglior giornalista del mondo.

    Faccio solo un paio di considerazioni su questo ragionamento a rafforzamento del concetto che il mobile journalism è la casa del rinnovamento dei media in generale. Sto seguendo da un paio di settimane il corso gratuito di mobile journalism tenuto da Yusuf Omar, il media innovator che rappresenta un punto di riferimento nel panorama dei nuovi linguaggi mondiali della produzione di format innovativi (e anche di business, sebbene ci sia un distinguo da fare). Nel corso che tiene in questo momento online e che puoi trovare qui, per il Knight Center della University of Texas, sta mostrando coi fatti di essere il giornalista che, in questo momento, detta i tempi e i temi del futuro. Non ci credi? Libero di farlo. Io però una guardata la darei.

    Spiego il motivo per cui ho sparato questa sentenza. Le modalità di ricerca, sviluppo, creatività, produzione, post-produzione e pubblicazione del suo format, Hashtag our Stories, sono completamente diverse da qualsiasi linguaggio passato. La sua penetrazione nei confronti dei nuovi settori del pubblico (quelli che non leggono il giornale e quelli che non hanno la tv) è sorprendente. Il rispetto dei canoni irrinunciabili del giornalismo, però, è totale.

    Resta da costruire la profittabilità del business.

    Il distinguo di cui ti ho parlato poco sopra, per l’iniziativa dell’amico Yusuf, è la scalabilità del business e la distribuzione della ricchezza creata dal valore aggiunto del suo incredibile format liquido che è in uno, nessuno, centomila luoghi. Da quello che ho potuto comprendere HOS è sostenuto da dinamiche indirette (Yusuf si finanzia coi corsi) o da istituzioni che donano. Però, se ci pensi, comincia ad indicare una via per il rinnovamento del mercato dei media che è una strada maestra se si vuole avere un futuro. Hai qualche idea di cosa si tratti? Si tratta di questo: il giornalismo è una conversazione. Qualcosa si fa più chiaro? Vado ancora più nello specifico perchè forse è il caso di dirti proprio in modo esplicito su cosa si sta costruendo una nuova maniera di fare il giornalismo e i media. Una cosetta da niente, una cosetta della quale i media italiani non sanno niente.

    Il valore economico della conversazione.

    Ora, purtoppo, viviamo in un mondo che continua a buttare sul mercato media replicanti il modello, visto, rivisto e stravisto, di una produzione offerta, al massimo customizzabile, di un medium creato in un luogo di realizzazione, una redazione, e consegnato al mercato su varie piattaforme. In questi giorni, invece, ho conosciuto modelli di media che stanno sviluppando due concetti che sono facilmente realizzabili con lo smartphone. Come prima cosa creano una community con l’obiettivo di servirla. Il secondo obiettivo, invece, è di creare una specie di generazione controllata dagli utenti degli argomenti dei quali si vuole che il nuovo medium parli o approfondisca.

    Il caso Tortoise

    Un esempio su tutti? Lo sconvolgente caso di Tortoise, la newsroom inglese che ha inventato un modo nuovo di fare informazione. Questo mezzo di comunicazione è un ponte che fa conversare lettori e produttori delle notizie in un flusso continuo di informazione, stravolgendo completamente il ruolo, sommariamente passivo, dei lettori-spettatori dei media conosciuti fino a questo momento. Viene chiara, quindi, l’idea che nel nuovo mondo dei media si vuole dare valore economico alla conversazione. Ed evidentemente ci si riesce. Chi non vorrebbe leggere un giornale che parla delle cose che gli stanno veramente a cuore? Ultima nota: Tortoise ha rallentato il ritmo delle notizie per darle verificate, approfondite, scritte bene. Solo per questo sono dei geni, ma anche per molto molto altro. Cominciamo a fare media innovation imparando? Sarà il caso.

  • Il giornalista di oggi perde prima di lavorare

    Il giornalista di oggi perde prima di lavorare

    Il mobile journalism, però, può essere la risposta a questo problema.

    Sto lavorando su un corso che racconterà a chi vi partecipa tutti i modi, gli strumenti, le prospettive e le opportunità per il giornalista, le quali derivano dal mobile journalism e dall’uso professionale del telefonino. Il corso andrà in scena il 4 e 5 febbraio del 2019 all’Associazione Stampa Romana (link per info e iscrizioni qui) e darà modo ai partecipanti di capire come collocarsi sul mercato del lavoro giornalistico o come rinnovarsi sfruttando quell’aggeggio supertecnologico che abbiamo tra le mani circa 150-200 volte al giorno.

    Un laboratorio unico.

    Per un giornalista che voglia stare sul mercato oggi sarà un vero e proprio laboratorio unico di 2 giorni, durante il quale si potrà sviluppare il proprio progetto professionale giovandosi di una serie di strumenti che partono dal telefonino e che rappresentano la modernizzazione di un lavoro, come quello del giornalista, che la massima parte dei colleghi ora svolge perdendo soldi. Anche prima di cominciare a lavorare. Vuoi sapere perché? Adesso te lo accenno, ma al corso lo spiegherò diffusamente, dilungandomi anche sugli strumenti derivanti dallo smartphone e dalla mobile content creation che possono essere utili per risolvere questo problema che affligge il giornalista.

    Un problema molto italiano. O forse no…

    Il mondo del giornalismo va secondo canoni dati da molto tempo. Sono cambiate le piattaforme di pubblicazione, ma non i modi con i quali un giornalista italiano di oggi lavora. E perde un pacco di soldi a ogni respiro. Studiando su “Strategia Oceano Blu” di W. Chan Kim e Renée Mauborgne, sono stato agevolato, grazie ai loro esercizi, a riconoscere molte problematiche del flusso di lavoro del giornalista. Come trova le notizie, come viene contattato dalla redazione, come fa ricerche, come si muove. Sono tutte operazioni condotte in modo da avere un grande dispendio di tempo e quindi di denaro. Mi viene da pensare che sia un prolema molto italiano, ma non è così perché il modo di lavorare verticale (un committente mi chiama per un pezzo e io lavoro su quello fino a quando gliel’ho consegnato) è proprio caratteristico del sistema ovunque. Primo errore: il giornalista lavora top-bottom-top (dal capo che ti commissiona, fino al momento in cui glielo invii), ma dovrebbe lavorare in orizzontale.

    Ti pagano di più se non lavori.

    Con i prezzi dei prodotti (articoli, video, etc) devi farti entrare in testa che ti pagano di più se dici “No, non lavoro”. Per essere efficace, dal lato dei costi, devi pensare sempre di lavorare per più committenti contemporaneamente, per diversi tipi di prodotti editoriali allo stesso momento, andando, infine, a metterti sul mercato a diversi livelli di stratificazione. Mi dirai, concetto difficile… Ti rispondo con una spiega molto semplice. Fotografia del giornalista di oggi: telefonata, “fammi 30 righe”, va, ascolta, prende nota, fa le interviste a margine, al limite registra con un registratorino, poi prende, sbobina, scrive, manda. Lo smartphone c’è solo per alcuni pezzi (al limite serve per chiamare o registrare audio). Lo smartphone, però, viene clamorosamente lasciato fuori dall’opportunità di essere una macchina da lavoro multimediale che produce più risultati contemporaneamente e serve anche da connettore verso l’esterno, verso la pubblicazione, verso committenti diversi per lo stesso lavoro in forme diverse. Rivedendo la destinazione dei costi, quindi, posso aggredire il mercato e rendere un minimo più profittevoli le tariffe che prendo.

    Posso fare molto di più.

    Questo minimo ragionamento sulla gestione dei costi del giornalista è solo l’inizio delle tecniche che possono essere sviluppate grazie allo smartphone, ma si può fare molto di più. Si può, per esempio, trovare nuovi mercati e nuovi destinatari del prodotto giornalistico.

    Si può, addirittura, guadagnare quando non si lavora. Vuoi sapere come? Lo spiego martedì mattina a Roma, con dovizia di particolari. Se vuoi fare il giornalista oggi devi realizzare un grande cambiamento. Altrimenti, per te, c’è solo il passato. Ci vediamo a Roma.

  • Autocap: la soluzione per i sottotitoli

    Autocap: la soluzione per i sottotitoli

    L’intelligenza artificiale e la voice recognition ci vengono in soccorso.

    L’operazione dell’apposizione dei sottotitoli è una specie di inferno per ogni videomaker. Ognuno di noi ha dietro le spalle notti insonni a cacciare dentro lunghissimi discorsi, frase dopo frase, cella dopo cella. Dalle ricerche che ho fatto in questi mesi, tuttavia, posso cominciare a dirti che l’epoca delle ore perse dietro ai sottotitoli dei tuoi video potrebbe essere un ricordo. Il merito è di uno sviluppatore poco più che quarantenne di Tel Aviv che si chiama Eli Leshem il quale ha sviluppato una miracolosa app chiamata “Autocap” che aggiunge le cosidette “caption”, i sottotitoli, appunto, a video finito.

    La tecnologia che sta dietro.

    Ho fatto una lunga chiacchierata con Eli e ho scoperto un mondo. Dietro Autocap ci sono server che fanno voice recognition, ricognizione della voce, passando tutto il video e traducendo le frasi dette in frasi scritte con una cura dell’ 80-90%. Non avevo mai incontrato applicazioni simili, fino a quando l’ho scoperta grazie a una dritta del buon @smartfilming, alias Florian Reichart, mago tedesco del mondo android. Avevo visto, invece, applicazioni speech to text che, tuttavia, non mi hanno mai mostrato l’accuratezza nella trascrizione che mostra Autocap, sulla quale la necessità di intervento non passa mai il 10 per cento delle parole dette.

    Dietro questa app ci sono fior di server che fanno voice recognition e che , tra l’altro, imparano man mano che gli dai video da mangiare. Algoritmi precisi e dotati di intelligenza artificiale che fa auto apprendere, scodellano l’ sottotitoli in video anche lunghi, sui quali, grazie ad Autocap, puoi anche intervenire con nuovi font e colorazioni diverse. Per scoprire tutti i segreti, a ogni modo, ti lascio alla chiacchierata che ho fatto qualche giorno fa con Eli che è in inglese e, naturalmente, non è sottotitolata :-). Ultima nota: Autocap, per ora, è solo per Android, ma presto sarà sviluppata anche per iOS.

    La chiacchierata con Eli Leshem
  • Sottotitolazione video: piccolo manuale di sopravvivenza

    Sottotitolazione video: piccolo manuale di sopravvivenza

     

    Sottotitolazione video: ecco un manuale secondo il vangelo del professor Ranfi.

    Già, se io so queste cose le so per merito di Fabio Ranfi, direttore di MilanoAllNews. Di cosa sto parlando? Semplice, sto parlando di come si riesce a sottotitolare un video in modo automatico e veloce senza effettuare tutta la trascrizione dei testi. Sottotitolazione video: un problema enorme specialmente per il mojoer, un problema che ha modi “mojo” e non mojo di essere risolto. Vediamone alcuni, da me testati e scoperti anche grazie alla collaborazione e ai suggerimenti del professor Rufus Ranfi.

    Le operazioni “complete” mojo.

    Innanzitutto, perché sottotitolare? Motivo semplice: perché oltre l’80% dei video vengono visti dai telefoni o dai tablet senza audio. Per questo motivo la sottotitolazione video è di basilare importanza. Se avete delle necessità di sottotitolazione automatica in total mobile, cioè siete in giro e avete solo telefonini o tablet, potete riprendere in mobile con Apple Clips o con Clipomatic, oppure sottotitolare con pazienza il vostro video con l’applicazione Vont. Si tratta di App col sistema operativo iOS, ma nel mondo android possono venire in aiuto le normali applicazioni di montaggio come Kinemaster.

    Le operazioni passando dal pc.

    Ommammasanta. Un po’ temo, ma sto per darti anche una dritta di sottotitolazione video che arriva direttamente dal professor Ranfi. Per me il mobile journalism con i pc non esiste, ma facciamo finta che mi sto sbagliando e che l’amico e collega docente di Italian Mojo mi ha fregato. Ecco, per passare a fare la sottotitolazione sui video in automatico da pc l’amico giusto per l’operazione è Youtube che ha una parte dedicata ai sottotitoli automatici e correggibili. Per farla breve ho messo tutto in una diretta nella quale ho raccontato di queste tre app di iOS e della procedura da fare su Youtube. Ti lascio alla visione di questo video live, se non hai capito qualcosa contattami.

     

  • Mobile Journalism: previsioni per il 2019

    Mobile Journalism: previsioni per il 2019

    Sta arrivando il nuovo anno: il mobile journalism deve ancora crescere.

    Ultime ore del 2018, è tempo di bilanci. L’anno appena passato è stato quello del consolidamento, anche in Italia, del mobile journalism come una cultura completa della mia professione. Con l’aiuto di tante componenti sono riuscito a far approdare, assieme al collega Nico Piro, il mojo nelle scuole di giornalismo e negli atenei. Era la cosa più importante da fare, affinché il mondo della professione giornalistica italiano non continuasse a considerare la creazione di contenuti con device mobili come un giochino o come qualcosa di amatoriale. In tanti, eventi, corsi, workshop, in tante lezioni, con tanti studenti, ho potuto mostrare che il mojo è una cultura completa delle professioni visuali della comunicazione. Da quest’anno nessuno, in Italia, può sottostimarla più. Però il mobile journalism deve ancora crescere e deve diventare popolare come forma di cultura, per poter dire che la missione è completa. Quindi, dai, c’è ancora molta strada da fare. Andiamo che ti racconto cosa succederà nel 2019.

    I video a 360°: non siamo pronti, ma…

    Nel 2019 non vedremo fiorire i video a 360°, anche se in molti scommettono ogni anno su questo tipo di contenuto che è molto… mobile. Prendo questo tipo di contenuti come simbolo di un problema che avviene in più di un settore del mobile journalism e della mobile content creation. I video immersivi sono di difficile realizzazione e hanno un linguaggio nel quale il nostro occhio non è ancora entrato. Tuttavia sono impattanti, choccanti, emozionanti: attirano, insomma. Per questo si è mosso molto il mercato dell’hardware regalandoci degli strumenti come le telecamere Insta 360 che sono tanto performanti quanto pericolose. Il motivo? La tecnologica che contengono è elevatissima, ma se ti capita di rompere una lente sono guai. Per questo e altri motivi dico che la tecnologia che serve per produrre questi contenuti è ancora a costi altissimi e la tecnologia per vederli (i visori come Oculus) non è popolare (ed è costosa pure lei).

    La tecnologia mojo costa ancora troppo: il caso Osmo Pocket

    Continuo su questo binario: la tecnologia costa ancora troppo ed è troppo votata a stupire. Metto in piazza il caso della Osmo Pocket, microcamera stabilizzata della Dji Global. Fa fare, a mano nuda, video meravigliosi come quello qui sotto.

    https://twitter.com/frafacchini/status/1078673133450788864?s=21
    Il mio mini video alla mostra di Mc Curry a Milano

    Questo oggetto evoca molte potenzialità, ma ha dei difetti enormi. Non ha una batteria sostituibile (ma come è possibile???) e l’interfaccia con strumenti di acquisizione audio e tutt’altro che scontata. Poi qualsiasi accessorio è molto costoso e porta la piena potenzialità di questa macchina sopra i 500 euro, senza la possibilità di cambiarne il cuore se si ferma… Non va bene. Spero che i brand che realizzano hardware che il giornalismo mobile usa la smettano di fare finta che il mojo non c’è e che ci sono solo consumatori “drogabili” e YouTuber dal facile montaggio lineare. Più in su del consumatore, più in su dello YouTuber e poco più in giù del videomaker o giornalista classico, ci sono migliaia di mobile journalist che lavorano ogni giorno in organizzazioni media e avrebbero bisogno di questi strumenti con alcuni piccoli, ma fondamentali aggiustamenti. Spero che la community continui a bussare alle porte di queste aziende chiedendo l’attenzione che merita. In fondo le aziende ci guadagnerebbero…

    Lo smartphone si piega (e sta morendo)

    Quando ho visto l’ultimo Samsung con quattro camere me lo sono chiesto subito. Cosa diavolo servono 4 camere su uno smartphone?

    Nel 2019 andrò in giro chiedendomi perché il cellulare deve diventare pieghevole. Sono convinto che presto lo smartphone morirà, ma spero si trasformi molto presto in qualcosa di wearable, non in qualcosa davanti al quale essere costretti alla stessa posizione ferma e rannicchiata cui ci sta costringendo in questo periodo. Se si allargano gli schermi, magari con la scusa che si possono piegare, sarà molto difficile veder migliorare l’hardware di ripresa e veder cambiare i linguaggi del mobile journalism in un modo definitivamente lontano dalla tv.

    Sarà l’anno dell’audio

    Instamic, Memory Mic e Mikme, l’ultimo arrivato in casa mia. Poi le Ambeo Smart Headset e magari altri prodotti che non conosco. Il 2019 sarà, indubbiamente l’anno in cui i microfoni wireless e i set per l’acquisizione spaziale dell’audio cambieranno il modo di “prendere” il suono e di inserirlo in un racconto. Sono strumenti che danno una libertà assoluta al videomaker quando opera, sono strumenti che trasformano le interviste rendendo importante quello che l’intervistato dice quando risponde a domande, ma anche quello che dice liberamente mentre il microfono è aperto. Sono strumenti che possono cambiare la narrativa, far sentire cose che si potevano solo far vedere fino a questo momento. Anche il semplice test che ho caricato su Facebook con le Ambeo è un “manifesto” di potenzialità enormi su quello che l’audio, grazie a questi strumenti, potrà fare con il video.

    Sarà l’anno di Android (grazie a Adobe Premiere Rush)

    Nel 2019 ci saranno importanti cambiamenti nel mondo del montaggio su smartphone e tablet. Mi riferisco al fatto che la Adobe lancerà la versione per Android del suo Premiere Rush e abbatterà per prima i confini di qualsiasi barriera. Voglio dire che, da quel momento in poi, con un programma di editing che va molto migliorato (anche qui la company americana spero segua meno le bizze degli YouTuber e ascolti di più i mojoer), sarà possibile lavorare su un pc, continuare su un iPhone, rifinire su un iPad e concludere su un cellulare Android il lavoro su un video. Credo di non passare per matto se ci vedo una svolta storica e una grande possibilità che il mobile journalism, visto questo programma che “unifica” i diversi mondi (pc-Mac, Android-iOS), diventi finalmente appetibile al pubblico degli editori che potrebbero, grazie a questa novità, cambiare i flussi di lavoro delle loro redazioni. Sono, peraltro, sicuro che Apple si inventerà qualcosa (il Final Cut per iPad e iPhone), che Luma Fusion uscirà per Android e che Alight Motion uscirà per iOS. Un circo che i regalerà nuove esperienze e molti vantaggi nel lavoro.

    Diamo il mojo in mano agli editori

    La sfida del 2019 è far capire agli editori italiani che il mobile journalism non è “fai le cose col telefonino”, ma è una vera cultura. La quale potrebbe creare nuovi media e non solo siti online come Open che di mobile hanno solo la possibilità di scegliere come leggere le notizie e non certo un modello di business sostenibile. Se comprendessero i signori editori che questo è un linguaggio, un modo di lavorare che può produrre nuovi format e perfino nuovi modi di guadagnare soldi, beh, forse cambierebbe qualcosa nell’esanime mondo dei media, specialmente italiani. Il compito mio è quello di cominciare a far capire a chi edita giornali e siti quali siano i vantaggi (anche di costi) dell’impostare il lavoro con le tecniche del mobile journalism, sperando di trovare interlocutori. Io ci provo e ci proverò in un modo nuovo, raccontando anche tramite le immagini tutte le caratteristiche del mojo che possono interessare gli editori

    Il mobile journalism anche tra la gente

    Non contento lo farò anche per la gente. Già, “più mojo per tutti” è una missione che voglio portare a termine. Lo farò completando finalmente il mio libro (che l’editore Dario Flaccovio aspetta da tempo e con il quale mi scuso pubblicamente) e creando una serie di contenuti ad Hoc, specialmente sulla piattaforma Patreon di MojoDays, i quali spero raggiungano l’obiettivo della popolarizzazione del mobile journalism. Il mojo, infatti, può cambiare la vita e la carriera di tutti. Anche la tua.