Categoria: Social Network

Il giornalismo e la comunicazione vissuti attraverso i social network hanno completamente rivoluzionato il campo dei media. Ecco quali sono i trend di questi settori professionali che sono in grande fermento.

  • Social network e il momento del valore

    Social network e il momento del valore

    Sui social network, in questo periodo, stanno succedendo molte cose.

    La mutazione di questi strumenti di connessione tra le persone, i social network, appare evidente. Si è manifestata tra risvolti politici, problemi di mercato, attacco delle istituzioni che non ne accettano più la pervasività e modificazione dell’esperienza (come succede su Clubhouse che a mio avviso non è un social network). Se ne sono accorti in molti, ma non si è ancora riflettuto abbastanza su come cambiarne l’interpretazione. Abbiamo bisogno di un nuovo modo di stare sui social network. Un modo che abbia valore. Toccabile.

    I social sono parte della tua catena del valore

    Sui social si è capito che cominciano a contare meno i numeri. Stanno scomparendo i like, si stanno modificando le notifiche, stanno cambiando i rapporti con i fan. In più modi le varie Facebook e compagnia stanno valutando evoluzioni che cambino, lentamente e inesorabilmente, il loro business. Ne parla anche Repubblica qui. Proprio in questo momento, quindi, serve un nuovo modo per interpretarli, per renderli utili a quello che stai facendo. Questi strumenti non sono più mezzi pubblicitari, possono essere leve per aumentare il tuo valore o per creare format di prodotti e servizi immateriali che creino ulteriore ricchezza per te. Come? Beh, con l’esperienza, con il contenuto, con la condivisione della conoscenza verso il tuo pubblico. Perfino con la conversazione con il tuo cliente per sapere come sta e cosa desidera davvero da te: ecco come le reti sociali possono essere parte della tua catena del valore.

    Adesso ti conviene lavorarci

    I social cominciano a essere una piattaforma su cui lavorare. A questo proposito sto pensando, assieme ad alcuni colleghi, di creare un team di professionisti che aiuti non solo la presenza online e onsocial dei clienti, ma anche la creazione di valore grazie a questi strumenti. Come Smartphone Evolution crea consapevolezza nell’uso dello smartphone, così i miei prossimi studi e progetti dovranno creare capacità nel cliente di sfruttare i social network per creare nuove opportunità di arricchire (realmente) il suo percorso digitale.

  • Clubhouse: il bello di un social che non è un social

    Clubhouse: il bello di un social che non è un social

    Clubhouse: il mondo dei social è stato squassato da una nuova entrata

    Gli smartphone di tutto il mondo sono attraversati da una scarica elettrica: si chiama Clubhouse. È uno strumento social, una app che funziona solo per invito e ha un elemento caratterizzante: la voce. La struttura è di un’innovatività disarmante e riporta al centro l’interazione diretta e sincrona. È basato su stanze di conversazione che possono essere private o pubbliche, come veri e propri eventi online o come interazioni dirette. Molto interessanti anche le cose che non ci sono, ma ora andiamo con ordine.

    In Clubhouse non ci sono timeline

    Clubhouse ci libera dalla prevasività delle timeline. Se vuoi seguire quello che succede devi entrare nelle varie “room” e ascoltare, oppure iniziare una conversazione, sia essa tematica o generalista. Le stanze riproducono un ambiente virtuale nel quale un moderatore elegge a speaker determinate persone che possono essere funzionali al tema di cui si sta parlando.

    Non restare fuori a guardare dal buco della serratura, ma doverci mettere la voce è spiazzante, ma toglie il sentimento di emulazione e di clonazione cui invita un social network normale. Entri, ascolti, alzi la mano, attendi, partecipi (se ti fanno partecipare). Lì devi essere te stesso. Non ti puoi limitare a guardare, non puoi fare il leone da tastiera, non puoi sparare cavolate.

    In Clubhouse c’è la virtualizzazione dell’incontro

    Solleva vedere che Clubhouse non è schiavo dei numeri, non è figlio della quantità e dei follower. Si tratta di un luogo dove interagire, allacciare contatti, conoscere e togliere passaggi al palcoscenico dei media. Sto scrivendo questo pezzetto e da un’ora sono nella stanza di @insopportabile a sentire una bella chiacchierata su come i politici potrebbero usare questo medium.

    Beh, dovrebbero fare attenzione. Tanta, perché qui si rischia l’uno contro tutti se quello che dici non ha valore. Sono dentro la stanza è assieme a me ci sono Francesco Di Gesù (in arte Frankie Hi-nrg MC) e Saturnino Celani, due clamorosi artisti. Essere a chiacchierare con loro e sentire la loro voce, strumento con il quale entreremo nella nuova era di Internet, come ho già scritto, è emozionante. Una vera virtualizzazione dell’incontro che viene vissuta lì per lì e che dai server di Clubhouse non viene registrata (forse…). Per cui è il “qui e adesso” che conta. C’è anche la disintermediazione, i gradi di separazione tra me e le persone famose sono meno di sei…

    Dobbiamo imparare dai pischelli

    Clubhouse è anche il luogo della democratizzazione dell’interazione virtuale. Posso arrivare a un mio mito, se voglio. Con le dinamiche giuste. Già, perché è solo su invito e chi è invitato reca sul suo profilo il nome di chi lo ha invitato. Per sempre. Un garante. Una scusa per comportarsi bene, se no sputtani anche chi ti ha fatto entrare. Dobbiamo imparare dai ragazzini (nel senso dei giovani 16-25) che, nel 2020 caratterizzato dalla pandemia, hanno iniziato a vivere autentiche amicizie virtuali grazie a questi non-luoghi come Houseparty. Stiamo entrando in una mutazione dei social sostanziosa e sostanziale e Clubhouse, il quale ci ha tolto lo scroll, i fan, i like, i follower e le paranoie annesse, è il primo social della nuova generazione. Un social che non è un social per come abbiamo imparato a conoscerlo.

    Una clamorosa opportunità per comunicatori e aziende

    Clubhouse è un posto pazzesco per chi produce contenuti e per chi vuole cambiare finalmente il modo di raccontare un’azienda, un’attività, un progetto. È una stanza nella quale tutti possono entrare e sentire il valore di quello che stai dicendo, ma anche il rumore di quello che stai facendo. Con Clubhouse l’apertura per il ruolo di un comunicatore si alza di tono. Un giornalista può e deve diventare un progettista del prodotto editoriale a 360 gradi e arrivare fino al ruolo di coach dello speaker o del personaggio pubblico che ha intenzione di aprire un account e delle stanze di interazione con il pubblico. Ah… a proposito, qui non ci sono gli influencer e i loro diavolo di post sponsorizzati. Non ci sono filtri delle foto. Non ci sono foto, non ci sono scritti, non ci sono cose che restano.

    Clubhouse: posto di esperienze

    Clubhouse è un luogo dell’esperienza e della conoscenza condivisa, nel quale polarizzare la discussione diventerà estremamente difficile. Perché? Beh, per la selezione all’ingresso, per la natura sincrona dell’interazione (se vuoi parlare ci devi stare), per l’uso della voce, per il fatto che tutto avviene in quel momento e di quel momento non resta traccia. Per questo ritengo che sia un ottimo strumento per le aziende, per avere un filo diretto con il loro pubblico, per sentire parlare i loro clienti.

    Il ruolo del moderatore

    Sono le primissime ore per me su Clubhouse e, per adesso, ascolto molto e parlo poco. Sono stato invitato dal giornalista Rai, responsabile dell’area web, Diego Antonelli che ringrazio. Però già sto pensando ai contenuti e alle stanze che potrò aprire, naturalmente per Smartphone Evolution e per Algoritmo Umano. Stanze di vita e di incontro virtuale. Credo sia utile spiegare il ruolo del moderatore, per quello che ho capito. La persona che vuol creare una stanza, improvvisata o ricorrente, diventa il moderatore. Un ruolo centrale anche per il controllo di quello che può succedere. Può nominare speaker e togliere il microfono, far entrare (se è una room chiusa) e far uscire. Se il modello di business evolverà rapidamente, come credo, vedo una grande opportunità anche in questo compito, in questa nuova professione. Già, proprio quella del moderatore di luoghi virtuali.

    Quello che non va in Clubhouse

    Devo dirlo, sono stupito in positivo da Clubhouse, ma anche inquietato da alcune sue caratteristiche. Prima di tutto è a invito e questo crea divisioni nella sopcietà virtuale. No buono. Evolverà per forza. Poi, per ora, è solo per iPhone e quindi ce lo possono avere solo le persone che hanno un telefonino di quel tipo. Altra connotazione elitaria. Poi potrebbe aumentare le bubble room, quelle stanze virtuali che fanno rimbombare le proprie opinioni.

    Il pericolo dello stare tra simili

    Ci si incontra solo con gente simile, perché si entra nelle stanze che si interessano. Invece bisogna confrontarsi con il mondo, aprirsi al diverso. Poi c’è tutta la questione delle registrazioni di quello che succede: Clubhouse dice che non conserva il registrato, ma lo detiene soltanto poco tempo dopo la fine della stanza solo per eventuali segnalazioni del pubblico su qualcosa di negativo che sia accaduto nell’incontro. Sarà vero? Poco sotto, infatti, dice che conserva dati e metadati per un tempo indefinito. Ecco, bisognerà chiarire. Questo, però, è un momento di vera Smartphone Evolution. Anzi di Social Evolution.

    Ps. La foto è mia ed è la foto dell’iPhone aperto su Clubhouse e della sua posizione rispetto a quello che stavo facendo. Sentivo la chiacchierata e scrivevo. Ho cercato di intervenire, ma non sono stato abilitato a farlo. Ho sentito persone interessanti parlare, tenermi compagnia, mentre pigiavo sui tasti o bevevo il caffé. Una splendida sensazione di compagnia, di nuova relazione virtuale. Composta ed educata, mai urlata, la discussione mi ha rallegrato il sabato pomeriggio. Un buon inizio.

    Leggi anche:

    Voce e internet: rivoluzione controversa

  • Social network: pubblica quando è utile

    Social network: pubblica quando è utile

    Ho provato una piattaforma di social media management per automatizzare la mia presenza e le mie pubblicazioni sui social network: ecco quello che ho scoperto

    Nel percorso di crescita di questo strano 2020 ho razionalizzato molti passaggi di proposizione del mio lavoro, delle mie attività di marketing e dell’interazione con i clienti. Una delle cose su cui ho lavorato è la mia presenza sui social network. Ho preso una piattaforma in prova per un mese per verificare se l’automatizzazione delle pubblicazioni poteva portare sul mio telefonino dati di maggiore interazione con il pubblico. Non è stato così.

    I motivi di un insuccesso

    Il mio lavoro, come quello di tanti altri liberi professionisti, è un lavoro in solitaria e con risorse economiche molto ristrette. Per questo motivo posso mettere tra i motivi di insuccesso dell’operazione social media management anche la ridotta quantità di risorsa tempo che ho potuto dedicare a questo esercizio. Un’altra cosa, però, mi è balzata agli occhi, guardando il mio piccolo pubblico. Le reazioni avute alla programmazione automatica dei post sulle mie pagine sociali mi hanno fatto capire che chi mi segue lo fa per capire cosa penso, per sapere cosa dico e per trarne utili consigli. Tutto questo non può essere fatto da qualcosa di automatico.

    Pubblicare quando…è utile

    Per questo motivo ho abbandonato la piattaforma e ho deciso di rispettare un solo criterio di pubblicazione. Quale? Pubblicherò quando ho da dire qualcosa di utile, di importante, di impattante. Senza pensare a rigidi piani editoriali o a costose piattaforme che automatizzino la diffusione del mio verbo. Oltretutto vedo dai dati che l’impatto del traffico sui miei siti che deriva dai social non è aumentato se non quando il contenuto era di buona qualità. Un grosso messaggio di speranza che si porta dietro un consiglio utile: condividi valore quando ce l’hai tra le mani. Il resto comincia a contare di meno. Molto di meno.

    Foto di Lisa Fotios da Pexels

  • I social network stanno diventando media

    I social network stanno diventando media

    I social network stanno evolvendo in modo inesorabile e stanno cambiando il loro posto nell’ ecosistema dell’informazione.

    Ok, parto dalle cose che sai già. I social network sono la principale fonte di informazione per intere fasce di età. Il meccanismo è quello dei link che portano ai media di interesse, meccanismo grazie al quale abbiamo assistito alla morte delle homepage dei siti. Fino a oggi le reti sociali sono state soprattutto piattaforme di pubblicazione o, in parte meno preponderante, di connessione. La tendenza sembra cambiare.

    L’ossessione di fregarsi il pubblico

    I social hanno una tattica consolidata per conquistare il mercato: copiarsi. L’ultimo in ordine di tempo a comportarsi in questo modo è stato Instagram che, con i suoi Reels, ha scopiazzato il tanto odiato Tik Took. Nel corso degli anni i vari Facebook, Youtube, Twitter, Snapchat e compagnia si sono dati delle gran spallate con delle puntate anche fuori dal loro core business, come quando Facebook ha inventato le Rooms per iniziare a fornire un servizio di video comunicazione simile a Zoom o Skype. Insomma, i social vivono dell’ossessione di fregarsi il pubblico.

    Creare un medium su queste piattaforme

    Per fortuna si sta facendo strada il cambiamento. In questi ultimi tempi sono venuti allo scoperto alcuni nuovi modelli di media costruiti per recitare il loro ruolo principale su una o più piattaforme di social network. Il caso più eclatante è, a mio modo di vedere, Hashtag Our Stories, il progetto multipiattaforma di Yusuf Omar e sua moglie Sumaiya che sta conquistando milioni di spettatori settimanali su Snapchat, ma ha un’ audience enorme anche su Instagram e Facebook.

    Uno dei video di Hashtag Our Stories su Instagram.

    I media di nuova generazione, quindi, pensano al social network come destinazione principale della produzione di contenuto. Di conseguenza progettano il contenuto con il linguaggio, la grafica e la videografia adatta principalmente alle reti sociali. Diversi i formati, diverse le immagini, diversa la grafica rispetto all’imperante modello televisivo che resiste ancora sul web normale, sui siti, per intenderci.

    I social come editori

    Nel caso di esperienze come HOS so per certo che un social network ha assunto il ruolo di editore. Snapchat, infatti, è uno dei finanziatori della compagnia di Yusuf e della sua compagna di vita. Qualche giorno fa ho perfino visto Tiktok che pubblicizzava un fondo da 300 milioni, di cui 70 destinati all’Europa, da dare direttamente ai creator che volessero presentare un progetto, un format.

    Per i media social come HOS essere finanziati per produrre contenuti direttamente dai social è una via per sostenere il modello di business. Le altre fanno rima con il crowdfunding o con la fornitura di servizi collaterali. I media social sono qualcosa di nuovo e sono ancora alla ricerca di un modello sostenibile, ma osservare questi esperimenti è davvero come osservare il laboratorio dei mezzi di comunicazione del futuro.

    I social come piattaforma di pubblicazione

    Guarda, attentamente, Will e il suo account Instagram e prendi appunti se vuoi creare qualcosa di nuovo nel mondo dei media. Fondata da Alessandro Tommasi e Imen Jane, Will si presenta come una piattaforma che spiega i fondamenti e i cambiamenti dell’economia, della politica e del mondo attraverso la piattaforma fondata da Kevin Systrom e compagni. Da quando è nata a oggi Will ha raggiunto i 400 mila follower su Instagram e ha già diversificato la sua produzione di contenuti con podcast e video podcast. Insomma, Will è una community di persone interessate a certi temi che si trova su un social network, in questo caso Instagram, ma che non ha bisogno di identificarsi in modo preciso in un mezzo di comunicazione o di diffusione del contenuto.

    Un esempio di contenuto testuale di @Will_ita
    Un contenuto video di @Will_ita

    I social sono diventati media o forse hanno cambiato la parola medium

    I media nati sui social network sono molti. Voglio citare anche Milano Allnews dell’amico Fabio Ranfi. Sono la prova stessa che media e social network si sono fusi non sono rimasti nei loro ruoli di produttori di contenti (i media) e di piattaforme di pubblicazione (le reti sociali). Forse c’è di più: i social network e i media nati sui social network, hanno cambiato il senso della parola medium. Chi li segue, infatti, non si cura più del luogo dove prende le informazioni, ma del messaggio e del progetto editoriale che questi nuovi media hanno. Per cui la parola medium è diventata immateriale, è diventata questo: “Un punto di incontro per una community di persone che si vuole informare su un certo tema”. Al di là del modello, al di là del mezzo di diffusione, al di là della velocità di pubblicazione. I media stanno cambiando e dobbiamo rendercene conto.

  • Il contrario di virtuale è… fisico

    Il contrario di virtuale è… fisico

    Lo smartphone cambia i percorsi delle parole: una di quelle cambiate è virtuale.

    La nostra esistenza online è diventata più importante e decisiva durante questo scorcio della nostra esistenza. A causa della pandemia abbiamo iniziato a dare maggiore consistenza alle interazioni virtuali, per necessità o per amore. Al centro del nostro agire lo smartphone e quella sua capacità di essere ponte di relazioni proprio nel mondo connesso. La nostra realtà virtuale si è incastrata sempre di più nella nostra realtà fisica. Ha volte, certi passaggi fatti in virtuale con lo smartphone, sono diventati proprio degli acceleratori dei passaggi fisici. Allora mi viene spontaneo andare a indagare il significato della parola. Immergendosi nelle parole, molto spesso, si scoprono… errori.

    Quello che recita il dizionario

    Il Treccani parla chiaro: “In filosofia sinonimo di potenziale, cioè esistente in potenza e non in atto”. E poi: “In fisica, in matematica e nella tecnica, in contrapp. a realeeffettivo, si dice di enti o grandezze che, pur non corrispondendo a oggetti o quantità reali, possono essere introdotti o considerati per determinati scopi di calcolo, di rappresentazione o di deduzione logica”. La parola virtuale, quindi, ha un concetto di potenza e non di atto e il suo contrario è reale. Ecco, come se il virtuale non fosse reale. Il concetto di realtà virtuale, quindi, sembra una cosa senza senso, una contrapposizione tra esistente e non esistente. Mi sembra un grave errore, vista la realtà virtuale che, grazie ai nostri smartphone, stiamo realmente vivendo.

    Aggiustare il tiro

    Forse, per capire meglio l’ambito virtuale della nostra vita e le azioni che facciamo con lo smartphone, sarebbe il caso di cominciare a cambiare il senso del suo esatto contrario. Pensare che il virtuale sia qualcosa di non esistente e contrapposto alla realtà è un errore che non dovrebbe essere commesso. Dobbiamo smettere di considerare il digitale, vale a dire la parte della nostra vita che viviamo con lo smartphone, come una bolla contrapponibile alla realtà. Il virtuale è reale, i suoi effetti sono reali, i comportamenti che teniamo nei rapporti e nelle interazioni virtuali sono reali. Di conseguenza il contrario di virtuale non è reale, ma fisico.

    Toccare o non toccare

    Insomma, nel mondo digitale, grazie alla trasformazione in calcoli delle mie azioni fisiche, non posso avere a disposizione una realtà fisica, non posso toccare materialmente il risultato delle mie operazioni. Nel mondo reale, sì, lo posso fare. Toccare o non toccare una cosa, un’azione, un oggetto, un servizio. Certo non si può trasformare in digitale tutto quello che è reale, almeno non per ora, ma dobbiamo imparare a considerare il virtuale come una parte integrante della nostra realtà percepita. Diciamo che la nostra fisicità non potrà mai essere totalmente sostituita dal mondo digitale (almeno spero), ma contrapporre il virtuale al reale è un errore che non possiamo più permetterci di fare.

    Leggi anche – Voice First Era: rivoluzione controversa

  • Voice First Era: rivoluzione… via smartphone

    Voice First Era: rivoluzione… via smartphone

    L’era dell’uso di internet attraverso la voce è cominciata.

    Sono molti segnali che hanno parlato dell’arrivo della Voice First Era, ma l’ultimo difficile periodo vissuto dalla consesso mondiale a causa della pandemia di covid-19 ha accelerato moltissimi processi tecnologici e cambiamenti di rapporto tra l’uomo e il web. Tra questi cambiamenti c’è anche quello per il quale stiamo cominciando sempre di più a utilizzare la voce come strumento attraverso il quale diamo comandi ai nostri assistenti vocali, naturalmente collegati a Internet, ma anche alle nostre device mobili per entrare nel web e ottenere quello che stiamo cercando.

    Twitter, l’ultimo di tanti segnali.

    Il tweet che vedi qui sotto è l’ultimo dei segnali arrivati a chi osserva le cose del web e l’interazione fra gli uomini, le macchine e la rete.

    https://twitter.com/Twitter/status/1273306563994845185?s=19
    Ecco il tweet dell’annuncio dell’introduzione degli audio clips da 140 secondi da parte di Twitter.

    Dal 17 giugno del 2020, quindi, Twitter ha introdotto per la prima volta gli audio clips, delle registrazioni vocali da 140 secondi luna che possono permettere di catturare un momento della propria giornata o un passaggio veloce su un fatto appena accaduto con la freschezza, l’intimità e l’empatia del linguaggio vocale.

    D’altronde questo periodo è stato anche, per noi, il periodo nel quale ci siamo avvicinati molto di più ad altre due situazioni che coinvolgono la voce e il web. Mi riferisco degli assistenti vocali, ma anche della digitazione vocale attraverso il comando apposito delle tastiere virtuali dei nostri smartphone. L’accuratezza con la quale la voce viene trasformata in testo ha ormai raggiunto livelli vicini al 100% per moltissimi linguaggi, anche se la situazione di idiomi come l’inglese è certamente più facilitata rispetto a quella che hanno davanti i circa 80-90 milioni di uomini e donne che parlano la lingua di Dante.

    Il social vocale

    Grazie all’amico Enrico Chiari ho anche scoperto l’esistenza di Hear Me Out, un social caratterizzato da brevi messaggi vocali di 42″ di durata. Provalo, regala una maggiore empatia con ogni post, offre la possibilità di arrivare più lontano unita all’immediatezza del messaggio vocale. D’altronde anche tutte le app social come Whatsapp o Messenger vengono utilizzate sempre più frequentemente con la voce e sempre meno con il testo. Il tutto in un ecosistema del web che vedrà sparire molto rapidamente la digitazione fisica per farci entrare in un mondo di post vocali e di video. Il social Hear Me Out è la creatura di una tech company australiana ed è attivo dal 2016. Il sito aziendale fa capire anche che l’azienda è quotata alla borsa australiana di Sydney. Gode di molto interesse e di quotazioni in rialzo, segno evidente che in questo settore dei social c’è molto da fare. A proposito: se scarichi l’app dagli store di Google o Apple, mi trovi… siamo in pochi a parlare italiano.

    Il caso Houndify

    Nel 2018 sono andato a Galway per Mojofest, l’evento di riferimento per la cultura della mobile content creation e del mobile journalism. Tra i panel ho assistito a un speech del general manager di Soundhound, azienda che lavora nel campo della voce e dell’intelligenza artificiale. Kathie Mc Mahon mostrò agli astanti Houndify, una vera killer application della voce. Il progetto Houndify è basato sull’evoluzione dell’intelligenza artificiale vocale in multiple situazioni, in differenti modi. La voce, lo si evince anche dal sito, è trattata come un elemento unico e caratterizzante un brand, la sua evoluzione e il mondo circostante. Nel 2018 pensavo, in modo poco lungimirante, a come sarebbe stato il mobile journalism a comando vocale. Houndify, invece, porta tutti nell’era della voce per ogni tipo di hardware e per tutte le macchine che ci circondano collegate a internet (IOT). Interessanti due concetti del progetto: il brand può avere la sua voce di riferimento. L’Intelligenza Artificiale fa il resto e apprende dagli eventi e dalle interazioni con gli utenti, imparando a rispondere a domande sempre più qualitative e complicate. Certo, nelle nostre case abbiamo Alexa e Ok Google, ma Houndify è oltre. Risponde a domande multiple, qualitative. Raggiunge quasi l’intelligenza emotiva. La sua Intelligenza Artificiale? Eccola: è la Collaborative AI.

    Il video di Houndify che racconta la Collaborative AI

    Il futuro delle aziende

    Le aziende avranno presto una voce, la loro voce. Probabilmente l’interazione vocale con i clienti passerà anche dai nostri smartphone e dai nostri tablet. Voice First Era vuol dire questo. D’ora in poi potrai parlare con i tuoi clienti e i tuoi clienti potranno risponderti. Con la voce, virtualmente. Le tue macchine avranno voce, così come ce l’hanno i tuoi assistenti vocali e il tuo smartphone. Non mi dire che non hai mai parlato con Siri… Pensare a sviluppare anche il tuo piccolo piano di comunicazione con smartphone, tablet e voce ora è un passaggio realizzabile.

    Fra un po’ diventerà obbligatorio per non essere esclusi da un mondo nel quale, per connetterci, dovremo solo parlare. Tutto partirà dalle nostre device mobili e alle stesse arriverà. Senza dubbio. La voce della tua azienda, con dei tweet vocali, con un podcast, con una diretta audio via Periscope o Facebook, deve farsi sentire. Fra un po’ avrai anche la tua voce aziendale, quella creata soltanto per te, quella che darà il benvenuto a ogni cliente che entra nel tuo mondo dalle porte virtuali delle tue piattaforme di pubblicazione o da quelle reali del tuo negozio e della tua sede. Vuoi farti trovare impreparato?

    Un mondo di assistenti vocali

    Siri, Alexa, Ok Google, Robin, Hound (queste ultime due applicazioni non sono attive in Italia): questi sono solo alcuni degli assistenti vocali che si possono tranquillamente trovare nei nostri smartphone. Si è scatenato un mondo di voci attorno a noi. Gli aspetti controversi del fenomeno ci sono, ma è un movimento inarrestabile. Sarà meglio conoscerlo. Al più presto.

    Foto di Brita Seifert da Pixabay