Categoria: Social Network

Il giornalismo e la comunicazione vissuti attraverso i social network hanno completamente rivoluzionato il campo dei media. Ecco quali sono i trend di questi settori professionali che sono in grande fermento.

  • Dirette streaming a pagamento: Facebook si butta

    Dirette streaming a pagamento: Facebook si butta

    Lo streaming è diventato il nuovo standard per andare sui social e un modo per spicciarsela con i contenuti video della strategia editoriale di media, aziende, professionisti e persone. Ok, può anche andare bene, ma è importante capire che andare in diretta è una cosa seria. Ora più che mai.

    (altro…)
  • Per comunicare bisogna osare: il caso Megic Pizza

    Per comunicare bisogna osare: il caso Megic Pizza

    La mobile content creation è lo strumento giusto per cambiare linguaggio alle aziende.

    Produrre contenuti con telefonini e tablet e basare la propria strategia di immagine sulla mobile content creation sta diventando un’opzione di valore per chi voglia dare modernità alla propria strategia di comunicazione. Ne ho parlato in modo approfondito qui, se desideri andarti a rileggere quali possano essere gli effetti positivi di una comunicazione fatta con strumenti mobile.

    (altro…)
  • Social media live: consigli per non sbagliare

    Social media live: consigli per non sbagliare

    Social media live: un mondo di opportunità che stiamo sprecando. Ecco perché.

    I social media live sono una grande opportunità che stiamo continuando a sbagliare in modo incredibile. Più passo il tempo sul web a osservare questi tipi di format e più mi rendo conto che li stiamo producendo, realizzando con linguaggi e modi che arrivano dal passato e che non vogliamo cambiare. Semplice il motivo: abbiamo paura. I due principali modi di fare social media live che continuo a vedere in grande quantità e che ritengo sbagliati sono questi:

    1. IL BUCO DELLA SERRATURA (O BREAKING MODEL). Schiacciamo molto spesso il tasto start del nostro social media live davanti a eventi particolarmente significativi o a notizie delle quali abbiamo la fortuna casuale di poter partecipare. Ne escono dirette senza titolo, senza spiegazione, senza grafiche, senza qualità. Sotto questa categoria posso tranquillamente annoverare tutte le dirette che facciamo dagli account personali e anche alcune di grandi quotidiani italiani che, troppo spesso, aprono il social media live in modi sbilenchi e tremolanti, solo per l’esigenza di mostrare di essere sulla notizia.
    2. IL BROADCASTING MODEL. Aziende del mondo dei media e di altri mercati propongono generalmente social media live pieni di linguaggi televisivi, di situazioni statiche o di mera riproposizione del segnale tv su un canale diverso.

    Sono entrambi modi che esprimono un linguaggio vecchio su un medium e su un formato nuovo.

    Un mini kit “mai più senza”.

    Prima di dirti come realizzare in modo differente i tuoi social media live ti metto qui un kit che puoi portarti sempre addosso, leggero ed efficacissimo. Il tuo smartphone e il kit Shure MV 88+ sono i due componenti indispensabili per assicurarti una buona qualità di filming e una buona acquisizione dell’audio. Dentro lo smartphone, poi, basterà la tua app di Facebook, Youtube o Periscope per andare live. Se vuoi, invece, aggiungere elementi come la grafica devi dotarti di app come Switcher Studio: con quella avrai a disposizione strumenti come sottopancia, titoli, diagrammi, punteggi, per poter arricchire i tuoi prodotti con elementi di netta caratterizzazione.

    Gli elementi per non sbagliare i social media live.

    I social media live sono format che risultano notevolmente arricchiti dalle tecniche e dagli strumenti della mobile content creation. Oltretutto si tratta di un’espressione creativa che ha il cromosoma della mobilità nella sua ragione d’essere, visto che raggiunge i nostri telefonini, visto che ci raggiunge mentre siamo in movimento. Ecco alcuni elementi per sfruttare a pieno le potenzialità dei social media live:

    1. SCRIVILA. Devi approntare un vero e proprio storyboard, un canovaccio da rispettare, sebbene l’imprevisto sia sempre dietro l’angolo.
    2. ARRICCHISCILA. Un ospite, molto spesso, è un elemento di qualità. Ora perfino con le app native dei social, può essere portato dentro la diretta anche da remoto.
    3. OCCHIO ALLE CRISI. Un hater, una persona che compare nel tuo quadro, un disturbatore. Preparati un piano d’uscita dagli imprevisti.
    4. MUOVITI. La staticità del programma è la sua negazione. Fai un percorso che possa essere elemento del racconto che vuoi fare.
    5. SII RIPETITIVO. Ripeti spesso gli elementi del tuo live: chi sei, dove sei, cosa stai raccontando, con chi sei.
    6. PENSALA IN MODO INFORMALE. La mobile content creation è quella cultura che ti permette di entrare nella vita delle persone in tempi e modi completamente diversi da quelli ritratti dalle telecamere. Ecco, dacci dentro e crea aprendo il live su momenti intermedi di una storia, di un evento, di un’azienda.

    La tv emette gli ultimi rantolii.

    Con questi elementi farai piazza pulita di questi metodi televisivi con i quali usiamo il social media live, negandone le qualità mobili che questo mezzo ha innegabilmente. Gli ultimi rantolii della tv e dei mezzi di massa sono un dazio che possiamo fare a meno di continuare a pagare. Se utilizzi i social media live in questo modo raccontami nei commenti la tua esperienza e cerchiamo di costruire una nuova consapevolezza su questo interessante formato visuale che utilizziamo, per ora, veramente molto male.

    Foto di copertina di StockSnap da Pixabay

  • Facebook provoca tragedie e noi non ce ne accorgiamo

    Facebook provoca tragedie e noi non ce ne accorgiamo

    Facebook: il social di Menlo Park sta rovinando la società civile.

    La soluzione? Sei tu (e te ne accorgerai alla fine del pezzo). Se leggi le colonne di questo blog significa che ti interessi di mobile content creation, di comunicazione e di innovazione nel mondo dei media. Ho discusso e diffuso per anni la cultura del mobile journalism e di tutto quello che sta cambiando nel mio mondo. Ho parlato di mezzi, di strumenti, di software, di hardware e, naturalmente, di social network e di piattaforme sulle quali il nostro lavoro di comunicatori, in questo momento di grande cambiamento, sta evolvendo. Con questo scritto ho deciso di analizzare la situazione del principale social, Facebook, per fare suonare un allarme che non ho visto comparire sui media italiani. Un allarme rosso. Un allarme che mi preoccupa anche come papà, come Sharingdaddy.

    Facebook: l’articolo di Chris Hughes (passato sotto silenzio in Italia).

    L’articolo di Chris Hughes (passato sotto silenzio in Italia) è stato un cazzotto in faccia. L’ho letto e riletto e, dopo lo choc iniziale, ho visto bene la fotografia fatta a Mark Zuckerberg dal suo compagno di università e di stanza ad Harvard con il quale ha fondato Facebook, lavorandoci per un po’ e guadagnandoci bei soldini (tanti da non avere più problemi). Ti faccio leggere il pezzo, che spero tu legga fino in fondo per poi tornare qui.

    Opinion | It’s Time to Break Up Facebook

    Credit Credit Jessica Chou for The New York Times (Zuckerberg); Damon Winter/The New York Times (Hughes) The last time I saw Mark Zuckerberg was in the summer of 2017, several months before the Cambridge Analytica scandal broke. We met at Facebook’s Menlo Park, Calif., office and drove to his house, in a quiet, leafy neighborhood.

    Non sembra proprio una ripicca

    L’analisi di Hughes non sembra proprio avere motivazioni personali, visto che il buon Chris ha tanti di quei soldi da far spavento. Mi sembra, invece, un analisi lucida sull’uomo più potente del mondo. Già, perché Mark Zuckerberg è l’uomo più potente del mondo e condivide questo potere con pochi altri boss delle tech companies che, a un solo tasto di invio, potrebbero annullare intere nazioni. Sto parlando, per esempio di un Jeff Bezos o di un Sundar Pichai.

    Troppo potere per uno

    Ecco pensa a quest’ultimo: se l’amministratore delegato di Google decidesse di far sparire tutto quello che è italiano da big G il nostro paese subirebbe un tracollo del sistema economico. Si sposterebbero punti di pil in pochi minuti. Oppure pensate se Amazon vietasse a tutte le aziende italiane di vendere sul suo store online. Non è tollerabile. Non è tollerabile che Marchino sia lo zar della nostra privacy, il padrone dei nostri desideri. Non è possibile che un uomo solo, il quale ha potere di decisione sugli algoritmi del suo social network, abbia la facoltà di controllare la comunicazione dell’80% dell’umanità connessa a un social network o a un instant messenger (ti ricordo che anche Instagram e Whatsapp sono suoi). Non è possibile che possa condizionare l’elezione di un Presidente (e i più pensano che voglia candidarsi… a esserlo). Per questo vanno riscritte le regole del web e Tortoise ha anche cercato di far capire come. Ecco qui l’articolo, grazie al quale ho scoperto l’analisi di Hughes che si auspica di rompere Facebook per diminuire l’enorme potere acquisito.

    Si parla di Domination…

    Proprio nell’anno peggiore del Social, il 2018, Hughes osserva che la company ha avuto i guadagni migliori da tempo a questa parte. Strano, vero? Neanche tanto, visto che i casi della storia hanno mostrato che la visione di Facebook (“Essere internet per connettere”) si sta dimostrando vera. Non trasparente, non democratica. Il tutto sotto i nostri occhi rincoglioniti dai meme e dai gattini… o dai Salvini. Non ci stiamo accorgendo che la strategia di Domination del mercato è riuscita con il silenzio assenso delle società americane e di quelle europee che non hanno saputo far fronte alla marea di Faccialibro. La concentrazione di potere nelle mani di poche persone sta destabilizzando l’ordine sociale e non lo dico io, ma Hughes stesso e molti altri. Anche Marco Montemagno.

    Facebook domina, ma non risponde.

    Il nostro caro Zuck, quindi, domina, ma non risponde. Nessuno si permette di pressare oltre il lecito questo mostro tentacolare che sta diventando strumento con cui il populismo digitale sta prendendo possesso del nostro ordine sociale. Noi utenti continuiamo imperterriti a usarlo come Facebook vuole che noi lo si usi. Luogo dell’interazione reale e della condivisione di valore? No. Discarica della frustrazione e mezzo per lo sdoganamento di qualsiasi opinione o di qualsiasi percezione della realtà? Sì. Nel momento in cui, però, Facebook si rende correo della manipolazione del consenso, non rende conto alle autorità del suo operato. Ne ho avuto prova quando ho scritto questo articolo per il mio blog personale Sharingdaddy e quando ho letto il discorso della giornalista Carol Cadvalladr al Ted Vancouver sull’influenza di Facebook sul referendum della Brexit. Eccolo.

    Parola per parola, il formidabile discorso della giornalista che ha inchiodato Facebook

    Al TED di Vancouver Carole Cadwalladr, la cronista dell’Observer che ha scoperchiato lo scandalo di Cambridge Analityca (e che è stata bannata a vita da Facebook per questo), ha spiegato come i social hanno influito sulla Brexit. E come stanno facendo del male alle democrazie di tutto il mondo

    Non ci resta che fare mobile journalism su Facebook

    Sono convinto che il ruolo dei social network nella cultura della mobile content creation e della media economy sia determinante. I social e il mojo sono come due facce della stessa medaglia, come dicono Bradshaw e Hill nel loro “Mobile First Journalism“, vera bibbia del giornalismo in mobilità. Sono altresì convinto che questa situazione tragica nella quale ci sta facendo precipitare Facebook, il cadere in una domination di chi possiede tutti i nostri dati, ma non vede altri leggi che quella di un sempre più sorprendente profitto (a nostre spese, visto che i prodotti venduti siamo noi, non sia una cosa di cui ci siamo resi conto.

    Che arma ho in mano per ribaltare questa tragica discesa nel paese del controllo e del consenso pilotati? Il mio telefono, il coltellino svizzero multimediale con il quale posso invertire la direzione dei messaggi dal mondo a me in senso contrario. Per esempio producendo del vero giornalismo sui social, mezzo nel quale i miei colleghi si distinguono in una cosa soltanto: nello sparare la loro opinione.

    Il virus per l’algoritmo.

    Fare giornalismo sulla piattaforma di Menlo Park, smettendo di considerarla un driver di traffico e basta, potrebbe essere un virus per l’algoritmo in grado di far rivedere a Zuckerberg questo suo comportamento che, prima o poi, avrà una fine. Di due tipi: o il suo piano riuscirà o qualcuno lo porterà in galera. Se il suo piano riuscisse, io, tu e i nostri figli avremmo problemi molto seri.

    Però la provocazione di alzare il tasso di qualità dei post e degli articoli che vedi scorrere sulla tua bacheca è uno dei modi più efficaci di corrompere il bias di Facebook e per ampliare le tue cerchie e quindi i tuoi confini social. Il giornalismo che potresti fare tu sul tuo account o sulla tua fanpage è una delle poche cose che potrebbe ribaltare la situazione e far uscire allo scoperto le magagne, specialmente se corroborate da una connivenza dell’infrastruttura americana. Pensaci, prima che sia troppo tarti.

  • La follia di Trump, il Facebook Bias e la salvezza nel mobile journalism

    La follia di Trump, il Facebook Bias e la salvezza nel mobile journalism

    Proprio in questa notte di follia di Trump.

    Proprio in questa notte in cui Donald Trump apre le trombe della sua antipolitica folle spaccando il fragile equilibrio del Medio Oriente forse per sempre (“Riconosciamo l’ovvio, vale a dire che la capitale di Israele è Gerusalemme”) viene perfetto cercare di dare una risposta all’amica Simonetta che, qualche ora fa, si è chiesta come mai il giornalismo, in particolare modo quello italiano, non funzioni più nel modo obiettivo con il quale funzionava 40-50 anni fa. Le ho promesso che avrei risposto sul blog e, sinceramente, non pensavo di essere aiutato in un modo talmente evidente proprio da quell’idiota del 45esimo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

    Trump è il prodotto di un algoritmo pagato o “diretto”.

    Bene, la malattia dei media è iniziata più o meno una trentina d’anni fa quando qualcuno ha pensato che l’informazione potesse anche essere spettacolo. Al nascere dell’ infotainment, vale a dire di quella serie di programmi e di format, ma anche di media, di siti e di riviste che coniugavano e coniugano ancora l’informazione con l’intrattenimento, sono crollate le cinque W che reggevano il sistema di un informazione corretta. Prima c’era solo il fatto, riferito e connotato, corredato al massimo di tutte le voci pro e contro una determinata situazione.

    Da quel momento in poi Trump e i suoi cloni (Berlusconi in Italia) hanno costruito un nuovo archetipo dell’informazione che ha rinunciato a quello per creare community che rappresentassero un tipo di cliente “profilato” cui destinare una certa pubblicità, piuttosto che un’altra. La neutralità dei media è diventata discrezionalità, i giornali e le tv hanno iniziato a dire da che parte si doveva stare. I Trump e i suoi cloni sono diventati prima i proprietari, poi addirittura i prodotti di un algoritmo pagato o, comunque, diretto a creare bacini e comunità di consenso.

    Con i social media è poi il “bias” è diventato parte di noi.

    I social media hanno preso possesso dell’informazione mondiale travolgendo tutto il resto e lo abbiamo visto proprio con Trump. Il nostro ha spinto sull’acceleratore del populismo usando il bias alimentato dagli algoritmi, adeguatamente allestiti o “pagati”, delle piattaforme di scambio sociale sul web. Ma che diavolo è il “bias”, diventato parte integrante nella nostra vita proprio con i social? E’ un errore cognitivo basato sul fatto che preferiamo sviluppare interpretazioni sulla base delle informazioni che abbiamo in possesso di un determinato accadimento. Il mancato approfondimento dato dalla necessità di ricevere conferma della nostra corretta visione delle cose, porta distorsioni nel campo cognitivo e falsificazione della realtà.

    Facebook ha molte colpe

    Il social che più ci attira è Facebook, perché ci mette dentro un mondo di rassicurante vicinanza a noi, appunto grazie a un algoritmo che ha il merito (o meglio il demerito) di creare un onda di bias costante. Questo crea community sempre vicine e autoreferenziali e media che hanno cominciato a intrattenere una relazione con i propri lettori o spettatori sempre più distorta. Di Facebook Bias ne parla molto bene il New York Times in questo articolo, ma è sempre più chiaro che, nella pancia del social di Zuck o delle timeline di Twitter si sia creato questo mostruoso caso di antipolitico al potere che si chiama Trump. E’ come se il buon Donald avesse prima instillato la distorsione nei media con l’infotainment, poi si fosse messo a cavalcarla, nel mare del web, fino ad arrivare, cavallone dopo cavallone, alla Casa Bianca.

    Come il bias governato ad arte può cambiare il mondo.

    Se vuoi comprendere bene cosa sia successo e stia succedendo nella politica dei social network anche questo pezzo del Washington Times aiuta molto. Anche Google e tutti gli altri mostri del web hanno le leve del condizionamento in mano e creano bias ad arte, vere e proprie distorsioni. La cosa che mi turba più di tanto è che del bias parlano in pochi, ma condiziona tutti, delle fake news (che sono sinceramente un problema del cazzo) parlano in tanti e condiziona pochi. Un bias può cambiare il mondo per sempre, basta vedere la pazzesca operazione di cui ho parlato all’inizio che, stasera, non farà chiudere occhio soprattutto agli americani, ben consci della gravità delle azioni di governo di questo folle che è Donald Trump.

    Questa distorsione dei media, basata su errori cognitivi collegati alla necessità di essere rassicurati e accondiscesi, all’interno di community autoreferenziali come le nostre comunità social, è la grande malattia di oggi che deve essere guarita con un antidoto. Quale? La ricerca della diversità, della moltiplicazione delle voci, del ritorno dei campi e dei controcampi, dei punti di vista a 360°, dell’immersione esperienziale nei fatti e non nell’angolo guidato da una telecamera.

    Qual è la possibile salvezza?

    Stiamo raggiungendo livelli di disordine nel mondo pari ai tempi della guerra fredda o peggiori. Queste distorsioni sono all’ordine del giorno e ci impongono di essere attori della corretta informazione. Il mobile journalism e la sua capacità di far vedere più lati di un fatto con estrema facilità è un antidoto importante, ma è ancora più importante la formazione di una cultura digitale coerente che diventi al più presto materia del nostro vivere corrente e delle nostre scuole. Contro la distorsione delle comunità social nelle quali viviamo, le quali danno ragione al nostro pensiero senza metterlo in discussione, dobbiamo cercare la diversità, costruire la diversità, amare la diversità. Solo così ci potremo salvare da Donald Trump e da tutte quelle stanze dei social network che ci danno ragione. Mio figlio non ha bisogno di avere ragione, mio figlio ha bisogno di visione multipla della realtà. E io gliela darò. Voi?

    Simonetta, spero di averti spiegato come mai l’informazione è morta. E’ tutto scritto qui. Anche se forse c’è una cosa che non ti ho detto: in Italia c’è qualcosa di peggio che è l’impoverimento dei media nazionali che si seguono l’un con l’altro per paura di non avere l’uno le notizie che ha l’altro. Sai cosa succede alla fine? Che sono tutti uguali a Repubblica.it del giorno prima o di qualche ora prima. Quindi in Italia manco abbiamo solo il problema del bias, ma anche il problema di un intero mondo dell’editoria che si copia e si parla addosso, spesso dandosi ragione. Facendo morire la coscienza intera di una nazione.