Da quando sono diventato videomaker e mobile journalist studio tutti i giorni. In particolare modo studio e rubo dagli altri un’arte che non ho imparato a scuola. Di cosa sto parlando? Dell’arte dell’inquadratura. Il mobile journalism aiuta molto a pensare alla qualità dell’inquadratura, anche perché la strumentazione è talmente leggera, performante e facile da piazzare che si può gestire in un tempo molto breve. Il resto del tempo di produzione lo si può dedicare alla creatività, alle posizioni da cui filmare l’immagine solo quando la ritieni perfetta. C’è un format da cui sto imparando moltissimo in questi giorni, un format che si chiama “Humans of New York”. Chi frequenta Facebook lo conosce molto bene. Ebbene, quel format sta facendo una web serie nella quale l’inquadratura è una forma d’arte, del tutto particolare.
Humans of New York, la vita presa davvero.
Ci sono quadri, interviste, situazioni della serie Humans of New York che stanno completamente sovvertendo la grammatica del video. Anzi, spaccano tutto. Noi italiani vivremmo questo come un errore, ma il team di quella fanpage che è diventata un fenomeno mondiale, ha preso e spappolato ogni paradigma della buona inquadratura a vantaggio della vita vera dei personaggi e dell’empatia delle storie.
Nei video di quella serie, il team di Humans of New York ha lasciato immagini nelle quali si vede il cane dell’intervistato abbaiare interrompendo il discorso, immagini nelle quali la camera viene spostata da un passante o l’intervista viene bruscamente interrotta da una fuga della bambina che, fino a poco prima, era tra le braccia del padre. Tutte immagini che verrebbero tagliate da qualsiasi produzione italiana, tutte immagini che a Humans of New York fanno parte del grande gioco di ritrarre la vita.
Lo dico al buio, ma Humans of New York mi sembra mojo.
Per quei movimenti della camera, per quelle splendide immagini imperfette (chissà poi secondo quale paradigma) la serie Humans of New York mi sembra proprio fatta in mobile. Non so se lo sia, ma è bello pensare che comunque il linguaggio visuale del famosissimo format sia un linguaggio ampiamente abbracciabile dal mobile journalism. Per quel suo senso di verità, per quel suo essere più particolare, disintermediato e vicino al senso vero dell’esistenza. Piccola morale senza importanza: guardati Humans of New York e spacca tutte le regole quando filmi. Tranne quelle della bellezza e della verità di un’immagine.
Ho venduto tanti contenuti giornalistici nella mia carriera e ho capito che, per vendere un format, non esiste una regola o una legge, ma un momento magico. Durante la Mobile Journalism World Conference di Galway, sui ho partecipato ormai una decina di giorni fa, ho assistito a un panel che parlava di documentari e long form storytelling fatto con le tecniche del mobile journalism. E ho trovato sulla mia strada un maestro di livello mondiale. Si tratta del 45enne Mike Castellucci, professore di giornalismo della Michigan State University di East Lansing, vincitore di 20 Emmy per la Tv con i suoi format come “Open Mike” o “Phoning it” grazie ai quali ha imposto al grande pubblico americano il suo linguaggio visivo mojo e la sua straordinaria verve nel far parlare i protagonisti delle sue splendide storie minime.
Ho cercato di derubarlo.
Mentre tutti gli chiedevano i segreti delle immagini (un miscuglio di talento americano e di faccia da culo italiana) io gli ho chiesto banalmente come si riesce vendere un format. Come diavolo si fa a creare quella magica interazione con il compratore che, di solito, se acquista acquista in pochissimi secondi quello che gli proponi (50-60 mediamente). Quando con un capoccia cui proponi un pezzo, devi parlare, infatti, più di un minuto, solitamente non ti piglia nulla. Se scrivi una mail di più di dieci righe, il capoccia non la leggerà.
Ho cercato di rubare il segreto a Castellucci che ha prodotto e pensato con lo smartphone prodotti da urlo e poi li ha venduti (certo in un mercato diverso dal tuo e dal mio). “La risposta non ce l’ho – ha detto il prof -, ma so che la gente cui vendo il mio lavoro lo vede e gli piace. E gli piace perché in qualche maniera riesco a raccontare una storia e questo è tutto quello che vogliono. Racconta una storia e se è una gran storia, se è ben scritta, se è interessante, se mi coinvolge, allora la gente la comprerà”
La risposta filosofica
Comunque in qualche modo ha risposto: “La cosa che dovete fare è darvi una risposta filosofica alla vostra domanda – ha continuato il videomaker -. La vostra risposta deve essere la storia, non la tecnica. Come si fa a trovarla? Una delle ultime domande che mi sono state fatte durante Mojocon era di una donna che mi ha detto ‘non riesco a trovare il grande soggetto’. Ho risposto: sfidatevi. Sfidatevi perché tutti hanno una storia da raccontare. Davvero tutti. E questa storia è interessante, coinvolgente e qualche volta anche emozionante. Potrebbe non essere sopra la superficie come una collezione di bambole (il riferimento è al format di RTE The Collectors, ndb). Quella è un’idea molto facile. Tuttavia vi garantisco che se voi andate da ognuna delle persone che vi stanno intorno hanno una splendida storia da dirvi. Devi solo sapere come metterla giù”.
E come diavolo si fa a vendere?
Castellucci non ha ricette magiche, ma parla. Tuttavia mi ha detto come fa. “Di solito vai da un boss e gli dici ‘Ho una gran storia per lei’ e non ti crede. Di solito non ti presta attenzione e non la vuole vedere. Ebbene, vi dico che in qualche diavolo di modo dovete cercare di fargliela vedere. Un minuto: non di più! Dico anche un’altra cosa. Ho progettato il mio flusso di lavoro sapendo di quel minuto da fare e di voler essere sicuro che quando schiacciano il tasto play per vederlo quello è il minuto migliore. In qualsiasi lavoro, quindi, quel minuto, il primo minuto, deve essere il più bello. Lavoro a piramide rovesciata: il bello davanti e poi a scendere. Certo vorrei che tutto il lavoro fosse bello alla pari, ma spesso non ci si riesce”.
Le informazioni per seguire Castellucci
Se volete vendere un format o un contenuto, quindi, seguirlo a vista è assolutamente interessante. Il professore, che mi ha rivelato di avere il 100% di sangue italiano ha chiuso così la chiacchierata: “Il mojo è una cultura: questo è il punto. E’ qualcosa che può cambiare la carriera dei freelance perché non hanno bisogno di equipaggiamenti da centomila euro per fare grandi lavori. La mia attrezzatura ne costa mille. Non buttatevi nel fuoco con grandi spese. Questa attrezzatura mobile fa sentire anche liberi perché è leggera. Se ì l’onda del futuro? Non lo so, ma per me la cosa che so è che posso uscire con questa, andare in un’altra città, trovare una persona che ha una storia da raccontare e catturarla”. Il blog per seguirlo è questo: fallo.
Il Mojo? Inizia dal personal branding e da Facebook
Sulle pagine di questo blog ho parlato di Mobile Journalism in questo articolo e di Personal Branding in quest’altro articolo. Non credo di dire una cosa così originale se lego in modo stretto e consequenziale le due cose, visto che il Mobile Journalist è una professionalità che trova la sua piena realizzazione nel mondo del web e del broadcast. Quindi anche su Facebook.
Per questo motivo le mie letture personali, i miei studi, dopo una visione d’insieme del Mobile Journalism, si sono indirizzate verso la ricerca della corretta formattazione “social” della personalità di un Mojo. Il risultato? Mi sono dovuto immergere su Facebook per verificare con gli strumenti più adatti quale debba essere una corretta formattazione dei propri profili e delle proprie manifestazioni giornalistiche all’interno del più frequentato e del più potente tra i social network (ma lo dico subito, non ho tralasciato gli altri). Per essere un buon mojo, dunque, bisogna iniziare dal corretto personal branding e per avere un corretto personal branding è il caso di iniziare da Zuckerberg.
Il live di Facebook? Prima di farlo bisogna capirlo… e vestirlo
Su come si allestisca un buon profilo Facebook ci sono migliaia di articoli sul web e ottime pubblicazioni. La cosa si fa un po’ più particolare quando ci sia avvicina alla necessità di comprendere lo strumento del live che, per i giornalisti, è lo strumento più importante, più particolare.
Sono alcuni mesi che guardo ogni tipo di diretta fatta nel mondo dell’editoria italiana e dalla visione ho tratto molte indicazioni valide, ma non ho ancora compreso (e questo è il problema) se vi sia il modo di allestire un corretto format giornalistico per poterle proporre anche dal mio account e, successivamente, dalle pagine Facebook o dai gruppi che in futuro progetterò sui miei argomenti che, come sai, sono le nuove tendenze del giornalismo (in special modo il Mojo) e la genitorialità maschile. Un articoletto del Neimanlab che potete vedere qui mi ha però incuriosito: si tratta di questo.
Si tratta della notizia del lancio di alcuni corsi online (webinar) per i giornalisti per dare loro modi e strumenti per migliorare il modo di usare il social se si è nel mondo dei media. Bella mossa per togliere i giornalisti dall’attaccamento viscerale a Twitter. I cronisti stessi, tuttavia, prima di lasciare l’immediatezza e la velocità di twitter per catapultarsi dentro Facebook devono capire lo strumento e vestirselo addosso. Quali sono i tuoi argomenti di elezione? Come vuoi presentarti al potenziale pubblico? Cosa vuoi raccontare? Come lo vuoi raccontare?
I consigli del “mostro” di Palo Alto
A questo proposito i link cui rimanda l’articolo del Neimanlab sono molto interessanti e rimandano agli strumenti forniti dal “mostro” di Palo Alto. Te li raccomando come fossero delle bibbie. Si tratta del gruppo di Facebook “News, Media and Publishing on Facebook” che è un vero ricettacolo di informazioni e istruzioni ottime sui modi, i metodi, gli strumenti e quant’altro faccia rima con la pubblicazione di contenuti editoriali su Facebook. Ci sono talmente tante cose da leggere che ti consiglio di prenderti del tempo per farlo. Poi c’è anche la serie di corsi gratuiti che la piattaforma ha rilasciato martedì 25 ottobre e che sono orientati proprio agli operatori nel mercato dei media. Anche per quelli consiglio tempo, matita, blocco note e una gran voglia di imparare. Sono tutti fondamentali.
Hanno tuttavia un problema: Facebook, come filosofia, non ti dà solo lo strumento per la pubblicazione più impattante e immersiva che si possa volere, ma va oltre. Andando oltre va nella direzione che vuole: dà, infatti, tutta una serie di consigli che servono a far aumentare il tempo di permanenza e di visione dei contenuti, di modo da “usare” a suo piacimento la qualità, la professionalità, il pubblico e gli argomenti per il proprio obiettivo e non per il suo.
Il rimedio: pensare al format
La risposta a un tale indirizzo non può che essere in due passi. Il primo è la conoscenza specifica di tutto quello che fa rima con la pubblicazione di contenuti editoriali via Facebook, soprattutto nell’area Live, sulla quale ti invito a guardare anche questo link. Il secondo è la creazione di un format del tuo modo di proporti e del tuo modo di andare live. Anche questo social, come twitter, è uno strumento determinante per creare un pubblico, una net personality e, di conseguenza, un bacino di potenziali clienti per i tuoi servizi di comunicazione, giornalistici o editoriali in genere. Se vai live vacci con dei crismi, dei criteri, dei modi.
Vacci ciclicamente, anticipando il tuo live con un avviso sulla tua bacheca, mettendo al tuo live una didascalia accattivante e proponendo un modo di sviluppare le tue dirette che sia preciso, ripetibile e diretto a uno scopo preciso, possibilmente quello di creare una chiara utilità a chi ti segue.
Non andare live tanto per andare, anche se penso sia bello mettere nel proprio palinsesto live anche qualche momento personale o qualche “QandA” con chi ti segue. Stabilisci un format tuo, percorribile, rinnovabile, sensato, giornalistico, personale. E vai. Un format si progetta nel modo più vecchio del mondo: penna e blocco, pensiero e azione. Sugli strumenti per fare una decente diretta di Facebook mi dilunghero nei prossimi interventi. Per ora ti resti l’imperativo: studia, progetta, pensa. E vai live solo se ha senso, un senso per la tua professione e il tuo personal branding. Non c’è, quindi, un modo corretto di andare live su Facebook, ma c’è un proprio modo di andare live su Faceook. Trovalo, ti conviene.