Tag: media

  • Il contenuto non è democratico

    Il contenuto non è democratico

    Se il contenuto è re (e lo ha già detto qualcuno), il re non è democratico.

    Sono in Friuli e fa un freddo cane. Son qui per affari di famiglia. Sono momenti nei quali penso a quello che devo fare, ma anche a quello che voglio scrivere. Mentre faccio commissioni o sposto scatoloni, mi iniziano a girare nella testa parole che si mettono a posto e danzano una danza sempre più regolare. Attorno a una cosa che ho saputo, attorno a una che ho visto o vissuto. Su una cosa che ho pensato. Si chiama produzione del contenuto. A me viene in modo istintivo e il mio piano di social e contenuti mensili finisce spesso a essere sbeffeggiato dalla mia realtà incipiente.

    Il contenuto chiede rispetto

    La riflessione che faccio oggi è una riflessione che parte da un’esperienza più volte vissuta. Io vivo di contenuto, vivo di parole e immagini, vivo di creatività “direzionata” se è vero che devo trasformare in contenuti i progetti, i pensieri e le parole dei miei clienti. Però per i contenuti ci vuole rispetto.

    Allora ho pensato a questo giro di parole attorno al contenuto. Il contenuto chiede rispetto perché il contenuto sei tu. Se produci i contenuti per raccontarti o raccontare i tuoi percorsi, quello che mostri al pubblico deve essere progettato in modo serio, deve dare valore agli altri, essere utile, di ispirazione o di riflessione, ma va preso per quello che è. Nessuno può permettersi di discuterne la forma, è pretestuoso attaccarsi a una virgola per discutere il senso di quello che dici, fai vedere o fai sentire.

    Ci possono stare i rilievi sulle imprecisioni, sui refusi, sugli errori strumentali. Non ci può stare la discussione sul senso che attacchi il contenuto per tirarlo giù. Se quello è il tuo quadro, chi lo osserva non può obiettare che hai messo le tue pennellate nel posto sbagliato. Può invece, dire, non mi piace. Può non essere d’accordo. Può recepire un messaggio diverso da quello che avevi intenzione di dare tu.

    Se il contenuto è per un tuo cliente

    Anche in questo caso, per il contenuto che crei tu e che deve interpretare i desiderata di una persona o un’azienda che te lo ha chiesto, il contenuto non si può prestare allo sbrandellamento dei non mi piace e dei “mai io me lo immaginavo…”.

    Il contenuto che crei per terzi, parte dai terzi. Se quello che ritorna tra le loro mani è divergente rispetto a ciò che pensavano non è tuo il fallo. E’ loro. Perché finita la parte di concetto per allestire un contenuto, beh, lì entri in campo tu. Tu con la tua poca o tanta cultura, tu col tuo vissuto, tu coi tuoi pensieri. Chi ti ha chiesto un contenuto si suppone (se non lo ha fatto, male) che abbia letto e visto prima i tuoi contenuti. E sia venuto da te perché te vuole.

    Allora deve fare a fidarsi. Sapere che il contenuto che produrrai è il meglio della tua creatività, ma che non può sedersi al volante della tua macchina creativa, perché lì ci sei e resti seduto tu. Può rilevare errori, imprecisioni, cose non convenienti al suo progetto, ma non può dire “non mi piace”. Il contenuto non è democratico perché il contenuto sei tu e quel tuo modo di trasformare il vissuto, l’ascolto, lo studio, l’osservazione, l’emozione, il sentimento, in contenuto è solo tuo.

  • Membership, media e smartphone: ecco il futuro

    Membership, media e smartphone: ecco il futuro

    Creare membership, parlare attraverso lo smartphone: ecco il futuro dei media.

    Studiando la Mobile content creation, in questi anni, ho studiato anche l’evoluzione dei media. Le parole strategiche per creare informazione di successo, nel 2021, restano due, almeno a mio modo di vedere: membership e smartphone. Lo dicono gli esempi di successo, lo dice l’evoluzione del telefonino per il quale il presente e il futuro è quello di una macchina totale. Specifico meglio: lo smartphone è passato da finestra dalla quale guardare il mondo a chiave per aprire le porte del mondo.

    La membership e il concetto di valore della conversazione

    L’ho già detto tempo fa, quando ho pubblicato su questo blog un’intervista a Kathie Vanneck-Smith, co-fondatrice di Tortoise. uno dei medium di maggiore successo di questi ultimi tre anni. Se i media vogliono creare valore economico, devono pensare alla conversazione con i loro lettori. Devono trasformarli in membri fondatori di una comunità attorno a dei valori e a dei temi. Ecco il concetto di membership per i media.

    Il lettore deve pensare di essere importante, di valere e di essere sentito, ascoltato, capito. La membership dei media, quindi, si deve basare sui valori condivisi che si sviluppano con contenuti utili, importanti e impattanti per chi li legge. L’epoca dei media di massa è finita da un pezzo, bisogna solo rendersene conto.

    C’è solo un modo per essere importanti per i lettori: dialogare con loro. Il mezzo e il posto migliore per fare questa conversazione è lo smartphone. Ecco perché la seconda parola importante per creare media di successo è smartphone.

    La mia membership, il mio smartphone

    Sono abbonato a due soli media: il già citato Tortoise e theSkimm. Hanno alcune caratteristiche comuni. Eccole:

    • Hanno siti semplici con pochi contenuti di qualità
    • Hanno una app di qualità eccezionale basata sull’interazione con il lettore
    • Creano eventi di valore (incontri, corsi, webinar)
    • Contengono contenuti multimediali (audio, video, testi, foto)
    • Interagiscono con i telefoni dei lettori (perfino con i loro calendari personali)

    Con queste caratteristiche ti sarà facile pensare al motivo per cui ho acquistato la membership volentieri. Semplice: questi media sono importanti per me perché mi fanno sapere e capire cose che gli altri media non mi fanno sapere e capire. Secondo: questi media mi parlano e io parlo a loro. Per questo sono importanti.

    I vecchi media e gli smartphone media

    Il mondo dei media tradizionali deve staccarsi dai suoi modelli, ma per molti sarà impossibile. L’innovatore del mondo dei media Francesco Marconi sta tracciando da tempo la via e bisogna seguirlo. L’epoca del prodotto giornalistico “one fits for all” (uno va bene per tutti) è terminata. Dai media devono uscire prodotti giornalistici che vadano bene per una comunità (combattendone eventuali bias cognitivi) o addirittura media responsivi alle diverse esigenze di ogni lettore. A base di Intelligenza artificiale.

    Vuoi approfondire il discorso? Clicca qui.

    Leggi anche:

    Clubhouse, il bello di un social che non è un social

    La forza di una rete di smartphone

    Google Keep: la app che cattura le idee

  • Il mobile journalism è l’Uber del giornalismo? Ecco perché no

    Il mobile journalism è l’Uber del giornalismo? Ecco perché no

    Uberization: la cosa riguarda anche il mojo?

    Dopo la conferenza di Parigi, cui ho partecipato, ho letto e visto articoli che parlano del momento del mobile journalism e ho avvicinato il concetto che il mojo possa essere un Uber del giornalismo. Voglio fare questo ragionamento e proporre una soluzione per spiegare che, a mio avviso, il mobile journalism è quanto di più lontano ci sia dall’ Uber della professione dei media. Insoma la uberization del lavoro non riguarda anche il mojo.

    Eppure sembra il contrario, il mojo sembra Uber

    Conosci il concetto di uberization? Sicuro? E’ un processo che sta riguardando molte professioni, ma parte dal business sviluppato dalla famosissima applicazione che mette in comunicazione gli autisti di vetture con chi ha bisogno di passaggi. Uber è stata una rivoluzione nel mondo del trasporto di persone e anche un terremoto nel mondo del lavoro. Dalla nascita di quella applicazione in poi sono stati molti i campi lavorativi colpiti dalla disintermediazione. Una parentesi: va spiegato anche il termine disintermediazione, perché altrimenti non si capisce un tubo.

    In generale, si parla di disintermediazione per spiegare come, nel processo di sviluppo di un lavoro o della creazione di un  prodotto o servizio, siano stati tolti dei passaggi per merito della tecnologia. In tanti settori, dalla grande distribuzione ai trasporti, dall’ospitalità ai media, sono comparsi nuovi flussi di lavoro e di produzione di ricchezza che hanno tolto passaggi intermedi e portato molto più vicino offerta e domanda di un determinato bene o servizio.

    Nel giornalismo è successo di tutto.

    Nel giornalismo è successo di tutto. Il salto della mediazione giornalistica quando sono comparsi i primi contenuti generati dagli utenti è stato immediato. Dai primi video su Youtube e sui social è stato un attimo considerare il giornalista sorpassato. Qualsiasi possessore di telefonino è in grado di fornire una notizia e qualsiasi medium online è in grado di pubblicarla al volo. In questo nuovo scenario i media si sono ritirati sulla torre d’avorio di una cultura “tv o computer centrica”, mentre gli operatori dell’informazione hanno coltivato l’idea della minaccia dello status quo e del linguaggio “corretto” del video da parte degli aggeggi che hanno trasformato tutti in reporter.

    Ora ci si mette pure il mojo.

    In questo marasma disintermediato ci si mette pure il mobile journalism che è una cultura professionale che vuole ripensare il mestiere collegato ai media come un mestiere da ricodificare con il linguaggio che producono telefonini e tablet. Ho avuto molte esperienze dirette su come viene percepito il mojo dalla generalità dei lavoratori dei media. Viene percepito come un Uber (oddio devo fare tutto da solo) o come un gadget, come un qualcosa in più nel quale rifugiarsi quando non si riesce a fare le cose come si deve. In ogni caso, il mojo è considerato come un linguaggio inferiore e meno qualitativo rispetto al videomaking giornalistico con le attrezzature classiche (parlo di videocamera e computer).

    Ho anche verificato con testimonianze dirette come il mobile journalism non venga percepito come un’esigenza in strutture grosse. Il motivo? Culturale: il mojo non è mainstream perché la preoccupazione principale delle newsroom italiane (e non solo) e quella di autogustificare lo status quo e i meccanismi produttivi che impegnano le redazioni da anni nello stesso modo, con lo stesso linguaggio. Non c’è, in Italia, un medium che produca contenuti giornalistici ed editoriali interamente realizzati con lo smarphone. Il tutto in un mercato che è quello di un popolo intero che vede le informazioni, le notizie, i video, i programmi, insomma, tutto, da un telefonino. Perché? Perché i video sono un linguaggio tv anche sui siti web o nelle app?

    Ecco perché Uber non c’entra.

    Il mobile journalism non è l’uber del giornalismo e ora comincio a spiegare perché. Lo ha anticipato Nick Garnett facendo un ragionamento un po’ diverso da questo in un pezzo che parlava di morte del mojo, cui io ho anche risposto in questo modo. In questo scambio non si parlava del mojo come dell’Uber del giornalismo, ma proprio dell’essenza del mobile journalism che deve sapersi presentare sinceramente e senza necessità di giustificazioni come nuovo giornalismo (e basta). Io non posso permettermi, noi non possiamo permetterci di equiparare il mojo al giornalismo normale in Italia.

    Il mojo italiano deve ancora nascere?

    La cultura del mobile journalism nostrano deve ancora nascere. C’è un passaggio, però, che è molto importante e fa capire in un colpo come il mojo non sia il mezzo ma un linguaggio nuovo. Sì, possiamo anche definirlo come assolutamente disintermediato nei passaggi di produzione perché ormai il mobile journalist è in grado, come un’autista Uber, di fare tutti i passaggi del suo lavoro, fino alla pubblicazione, quindi alla definitiva consegna del proprio prodotto, da solo.

    Però quello che è successo non è stata una uberization del giornalismo, ma un completo smarrimento dello stesso di fronte a un cambiamento di linguaggio. Nick Garnett fa del mobile journalism una fotografia chiara, la quale dovrebbe rasserenare tutti dall’ipotesi di automatizzazione del giornalista. Visto che la tecnologia che ci offre il telefonino è uguale e potentissima per tutti, dice il giornalista della BBC, si può dire che siamo tornati all’anno zero del giornalismo, quello nel quale avevamo tutti in mano la stessa arma. Quale? Un taccuino, una penna, venti pence per fare una telefonata e dettarla al collega dimafonista. Allora abbiamo bisogno di questo:

    The training we need to give now is not how to create the content. We can all create.  There is still a need to explain and ease the editing process – it’s getting easier but the learning curve is a steep one but, more importantly, we have a duty to those who are joining us to explain the nuts and bolts of truth, self-editing, an awareness of journalistic law, of defamation, of libel, of the importance of cultivating contacts, about responsibility and the pre-requisite of desire to uncover the things that people don’t want you to talk about.  We need to be able to tell people what’s happened.

    Il nostro taccuino è il telefono.

    Ecco perché il mobile journalism non è l’Uber del giornalismo. Perché taglierà, come Uber, molti passaggi, ma resta solo un mezzo e un linguaggio nuovo per ricominciare, su mezzi diversi di diffusione, ma ugualmente destinati all’uomo, a raccontare le storie, le notizie, la realtà. Il mobile journalism, quindi, è quanto di più lontano da Uber esista ed è un movimento culturale che sta riportando il giornalismo alla sua essenza, condita solamente da un cambio di oggetto di registrazione e produzione del contenuto tra le mani. Una volta era il taccuino, oggi è il telefono. Ecco, già che ci siamo. Ora che siamo tutti alla pari, ora che abbiamo tutti condizioni simili di partenza, beh, proviamo a vedere chi è davvero bravo a spacciare giornalismo?

  • Giornalismo 2018: per vivere bisogna cambiare linguaggio

    Giornalismo 2018: per vivere bisogna cambiare linguaggio

    [fusion_builder_container hundred_percent=”no” equal_height_columns=”no” menu_anchor=”” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” class=”” id=”” background_color=”” background_image=”” background_position=”center center” background_repeat=”no-repeat” fade=”no” background_parallax=”none” parallax_speed=”0.3″ video_mp4=”” video_webm=”” video_ogv=”” video_url=”” video_aspect_ratio=”16:9″ video_loop=”yes” video_mute=”yes” overlay_color=”” video_preview_image=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” padding_top=”” padding_bottom=”” padding_left=”” padding_right=””][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ layout=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” border_position=”all” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” center_content=”no” last=”no” min_height=”” hover_type=”none” link=””][fusion_text]

    Giornalismo 2018: per dare una mano cambierò nuovamente mezzi e modi.

    In questi giorni, nella penombra del mio piccolo studio, sto progettando il prossimo anno di lavoro. Lo sto progettando nei concetti, nei viaggi, nei miraggi, nei progetti e nei linguaggi. Questo 2017 è stato un anno bellissimo e ha avuto il pregio di essere un anno pionieristico. Spero di aver costruito una community interessata a questa materia e a quello che sarà il giornalismo nel 2018 e negli anni a venire. Strano, ma siamo di fronte a un cambiamento di epoca, nel quale, però, i giornalisti, specialmente italiani, stanno recitando per la massima parte il ruolo delle vittime, invece che quello dei protagonisti. Per questo motivo, nel 2018, in questo progetto in cui al centro c’è la mobile content creation e tutte le sue sfumature e ai lati l’innovazione, il mio obiettivo numero uno sarà cambiare il linguaggio, pur rimanendo nell’ambito del giornalismo.

    Ormai il giornalismo può e deve essere ovunque.

    Non comprendo più i confini di un medium e la sua necessità di esistere in quanto mezzo oppure in base al suo passato o magari in base ai poteri economici che possiede. Accetto la sfida che il giornalismo debba essere ovunque e non dentro i confini di un paradigma che ha perso peso, onestà e potenza come quello dei media come oggi li conosciamo. Nel giornalismo targato 2018 non possono esserci confini, modelli, linguaggi che siano giusti e linguaggi, confini e giornalismi sbagliati.

    Nel giornalismo 2018 posso ritenere di essere un punto di riferimento da cui si fa direttamente quando si vuole sapere qualcosa di nuovo sul mobile journalism. Ho una nicchia, una specificità e un parco dove rappresentare un porto cui approdare. Per questo motivo, nel giornalismo 2018, non credo che si possa ancora parlare di giornali buoni e giornali sbagliati, di tv buone e cattive. Il linguaggio del giornalismo deve raggiungere il lettore ovunque. Nemmeno soltanto su Snapchat o su qualche social. Il giornalismo 2018 sarà un tweet, uno snap, una storia, un reportage, ma anche dei moments, un percorso visuale, un’esperienza umana, un trasferimento di emozione. una moltiplicazione di punti di vista.

    Da una moltiplicazione di linguaggi a una moltiplicazione di modelli di business.

    Il mio guru di giornalismo Michael Rosenblum, che sia il 2018 o il 2052, dice sembre una cosa: “No money, no good journalism”. Allora il giornalismo 2018 è un giornalismo che va pagato, per farlo andare verso la metamorfosi. Un giornalismo che deve sperimentare modelli senza editori, linguaggi senza verità preconfezionate. Il tg? Forma morta. Il quotidiano? Nessuno capisce dove va. Però ci sono modelli che funzionano e che bisogna avere il coraggio di proporre al mercato. Il giornalismo 2018, per essere chiari, andrà fatto su qualsiasi mezzo e in qualsiasi modo possa rompere gli schemi. Tuttavia andrà anche pagato. Punto. Ora che non seguo più Salvini o i pedatori allo stadio, ora che non faccio servizi da tg da 1’40” non mi sento meno giornalista. Vedrete che nel 2018 mi allontanerò ancora da questo vecchiume, in un modo che non potrete dimenticare, ma non potrete non ritenere giornalismo. Tra l’altro totalmente mobile.

    Poi c’è il rivoluzionario Rosenblum che traccia un’altra strada.

    Bisogna cambiare linguaggio nel giornalismo 2018. Ho visto tutto il lancio di questa iniziativa imprenditoriale che si chiama Brooklyn Tv e che è il primo esempio di local tv crowdfunded e crowdsourced del mondo (credo). Se non lo è beh, Michael è figo lo stesso. Comunque per un territorio da oltre 20 milioni di persone il nostro si è inventato la prima Local TV crowdsourced. I cittadini verranno formati per fare i mobile journalist e pagati per i servizi che fanno. Potranno, se non ho capito male, anche detenere quote della TV ed entrare nelle stanze dei bottoni. Vedremo quando andranno “onair”, ti terrò informato.

    Concludendo, nel 2018 inizio la trasformazione e la produzione di contenuti, con nuovi linguaggi e nuovi formati. I timidi test che ho fatto sono poca, pochissima cosa. Il tutto con l’obiettivo di puntare a nuovi luoghi e nuovi modi di fare giornalismo…. attenzione, attenzione… VENDIBILI!. Confrontiamoci, parliamoci, scanniamoci, ma lasciamo a terra qualsivoglia tipo di verità costituite. Qui di verità non ce n’è più. Il primo gennaio, io, ricomincio da zero questo progetto. Vieni con me?

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  • Reuters Digital News Report 2017: in Italia solo il 5% paga per le news online

    Reuters Digital News Report 2017: in Italia solo il 5% paga per le news online

    Il Digital News Report della Reuters serve a capire dove siamo.

    Questo blog ha l’ambizione di essere anche una fonte di documentazione sulla professione giornalistica che possa aiutare chi lavora in questo campo a comprendere meglio l’epoca in cui viviamo e la direzione che sta prendendo. In questo senso il Digital News Report della Reuters, pubblicato con l’Università di Oxford, è una sorta di faro nella notte per capire quale sia la strada da prendere.

    Studiando queste cose, noi mobile journalist freelance (per la maggior parte), non possiamo pensare di risolvere il problema del nostro esangue portafoglio o del destino dell’editoria. Su questo tipo di documenti, invece, dobbiamo pensare e valutare le possibili soluzioni per proporre nuovi contenuti ai nostri clienti o a pensare di fare formazione su nuove tendenze del giornalismo e della creazione di prodotti multimediali.

    Una specie di cartina geografica.

    Questo Digital News Report ci racconta come sono i principali mercati mondiali della notizia e ti può essere utile come fosse una cartina geografica. Indica delle strade, dei trend, degli indicatori di crescita in certe aree delle digital news piuttosto che in alte. Naturalmente se non sai fare video sei un filo fuori dalle possibilità di intraprendere la strada dei contenuti nuovi, dei prodotti che servono al mercato della comunicazione oggi. Per questo, dopo aver letto questo report, ti consiglio di andare qui a iscriverti a un corso base di Mobile Videomaking della community Italianmojo. Imparerai a fare video professionali con il telefonino che hai in tasca. In da quel momento in poi, capire i trend, capire i cambiamenti del mondo delle news sarà più facile.

    La bastonata ai giornali italiani.

    Sono andato a pagina 78 del report per scoprire che ne pensano dell’Italia. Ti rivelo subito una cosa: in Italia pagano per le news digitali il 5% delle persone che “consumano” news. Una percentuale avvilente, stante il fatto che per fare buone news servono soldi.  Eccoti la frase “bastonata” allo stato dei giornali italiani passati da 6 milioni di copie nel 2000 a 2,5 nel 2016…

    Newspaper readership has always been low in Italy and the press landscape consists of commercially weak quality papers addressing an elite and politically defined audience. The weakness of the Italian press has fostered its reliance on external sources of financing, such as public subsidies and private business sponsorship, which has made it somewhat subject to both political and economic influence. Newspaper circulation in Italy has decreased from more than 6 million copies per day in 2000 to a little more than 2.5 million in 2016.37. The two main players, Gruppo Espresso, which publishes La Repubblica, and RCS, which publishes Il Corriere della Sera, together account for about 40% of the sector revenue.

    Hai capito? Ti traduco io: il contesto è fatto di giornali di bassa qualità che si rivolgono a una definita elite politica. La debolezza della stampa italiana è dovuta principalmente alle fonti esterne di finanziamento, come i sussidi pubblici o le sponsorship private che hanno messo il sistema sotto l’influenza della politica e dell’economia.

    Ecco il documento: Digital News Report 2017 – Reuters. Buona lettura, spero tu possa trovare la tua strada.

  • Riflessioni davanti al cadavere del giornalismo italiano

    Riflessioni davanti al cadavere del giornalismo italiano

    Il giornalismo visto da un treno.

    Scrivo su un treno. Quando scrivo su un treno mi sento più protetto. Non so perché, sarà che il movimento sembra portarsi via le parole che, fuggendo, mi fanno meno male. Però è un’impressione, lo so, una chimera.

    Forse non te ne frega, ma lo scrivo lo stesso.

    Le parole che scrivo in queste righe, infatti, fanno male anche sul treno, segnano dentro, tirano stiletti al cuore. Voglio riflettere con te sul futuro del giornalismo italiano e sul presente del giornalismo altrove.

    Perché altrove il giornalismo è vivo, qui il giornalismo è morto.

    Premetto subito: forse della mia visione delle cose non te ne fregherà un beneamato, ma voglio mettere giù questi appunti, fare queste fotografie della situazione, raccontare questi fatti e fare queste riflessioni, affinché vadano agli atti della mia modesta vita, ma raccontino anche che io mi batterò sempre perché le cose non rimangano come sono. Sarà pure una battaglia persa, ma la combatto in ogni caso. Quindi o ti saluto qui o spero che tu possa continuare a leggere usque ad fundum.

    Una strana telefonata e la ghigliottina.

    Nei giorni scorsi ho avuto la possibilità di fare una lunga chiacchierata con un collega che adoro. Abbiamo condiviso notti e speranze, delusioni e frustrazioni, sogni e bellissime storie raccontate. Parlando (e abbiamo parlato di tutto, visto che lui è uno dei pochissimi che mi ha seguito nella mia seconda vita lavorativa) ho tagliato una frase che è risuonata come una ghigliottina sulle speranze di chi fa il mio lavoro, almeno dentro questi confini nazionali.

    La categoria dei giornalisti.

    Stavo parlando dei giornalisti e ho definito la categoria così: “La categoria dei giornalisti – gli ho detto -si divide in due sottocategorie. Una è quella degli stronzi e, come sai, è ben frequentata. Gli stronzi sono tanti, ovunque, in ogni categoria. L’altra, tuttavia, è quella dei devastati. Devastati perché non riescono nemmeno a respirare (figuriamoci a pensare) se sono fuori sulla strada, visto che per guadagnare un onorario da fame devono trottare dalle 9 alle 22 senza riposo o contezza che qualcuno paghi le loro fatture. Devastati se sono dentro le redazioni perché chi ha il culo al caldo è troppo impegnato a salvarselo per fare il mestiere del giornalista nel frattempo”. La sua risposta: “Hai ragione”.

    Se sei un direttore, poi…

    Pochi giorni dopo ho parlato anche con un direttore di testata. L’ho visto tirarsi in volto quando mi ha raccontato da quanti anni e per quante volte il suo editore gli ha bocciato qualsiasi iniziativa editoriale. Ho preferito non chiedergli, invece, quante volte frequentano il suo ufficio gli scagnozzi della pubblicità. Avevo paura di quello che mi avrebbe risposto. L’ho visto stanco di non sapere dove va la sua testata, cosa può fare o non può fare. L’ho visto stanco di non capire che futuro avrà.

    “Pronto? Parlo col giornale Pincopallo?”

    Poi è successo altro. Per alcune iniziative del mio progetto ho contattato le redazioni di un giornale e di un sito. Volevo raccontare il mio lavoro e dire che avrei, nel giro di pochi giorni, tenuto un evento a pagamento. La risposta? Praticamente all’istante mi è stato fatto capire che se volevo che si pubblicasse qualcosa sul giornale (o sul sito) dovevo passare dalla pubblicità. Non mi era mai capitato di sentirmelo dire apertamente, senza poi discutere del fatto che 1) quella che stavo proponendo era una notizia, perché era la prima volta in assoluto che si teneva un evento di quel genere nel territorio di quelle testate; 2) Non ci ho praticamente guadagnato nulla vista la montagna di ore che mi sono occorse per prepararlo. Figurati se avevo soldi per pubblicizzarlo. La prossima volta chiamo direttamente la concessionaria, visto che il giornale lo fanno loro. Quando facevo il giornalista non sapevo nemmeno dove fossero gli uffici della pubblicità.

    I marchettifici e la pubblicità degli influencer.

    Ho avuto sentori di questa puzza anche altrove, ma mi limito a pensare che è prima il caso di toccare con mano la maleodorante trasformazione dei giornali in posti nei quali la pubblicità decide che cosa si scrive in modo definitivo e ultimativo. Ti farò sapere. Intanto prego te e altri di non venire a farmi la morale sulla pubblicità dei blogger o degli influencer perché quella è chiaro a tutti cosa sia. Per questo è meno stronza. Tutto alla luce del sole: la marchetta ha il bollino: lo vedi, se vuoi continui, se vuoi cambi pagina o stoppi il video. È semplice la differenza: il giornalista che chiede di passare alla concessionaria è una prostituta italiana, quello che fa sponsored post è una prostituta di Amsterdam. In vetrina, curata, controllata, con il cartello della non positività all’HIV fuori dalla porta.

    Il lampo di Yusuf.

    Un giorno mi telefona A. e mi dice “Oh Facco (lui mi chiama così) ma hai visto cosa ha fatto il tuo amico Yusuf Omar?”. Trasecolo: Yusuf è un amico, ma è anche uno su cui ho scritto testi, come puoi vedere da questo articolo. “Cosa ha combinato?”. E lui: “Ha appena lasciato la CNN. Dopo 7 settimane… dice che se ne va in giro per il mondo”. Quando ho capito ho avuto un brivido gelido lungo la schiena. Uno dei più visionari giornalisti del mondo ha mollato una delle più importanti televisioni del mondo per due motivi: 1) Perché stavano tentando di ingabbiarlo (e questo motivo ce lo metto io e lui non me lo confermerà mai; 2) Per andare in giro per il mondo a insegnare a comunità di stati emergenti a usare il Mobile Journalism per far sentire la propria voce al di là di qualsiasi editore, giornale, sito, tv.

    Il prossimo miliardo.

    Yusuf e sua moglie Sumaiya gireranno 20 nazioni realizzando incontri e workshop sul mojo e io ho voluto chiedere perché a Yusuf: “Perché ci siamo accorti – mi ha detto personalmente – che i media mainstream perdono troppe storie. Sono omologati, schiacciati, uguali. Fuori dai soliti circuiti c’è un mondo di storie che nessuno racconta e che noi vogliamo far raccontare ai protagonisti stessi, facendo a meno dei media, con la loro voce, grazie al mojo. Storie vere, magari prese da più di un telefono, da più di una angolazione, storie che aiutino le comunità a uscire allo scoperto”. Non so se te l’ho già detto, ma è semplice: Yusuf sta andando dove c’è il prossimo miliardo di utilizzatori di internet, il quale non digiterà un carattere, ma parlerà e vorrà ascoltare la voce del mondo tramite contenuti multimediali. Si tratta, tra l’altro, di un miliardo di utilizzatori del web di paesi emergenti.

    Mentre il cadavere del giornalismo imputridisce, c’è chi va verso un altro pianeta. Il progetto di Yusuf e Sumaiya Omar è www.hashtagourstories.com. Il futuro è li. Io vado: vieni?