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  • Mobile Journalism: lo stato delle cose in Italia/1

    Mobile Journalism: lo stato delle cose in Italia/1

    Mobile journalism Mobile journalism: Italia, stato d’arretratezza.

    Prima di parlare di stato del mobile journalism in Italia ho studiato e mi sono domandato in più occasione se fosse il caso. Sono un mojo, l’ho più volte dichiarato, sono uno studioso, sono un diffusore di questa cultura, ma la situazione del mobile journalism nel nostro paese è talmente avvilente da poter essere riassunta in una frase piuttosto semplice. Il mojo, in Italia, non esiste. Siamo, infatti, talmente indietro nello sviluppo della materia, delle modalità, delle conoscenze, nella diffusione della cultura del “mobile” che parlare di stato dell’arte è un po’ paradossale quando, in effetti, l’arte nemmanco c’è.

    La definizione? Solo in inglese

    Per trovare una definizione dozzinale, ma efficace, di mojo, una cosa che faccia capire, non è possibile farsi aiutare da qualsivoglia supporto di conoscenza scritto in italiano. Di conseguenza preferisco metterla così.

    Mobile journalism is an emerging form of new media storytelling where reporters use portable electronic devices with network connectivity to gather, edit and distribute news from his or her community.

    Partendo da un punto così basso (non sono riuscito, spippolando su Google, a trovare una definizione in Italiano della materia), l’unica cosa che consola è pensare che c’è ancora tutto da fare. Il resto, però, è da depressione multipla carpiata (lo scrivo anche se spero, in cuor mio, di venire brutalizzato da mail di gente che mi smentisce).

    Ma cosa è mai sto “mobile”

    In Italia, non essendoci base culturale accademica definita in merito a questa particolare corrente e “specializzazione” del giornalismo, facciamo fatica a individuare cosa sia il mobile journalism e come venga fatto. Importanti testate come questa parlano di reportage “mobile” indicando prodotti come questo che ha il pregio di essere giornalisticamente allestito, ma è palesemente rifinito al desk. Un prodotto giornalistico di un mojo è  un prodotto che si apre, si sviluppa, viene girato e montato, concluso e inviato sul campo, soltanto con device mobili e senza mai, ripeto, mai passare dal computer.

    Mojo, un androide del giornalismo

    Un mobile journalist è uno che, dal posto dove si trova, può aprire dirette, scattare foto, mandare testi, mandare audio montati e mandare video montati e rifiniti con grafica annessa. Senza passare da un hardware diverso dal suo telefonino o dal suo tablet. Attorno a queste figure e attorno alle principali device mobili sul mercato (siano esse iOS o Android) si è sviluppato un movimento internazionale importante. Movimento che, nei principali broadcaster europei e d’oltreoceano (ma anche in Australia, uno dei paesi più avanzati in tal senso) sta rivoluzionando i canoni dellop storytelling giornalistico e delle produzioni televisive.

    Eppure, là fuori… 

    Così, mentre in Italia cerchiamo di capire cosa sia e spacciamo per mobile journalism un’intervista fatta col telefonino, in giro per il mondo si sviluppano movimenti che definire titanici è poco. Sezioni speciali della BBC, i primi prodotti interamente girati con iphone della RTE, convegni annuali e meetup a Londra, documentari fatti dagli aborigeni a Brisbane, grandi specialisti e diffusori di questa nuova cultura come Ivo Burum, Glen Mulcahy e Mark Egan: basta alzare la testa per guardare oltre il confine e si trova tutto, ma soprattutto si trova un mondo (quello della televisione) in deciso movimento verso la trasformazione in mobile journalism di tutto quello che è broadcast adesso.

    Il presente, il futuro e il punto (5)G

    Ho letto, ieri sera, le riflessioni di Glen Mulcahy sul suo blog, il quale, un mese e spiccioli fa, discettava così del futuro del mobile journalism

    By 2020, when 5G goes mainstream Mojo will dominate news. The myriad of shareable content that can be made WITH these devices will be shared across a superfast connection TO these devices in an end-to-end ecosystem.

    One that will sit on top of (not displace) current “traditional” platforms. In time the mobile ecosystem will, I believe begin to erode traditional markets, this will happen mainly when advertisers can figure out a way to LEGALLY target personalised advertising to you via your smart device (its been technically possible for years and is fully exploited, in a limited, way by Facebook, Google etc).

    Il resto della riflessione, fatta nelle notti di lancio dell’Apple iPhone 7, un maledetto miracolo elettronico che ai mobile journalist ha tolto il sonno perché ha tolto il jack da 3,5 di mezzo, lo puoi leggere qui.  Quando gli editori televisivi avranno a disposizione il loro punto (5)G, vale a dire la prossima generazione di internet mobile, cominceranno a godere.

    Le caratteristiche del 5G

    Vediamo se riesco a farti capire cosa potrebbe portare il 5G nel mercato del mobile journalism. Con questo gingillo si stanno divertendo a Pisa ed è una cosetta che andrà veloce 1000 volte la migliore 4G di adesso. Con una connessione di quel genere, quindi, un video montato, fatto e finito, sarà nei sistemi di montaggio di qualsiasi tv del mondo tre minuti dopo la sua realizzazione, qualunque sia il suo peso.

    Un buon articolo che riassume lo stato dell’arte di questo obiettivo per la connessione  internet mobile può essere questo qui. Naturalmente il 2020 sarà anche la linea di partenza per i responsive media nelle case, per quelle macchine informative di qualsiasi genere che materializzeranno il modello di Negroponte in qualsiasi oggetto, ma questo è un altro discorso. Quando ascolterai responsive news aprendo il frigo, mentre la sveglia ti ha tirato su dal letto dicendoti i tuoi impegni, come ti devi vestire e il traffico che c’è sulle tue strade, ne riparliamo.

    Effettivamente il mojo trionferà, ma in Italia…

    Il 2020, quindi, sarà l’hanno del mobile journalism, ma in Italia non sapremo forse nemmeno allora cosa sia. Da una mia, pur approssimativa, ricerca, il mobile journalism viene menzionato nei programmi dei Master solo alla Lumsa, ma non si riesce, almeno online, a capire se e come il mojo viene insegnato in un vero e proprio corso. Ecco: questo è quello che dovrebbe essere il primo passo, insegnarlo a scuola. Certo viene da pensare che se il boss è Emilio Carelli, formidabile direttore tv di estrazione proprio broadcast, ci sarà un passaggio su queste nuove tecniche, ma non un’esigenza di soffermarsi.

    Già, perché in Italia, il problema principale, è rappresentato dalle categorie mentali dei giornalisti a tutti i livelli e anche dal corporativismo. Il mojo non attecchisce perché i video, diciamo, si fanno in un altro modo. Tendenza radicata, status quo definitivo: fine dei discorsi. Poi ci sono i cameramen, i montatori, i giornalisti, i titolisti, i registi. Ok, tutto bene. E se ci fossero soltanto i giornalisti? La cosa non va, a mio avviso, contro qualcuno, ma a beneficio di tutti. Invece prevale il senso della corporazione, di quello che “ma tu non ti vergogni ad andare in giro col telefonino?”. Sinceramente no.

    Se Mark Egan è un extraterrestre

    Lo specialista e innovatore ex BBC Mark Egan è stato intervistato dalla rai al Prix Italia 68 dove alcune sperimentazioni italiane di mojo sono state recentemente presentate. Ecco l’intervista raccolta dalla televisione di stato con il guru inglese, che traccia il futuro del mobile come un futuro che ovviamente si integrerà con la produzione televisiva. Questo, almeno dalle mie ricerche, appare essere un vero extraterrestre rispetto al contesto italiano, così come lo è il numero uno mondiale dei mojo: Ivo Burum. I suoi due testi principali sul Mojo (questo e questo) sono il cuscino su cui poggio la testa quando vado a dormire e aprono un mondo. Un mondo in cui tutti ballano guardando il futuro e l’Italia resta a seduta, in un angolo, alla festa.

    Intanto dalle guerre arriva solo Mojo

    In Italia sembra non ci sia vero interesse, quindi, per il mobile journalism che, di contro, viene messo dentro una marmellata con il Citizen journalism che è ben altro. Le televisioni, però, mangiano mojo tutti i giorni, per esempio dalle zone di guerra. Quello che fai con uno smartphone non lo puoi fare con una telecamera: mai. Quindi una riflessione, dalle stanze dei bottoni in giù, andrebbe fatta. Intanto ti lascio a guardare questo: la sezione mojo di Al Jaazera English rilascia prodotti del genere fatti interamente in mojo.

  • Visual Journalism, data journalism e il vuoto italiano

    Visual Journalism, data journalism e il vuoto italiano

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    VISUAL JOURNALISM, QUESTO SCONOSCIUTO. Io non sono un guru, sono solo uno che fa un lavoro che gli piace e sul quale non ha mai smesso di studiare. Con colpevole ritardo ho fatto entrare le parole visual journalism e data journalism nel mio vocabolario professionale: ho scoperto molte cose interessanti. E una che conoscevo: il sostanziale vuoto italiano sull’argomento, anche se vanno fatte le dovute precisazioni.

    COMINCIAMO CON LE PRESENTAZIONI. Il Visual Journalism ha apparentemente una definizione banale, ma molte forme evolute. Sarebbe, in sostanza, la tecnica, il metodo, con cui, tramite la combinazione di testi, video, immagini e grafiche bi o tridimensionali, si creano prodotti giornalistici. Se vai su questo link, caro il mio lettore-cronista-cercatore di stimoli, vedrai che alla BBC (mica a Telebalengo) hanno preso la definizione e ne hanno fatto una rivisitazione tutta personale. Ecco, in sostanza, è il fare giornalismo di inchiesta con gli strumenti più avanzati della tecnologia per offrire un prodotto, soprattutto al lettore del web, che offra una user experience di altissima qualità. Ragionando a mente fredda, visto che internet specialmente in Italia, offre uno spettacolo poverissimo di qualità salvo poche eccezioni, quando ho cominciato a frequentare questi siti e a farmi un’idea su questo fenomeno, ho pensato serenamente che questo sia un campo su cui investire sforzi di aggiornamento e di apprendimento per creare contenuti che abbiano un diverso respiro. Il Data Journalism (o giornalismo di precisione) è fratello maggiore del Visual, per rendere l’idea, perché è il modo scientifico con base statistica e sociologica, con cui di creano gli argomenti del prodotto giornalistico (oppure si trovano addirittura le notizie). Chi vuole fare un prodotto di Visual journalism, quindi, deve partire dal Data (sempre se non ho capito male). Anche qui un ragionamento mi assale: chi ha fatto e fa il giornalista con coscienza i dati, il metodo, la sociologia e la statistica li ha sempre usati. Però, forse, il ragionamento non è scontato…

    LE RADICI DEL VISUAL JOURNALISM. Magari questo post non sarà accademico o enciclopedico, ma il motivo è semplice: ho usato la capacità di ricerca del giornalista, non gli strumenti del ricercatore. Il motivo è semplice: volevo cominciare a parlarne, essendo la concezione della professione giornalistica che farò legata a questi due campi del giornalismo oltre che al mojo, come da anni accade. Le radici del Visual Journalism vanno indietro di qualche anno per quanto riguarda il suo sviluppo sul web. Inutile dire che i principali quotidiani internazionali hanno bande di VJ attrezzate per stupire il mondo. Per esempio cosi (cliccaci sopra):

    bolt

     

    Oppure così:

    latimes

     

    Certo qui siamo sulla Virtual Reality, ma anche questa è un ingrediente possibile del VJ. Non c’è che dire, impatto sicuro e reader experience grandissima.

    Le radici del VJ, si diceva. Nel 2012-2013 già se ne parlava come qualcosa di assodato, in chiave internet, ma la discussione sul Design delle News è più vecchia. E ha profeti italiani. Ecco un’altra cosa: abbiamo professionisti in grado di insegnare giornalismo a chiunque… e non sappiamo manco chi siano. Ecco, comunque, chi è uno dei guru del digital design delle news: Francesco Franchi. Il suo Designing News è un riferimento per chi visualizza le news e, naturalmente (!) è editato da tedeschi. Però c’è un ricercatore sull’argomento che si sta battendo come un leone per fare in modo che il VJ entri nella cultura del giornalismo italiano senza restare appannaggio dei designer. Si tratta di Matteo Moretti, ricercatore della Libera Università di Bolzano che ho conosciuto perché ho letto questo suo pezzo qui. Gli faccio un disperato appello: lavorerei per te anche gratis, sebbene non me lo possa permettere. Comunque Moretti è uno che ha vinto un premio con questo progetto (cliccaci sopra).

    bolzano

     

    Questo lavoro (che sconfessa un assunto dei bolzanini sull’invadenza della comunità cinese nella loro realtà sociale) è stato premiato ai Data Journalism Awards del 2015. Basta guardare qui per sapere di cosa si parla. Moretti è un ricecatore puro, ma è trasversale e ha tali conoscenze da far impallidire anche Einstein. Ecco un suo concetto molto interessante:

    Secondo questo approccio, serve quindi stabilire una dieta, ri-educare la nostra mente, nutrendola di contenuti magari meno appetitosi ma che siano davvero nutrienti, basati su informazioni bilanciate che portino alla ribalta la complessità del fenomeno trattato, anziché la sua “ghiotta” semplificazione. Proprio da queste basi parte la mia ricerca sul visual journalism, un lavoro a cavallo tra data journalism e visual storytelling, in cui cerco di mettere a frutto tutti gli strumenti di cui sono in possesso per informare un pubblico più ampio su tematiche complesse, in maniera visiva e coinvolgente, affinché i lettori siano stimolati nella lettura. Parlo di divulgazione, ma non solo.

    Quello a cui ambisco è stimolare il dubbio nei lettori, mostrare lo scollamento tra la realtà raccontata da alcuni mezzi di informazione e quella di tutti i giorni, ridimensionare cliché spesso alimentati dai media stessi, aprire un dibattito pubblico, riflettere su quanto una certa informazione odierna sia spesso approssimativa ed eccessivamente semplificata e su quanto vada soppesata, piuttosto che digerita indistintamente. Esattamente quello che Clay A. Johnson definisce come junk information.

    IL VUOTO ITALIANO. Per la mia esperienza e per la mia conoscenza, ma forse faccio difetto perché poi non sono intelligentissimo e onnisciente, su questo argomento, che sta rivoluzionando il web internazionale, siamo in presenza di un vuoto italiano. Lo conferma una ricerca banale, una banale googolata (mamma santa che parola pessima). Non c’è molto spazio per il visual journalism nelle newsroom italiane, anche se la recente mossa di Repubblica di prendersi Francesco Franchi nel suo staff fa sperare nel contrario. La ricerca online, infatti, mette al primo posto i ricercatori e gli esempi didascalici e gl articoli tecnici. Anche se c’è un’eccezione gradevolissima. Si tratta della Visual Agency di Milano che, seguendo l’ispirazione del talentuoso Tommaso Guadagni, ha creato il magazine Visualeyed che potete trovare qui. E’ un esperimento di newsroom interessantissimo e un sito che rimanda anche a splendidi pezzi di Visual Journalism che ci sono in giro per il mondo. Spero abbia grande fortuna.

    Ecco, quindi, il primo approccio che ho fatto al Visual Journalism e al Data Journalism sperando che ti sia risultato utile. Certamente nelle redazioni italiane dell’online non c’è il tempo, almeno a quanto sembra guardando le pubblicazioni da fuori, per pensare con calma a prodotti visual, ma questo è il futuro. Un futuro che faccia sopravvivere e, finalmente, pagare il buon giornalismo su internet. Che ne pensi?

     

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