Tag: mobile journalism

  • Prendere l’audio da mixer o da radiomicrofono: ecco come si fa

    Prendere l’audio da mixer o da radiomicrofono: ecco come si fa

    Prendere l’audio da un mixer con lo smartphone: non è un’impresa.

    Dico spesso nei miei corsi: il 90% di un buon video è l’audio. In questo blog hai, molto probabilmente, visto riferimenti a microfoni per smartphone (come questo) o sentito parlare, in generale, di hardware per la registrazione dell’audio con il telefonino o il tablet. Il mondo del mobile journalism, però, non si limita a questo e regala anche la possibilità di prendere l’audio da un mixer o da un radio microfono normale. Se pensi che sia un’impresa ti sbagli, ma devi comunque stare attento a quello che fai. Ecco perché…

    Ti manca solo un oggetto.

    Già, non ti manca molto. Ti manca solo un oggetto per creare l’interazione giusta tra una fonte audio che esce con un cavo xrl e il tuo telefono che ha un jack 3,5 oppure, addirittura una lightning. L’oggetto che ti manca è un pre-amplificatore, che per prendere l’audio da un xrl è un apparecchio determinante. Il segnale che arriva da quei cavi, infatti, è amplificato e va ridirezionato verso la ricezione audio del device che usi.

    Il migliore su piazza è senza dubbio l’ultimo nato della IK Multimedia, sto parlando dell’ IRig Pre Hd, una device che regola molto fedelmente l’entrata dell’audio nel telefono e che dispone della phantom, del controllo del gain e di un sistema a led che cambia colore se va in distorsione. Per farti vedere i facilissimi passaggi di montaggio e farti capire la resa e la differenza del suono, davvero notevole, ho fatto una breve diretta ieri sulla fan page che puoi vedere qui sotto. I procedimenti ci sono tutti e la resa è ottimale e adeguatamente controllata (e controllabile).

    Un piccolo consiglio ulteriore.

    Per prendere l’audio da mixer è un’operazione che fai molto spesso se sei un giornalista che fa news e deve andare a una conferenza stampa. Ascolta uno stupido, come diceva mio padre: ti serve anche questo qui, un signor cavo molto lungo. Con questo sarà affrontabile il posizionamento in qualsiasi sala più vicino al tavolo della conferenza stampa rispetto agli altri colleghi, magari laterale o magari seduto in prima fila tenendo il telefono basso per non impallare i colleghi.

  • Il lato B del mobile journalism: la solitudine

    Il lato B del mobile journalism: la solitudine

    Lato B: questa volta ne parlo male…

    Sai, mi sono accorto stamani che non parlo mai male del mobile journalism e della mobile content creation. Ecco, lo faccio ora, dopo che sono andato da un cliente rimediando una sontuosa figura di merda e non per colpa mia. Per fortuna il cliente è una persona a me amica e la cosa è passata via senza danni. Tuttavia proprio in questo periodo, che ricominciano le attività di Italianmojo, che il movimento cresce, che l’attenzione sulla community italiana sta per accendersi anche dall’estero, ho deciso di parlar male del mio amato mojo.

    Il grosso dilemma si chiama…

    Ci ho pensato e ho pensato all’effetto boomerang sulla materia che il mio pezzetto che stai leggendo può avere. Poi ho anche pensato ai mojo enthusiasts che ho conosciuto, alla passione dei miei corsisti, dei miei studenti, delle istituzioni e degli ambienti che sono venuti a contatto con la mobile content creation e ho pensato che una bella sproloquiata in negativo sulla mobile content creation andava fatta. Anche perché è una materia così bella, nuova, chiara e semplice che se non avesse un lato negativo, un lato b, sarebbe finta. Vuoi sapere qual è quel suo maledetto lato negativo? E’ la solitudine. Già, la solitudine maledetta del mojoer.

    Non mi riferisco alla solitudine mentre lavori, ma a ben altro.

    Quando parlo di solitudine del mobile journalist non mi riferisco alla solitudine del lavoro. D’altronde il mio mobile è talmente semplice e basico che quando sono in produzione mi sento davvero nel mood di chi crea, senza badare a tecnicismi o alla “pesantezza” operativa delle macchine. Pensa che l’ultimo lavoro l’ho fatto con due cellulari contemporaneamente per campo e controcampo…

    Mi riferisco a situazioni come la figura di merda che ho appena vissuto. Vado a trovare il cliente, un importante studio di commercialista di Milano, per la realizzazione di alcuni video. Mi preparo, monto, faccio brigo, disfo e il risultato è una serie di video con una valanga di problemi di frequenze, di muto, di salti. Ecco, quello è il punto: la solitudine del mobile journalist inizia lì.

    Ti salva soltanto una cosa che io non ho: la logica.

    In quelle situazioni non sai che fare e non puoi nemmeno dare una giustificazione sensata, se non con dovizia di particolari, al cliente. Ti salva soltanto la capacità di risalire indietro nel tempo e ripensare che cosa è successo. Vuoi sapere cosa è successo? La mia app di filming aveva perso, chissà come mai, tutti i settaggi corretti. Non contenta, faceva fatica a riconoscere (cosa che riesce sempre molto bene) il microfono digitale.

    Risultato: un disastro. Niente di perso se non qualche ora di lavoro, ma non ti dico le prove, le mail, le chiacchierate con i colleghi di ogni parte del mondo. Motivo? A quanto si è capito il motivo è stato l’ultimo aggiornamento di iOS 11, quello anti Spectre, per intenderci.

    Il grosso grasso problemone mojo

    In sintesi, qual è il problema? E’ questo: questa cultura sta beneficiando del genio di grandi sviluppatori di software e di hardware che stanno rivoluzionando mercato e modi di fare content creation. Questi sviluppatori, tuttavia, vanno sempre un pochino oltre il limite delle macchine, ma soprattutto si scontrano con i limiti dei sistemi operativi del mondo di cui fanno parte. A ogni rilascio di sistema nuovo, quindi, le applicazioni che girano sul tuo telefono devono essere adeguate, riprogettate, upgradate (che parola di merda…). Ecco il grosso grasso problemone mojo: quando finisci nel contrasto tra l’ultimo aggiornamento del tuo OS e la tua app magari non ancora messa alla pari, succedono i disastri. E ti senti solo.

    Se sei italiano la solitudine è doppia.

    Ti senti solo soprattutto se sei italiano e stai lottando per la crescita di una nuova cultura del lavoro giornalistico. Già, perché la community ancora riceve molto e poca interfaccia regala, quando c’è da discutere un problema.

    Per fortuna i colleghi stranieri, gli amici delle App, i colleghi delle aziende, non sono italiani e condividono. Specialmente quando qualcuno è nei guai: lo sa bene il mio amico Bill Booz di Somerset in Pennsylvania con cui h chiacchierato perché aveva anche lui problemi similari.

    Oh, ti basta come lato b? Ecco, mi sono sforzato di parlarne male (infatti anche in occasioni come queste mi diverto come un pazzo per trovare rimedi): adesso basta.

     

  • Facebook: cambia algoritmo, meno news e più mobile journalism

    Facebook: cambia algoritmo, meno news e più mobile journalism

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    Facebook cambia algoritmo: una splendida notizia (anche se tutti pensano il contrario)

    Hai letto bene, che Facebook cambi algoritmo e lo faccia privilegiando il giro degli amici rispetto ai contenuti che arrivano da entità seconde o terze rispetto a noi, è una notizia pazzesca in positivo che, a una prima lettura, suona come il de profundis del mondo dei media che si sono occupati di eseguire reiterate genuflessioni al gigante di Menlo Park in questi periodi. Effettivamente son qui che picchio sui tasti e ridacchio pensando ai numeri di traffico dei siti e alla loro drammatica contrazione nei prossimi giorni, almeno per quanto riguarda l’arrivo di click regalato dagli amici di Faccialibro con copiosa generosità in questi anni. Mi vien da dire? Cosa faranno ora i media? Si, voglio proprio chiedermelo, ora che Facebook gli ha dato il benservito.

    I media devono svegliarsi.

    Ecco, adesso che non c’è mamma Facebook voglio davvero capire dove minchia vanno a parare siti, giornali e televisioni di mezzo mondo, dopo aver fatto traffico senza sporcarsi le mani per farlo. Penso che sarà il caso, per loro, di ricominciare a fare prodotti editoriali di qualità e sostenibili, format profondi, innovativi, fatti di esperienza sul web, se appena, appena vogliono riprendersi un pubblico. Lo penso e lo dico perché se non sarà così, Facebook razzierà il mercato dell’utente “permanente” ancora di più chiudendo i suoi due miliardi di avventori nelle bolle autoriferite delle loro cerchie. Con l’obiettivo di non farli più uscire da li. Ti ricordo (e l’ho scritto nell’articolo che puoi leggere qui) che Facebook sta lanciando Watch e sta entrando nel mercato degli hardware per la visione dei suoi contenuti.

    La più grande media company del mondo.

    Facebook è il più grande spacciatore di video del mondo ed è la più grande media company del mondo. Adesso vuole i suoi adepti intenti a stare seduti a passare i pop corn ai parenti, mentre ti propone quello che dice lei: vale a dire chi paga o chi fa parte del circo scelto dal giro Watch o simili. Vedrai che andrà così. Siccome la più grande media company del mondo è anche una delle più ricche aziende del pianeta, chi si stupisce del movimento di questo algoritmo, le cui nuove funzionalità sono sotto test dallo scorso ottobre, è una verginella che scende dalle montagne del sapone. Sono disposto a rischiare il mio braccio sinistro che andrà così, ma ci sono un paio di risvolti molto interessanti.

    Tanti giornalisti, pochi editori.

    Boh, non so se l’ho detto o l’ho scritto qui su queste colonne, ma lo riscrivo. Sogno un mondo pieno di giornalisti e senza editori. Ecco, con la svolta di Facebook più dedito alle sue bolle (echo chambers, per dirla come quelli fighi), ci sarà lavoro per i mobile journalist come mai ce n’è stato prima. Anzi potrebbe esserci proprio una nuova categoria di giornalisti, vale a dire quella che dovrà interpretare, dentro queste community, il ruolo di chi deve far comprendere la realtà. Mi spiego meglio e dico che i giornalisti avranno il compito sempre più importante, nelle loro comunità di Facebook, di rappresentare la corretta informazione e di invitare a uscire dalle bolle. Come? Con la conversazione. Estraggo due passaggi di un pezzo di Jeff Jarvis su Medium. Molto interessanti:

    I wish that Facebook would work with journalists to help them learn how to use Facebook natively to inform the public conversation where and when it occurs. Until now, Facebook has tried to suck up to media companies (and by extension politicians) by providing distribution and monetization opportunties through Instant Articles and video. Oh, well. So much for that. Now I want to see Facebook help news media make sharable journalism and help them make money through that. But I worry that news organizations will be gun-shy of even trying, sans rug.

    Il giornalismo è conversazione, te lo ricordi?

    Questo il primo contributo di Jarvis, preso da un articolo che riporta in auge il fatto che il giornalismo, in questo momento, è diventato una conversazione. Allora dobbiamo conversare. Se poi Facebook dice che abbiamo a disposizione le nostre bolle per farlo e per ingenerare una nuova cultura, beh, allora abbiamo anche il campo di conversazione. Già, perché il lavoro del giornalista, proprio nella definizione di Jarvis, esce un filo diverso dal consueto cliche che eri abituato a vedere finora. Ecco la definizione, adattissima per i mojoer stante l’agilità dello strumento.

    My new definition of journalism: convening communities into civil, informed, and productive conversation, reducing polarization and building trust through helping citizens find common ground in facts and understanding.

    Si possono anche fare affari.

    Se il nostro nuovo lavoro sarà questo, beh allora posso dire che il nuovo Facebook ci mette nelle migliori condizioni per poterlo fare e per farci anche qualche soldino onestamente. La creazione delle comunity attorno a noi sarà molto importante e ci sono i metodi per renderla profittevole. Con il mobile journalism, poi, ci sarà da trottare per raccontare le storie di chi non ha voce.

    Faccio un ultimo passaggio prima di chiudere. Si paventano scenari gotici dell’aumento dell’importanza delle fake news, nonostante la riduzione del numero che provocherà il cambiamento dell’algoritmo. Contro questo c’è solo la cultura, ma anche l’idea di poter prendere, finalmente, sul serio quello che è un social network come quello di Menlo Park. Un moltiplicatore di relazioni che crea valore se gli si consegna valore.

    Solo le aziende sveglie sopravviveranno.

    I miei amici agenti immobiliari spero lo comprendano presto visto che proprio nelle loro cerchie, piene di legami deboli, c’è il cliente che gli darà un mandato a vendere. E con un video lo farà più voltentieri.

    Dico questo come spero anche che le aziende comprendano presto che se Facebook non è più gratuito loro dovranno imparare a dialogare con i loro clienti in modo diretto scambiando valore e calore. Già, perché solo così si è visti senza aggiungere denaro. Altrimenti si tace e si paga: Facebook non è una onlus. In questa ottica per i mojoer brand journalist c’è trippa. Tanta.

    Concludo con una frase del Fatto Quotidiano, strepitosa:

    L’ultimo aggiornamento del News Feed ci ricorda che i social network per sopravvivere devono restare luoghi di conversazione tra persone. Le aziende che riusciranno a umanizzarsi si inseriranno in questa conversazione per trarne i frutti, senza disturbare. Tutte le altre resteranno a piangere sui cambiamenti di Facebook, dimenticando che in casa degli altri non si comanda. Al massimo si ringrazia per l’ospitalità

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  • Business model e mobile journalism: alcuni consigli utili

    Business model e mobile journalism: alcuni consigli utili

    Business model: il grande boh del giornalismo e dei giornalisti.

    Me lo chiedono sempre, probabilmente me lo hai chiesto anche tu se ci conosciamo di persona. Cosa? La domanda suona più o meno così:

    “Si, ok, mojo, tutto fico, ma come ci campo?”

    Ecco, parlare di business model ai giornalisti e a chi fa professioni visuali come la mia, sembra una sorta di delirio. Però te lo dico: è la domanda che tutti, specialmente i freelance, dovrebbero farsi ogni mattina prima di inventarsi qualcosa per lavorare e pagare le bollette e la spesa. In questo articolo provo a suggerirti consigli utili e notizie che ti facciano collegare i punti tra le cose per creare proposte di servizi e di prodotti che possano rappresentare un business model sostenibile, un modo di lavorare che ti faccia guadagnare.

    Cambia modo di pensare.

    Ricordo molto bene quando facevo il collaboratore di giornali e il mio capo mi chiamava dicendo “Hai 40 righe”. Ora mi viene da dirti che se sei in quella situazione dovresti scappare a gambe levate. La prima cosa che devi fare per avere un business model vincente nella tua attività giornalistica, quindi, è cambiare il modo in cui pensi il tuo lavoro e il modo in cui lo fai. Devi andare a cercare i soldi perché solo con quelli puoi andare avanti e devi farlo scardinando i comuni binari dell’editoria che hanno portato a situazioni devastanti come quella che puoi leggere qui, egregiamente affrontata dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia nella persona del Presidente Alessandro Galimberti.  Per mettere in atto il tuo “follow” the money devi smettere di pensarti come un giornalista e basta e iniziare a pensarti come un produttore di contenuti.

    Il cliente di un giornalista? Chiunque.

    Se smetti di pensarti come qualcuno che deve lavorare in un Ufficio Stampa-Tv-Giornale-Sito-Ente-Istituzione e cominci a pensarti come qualcuno che può lavorare per chiunque (viste le rivoluzioni avvenute con il marketing di contenuto e con il giornalismo di brand), perfino per i tuoi colleghi o per chiunque voglia avere una corretta immagine pubblica. Pensati come qualcuno che possa fare da facilitatore o da produttore, da insegnante o normalizzatore, da creatore di progetti editoriali a scrittore, da videomaker ad audiomaker.

    Nelle mie fatture dello scorso anno ci sono servizi di consulenza editoriale per persone fisiche e corsi di formazione, produzioni di brand journalism e realizzazioni video per campagne di crowdfunding. Ti può bastare come esempio? Il tuo business model deve essere basato su due concetti: o vendi la tua unicità o vendi servizi che puoi e sai fare bene in mercati che non sono il tuo o in modi non classici di prendere il denaro da qualche parte. Come? Pensaci. Pensa chi può avere bisogno dei tuoi servizi o chi (o cosa) possa darti talmente tanto seguito da rappresentare un driver di traffico tale che le tue piattaforme possano generare guadagni o le tue pubblicazioni essere vendute attraverso qualche servizio di direct publishing.

    Le piattaforme di pubblicazione? Creano per te dei business model.

    Già molto tempo fa avevo parlato del mondo del self publishing in questo articolo nel quale c’è una ottima intervista a Giulia Poli, al tempo (e forse ancora) Head of Kindle Content per l’Italia. Quel tipo di business model, quello che arriva dal pensarsi come un editore piccolissimo, è uno di quelli che sta iniziando a funzionare e funzionerà sempre di più. Ce ne sono molti altri e molti passano anche dagli stessi meccanismi che hanno arricchito gli Youtuber. Se ce la fanno loro, anche la tua professionalità può dare al tuo pubblico prodotti per i quali vale la pena pagare. Le piattaforme di pubblicazione, quindi, creano per te dei business model interessanti. Io, per esempio, ho aperto proprio in questi minuti Gumroad, che è una piattaforma che facilita la distribuzione di contenuti a pagamento verso il tuo pubblico. Il consiglio che ti do, tuttavia, è quello di essere tu protagonista nella ricerca dei canali che ti fanno creare il tuo business model sostenibile e duraturo. Altrimenti resterai sempre in difetto in un atteggiamento fondamentale della professione, specialmente ora. Di cosa sto parlando? Del cambiamento continuo sul quale devi “basare” la tua professionalità e il tuo lavoro di ogni giorno.

    Guarda fuori, guarda al mondo.

    Analizza le situazioni e i nuovi prodotti proposti dai media di tutto il mondo. Ti dico di più analizza gli errori. Te ne spiego uno che riguarda Snapchat e una delle televisioni più importanti del mondo, la CNN. Il network di Ted Turner ha chiuso il suo canale di storie via Snapchat.

    Business model e social: un mondo da esplorare
    Se cerchi la CNN su Snapchat non la trovi più

    La CNN fa flop su Snap.

    Istintivamente ti verrebbe da pensare: se la CNN ha chiuso, allora non vale la pena sprecare parole o atti per cercare. Ecco: è esattamente vero il contrario perché i grandi media stanno sbagliando tutto, a cominciare dai linguaggi. Per questo val la pena guardarli e guardare le loro mosse e la loro incapacità di cambiare linguaggio, per vedere e verificare dove la nuova domanda di lavori e di prodotti strani incontrerà la tua offerta. Perché sbaglia la CNN che, come vedi da questa foto, ha chiuso la sua finestra su Snapchat? Perché voleva replicare su Snapchat i linguaggi della tv. Ecco, appunto. E chiedersi prima cosa gliene poteva fregare ai ragazzi che snappano di un tg della CNN, no?

    Conosci Facebook Watch?

    In generale sai che sogno un mondo pieno di giornalisti e senza editori. Ecco uno dei modi per realizzare questo sogno è Facebook Watch di cui il professor Quinn aveva dissertato con me nel pezzo che puoi leggere qui. Se non lo conosci sarà il caso che tu ti sforzi, perché potrebbe cambiare molte cose, proprio nei giorni in cui Facebook riduce le speranze delle pagine delle aziende di comparire “da sole” (cioè senza pagare) nelle timeline dei clienti.

    Alcuni stanno già gufando…

    Su Facebook Watch ci sono tam tam che raccontano di nasi storti e di un business che stenta a decollare, come puoi vedere qui. Il fenomeno, però, è talmente embrionale che giudicarlo frettolosamente rischia di essere una cantonata. Ti racconto un paio di cosette in più sul fenomeno. Ebbene, le revenue saranno del 55% per il creatore di video e del 45% per il social, quindi se riesci ad avere i numeri per entrare nel giro avrai Zuck come socio di minoranza! Scherzi a parte questa app va nella direzione che è ben delineata nella testa del ragazzotto di Menlo Park. Una direzione che porta alla replica di Youtube e alla sostituzione, assieme allo stesso tubo, ai colossi dello streaming e a Amazon, dell’intero ecosistema della tv.

    Non sei ancora convinto? Sai che Amazon ha creato Echo Show e Facebook ha già iniziato a rispondere? Ti sembrano farneticazioni? Spiegoti e chiudo qui, invitandoti a pensare il business model in modo diverso. Da subito. Allora, il riccastro Jeff Bezos ha trasformato il suo spacciatore di contenuti di Amazon, Eco, in un diffusore di contenuti con lo schermo, il quale si chiama Echo Show.  Ebbene, ti do per certo che Facebook risponderà con Portal, un hardware che apre lo scrigno dei contenuti di Faccia Libro. Penso che tu ne abbia abbastanza per pensare business model vincenti da qui al 2090.

  • Social network live: la verità italiana? Nessuno ci sa fare

    Social network live: la verità italiana? Nessuno ci sa fare

    Social network live e altre storie sulle dirette.

    Sto testando Switcher Studio e tutte le sue applicazioni possibili, specialmente per formattare il servizio di dirette via social network (da Facebook live a Periscope, fino a Youtube live) al fine di poterlo vendere ai clienti. Di cosa sto parlando? Sto parlando di una delle migliori app per gestire dirette via piattaforme social in commercio. Se vuoi scoprire qualcosa in merito passa da qui (è un referral link).  Presto farò una approfondita review live di questo prodotto, parlando con i miei lettori delle sue “applicazioni” per la produzione e la vendita. Come sai qui parlo del mestiere e del futuro, della cultura mojo e di tante altre cose, sempre con un occhio alle cose che si possono fare per campare meglio. Guadagnando di più…

    Prima di raccontare di questo prodotto, però, mi sono trovato a pensare come si fanno in Italia i Facebook Live e le dirette social in genere. Beh, male. Io stesso non sono un granché, anche se nelle vacanze di Natale ho fatto dei lavoretti e dei piccoli investimenti per migliorare i miei live, visto che nel 2018 andrò live spessissimo. Ho esaminato con attenzione il panorama dei live di Facebook e affini, prodotto che nel nostro paese viene trattato in due modi, entrambi pessimi.

    Le scimmiottate della tv.

    Purtroppo le pagine Facebook delle maggiori testate italiane o i big della rete, in generale, riproducono dei loro live via reti sociali i format della televisione come talk show o telegiornali. Oppure danno dirette televisive come fossero un broadcaster normale. Quando non è così i giornalisti prendono in mano la situazione producendo contenuti mobile journalism, (magari durante le breaking news) che sono di qualità pessima e infinitamente più bassa rispetto alle volte in cui il segnale del social network live trasmette qualcosa di formattato. Queste scimmiottate della tv che spesso fanno poco conto (o troppo conto) dell’interazione con i lettori, sono davvero un pessimo modo di fare social network live.

    Oppure andare in diretta così, a caso…

    L’altra tendenza, soprattutto delle mezze figure del web o degli account social, è quella di schiacchiare il tasto live a capocchia. Già, hai letto bene: a cazzo. Magari senza mettere nemmeno un titolo accattivante alla propria performance, magari fatta in accappatoio uscendo dalla doccia. Lo fanno i tapini come me e te, ma lo fanno anche i grandi che vanno a braccio per minuti, per poi lasciare la netta impressione di non aver detto un beneamato ciufolo. Ecco, allora perché fare la stupidaggine di andare live senza motivo e magari senza titolo. Se lo fai è una mancanza di rispetto verso chi ti segue.

    Se vuoi andare live devi “essere un format”.

    Lo avevo già scritto in questo pezzo qui già qualche tempo fa. Si tratta di un articolo un filo datato, ma utile. Prima di schiacciare il tasto live devi essere in pieno controllo di molte cose ed essere consapevole di tutti gli strumenti che hai a disposizione. Le indicazioni di base te le fornisce Facebook in questa landing page sull’argomento, ma se vuoi avere delle indicazioni sui tipi di format da proporre per il tuo social network live, beh, puoi guardare anche questa pagina qui.

    Per sapere di più su come essere format nei social network live, ho deciso, tuttavia, di interpellare gli amici Sumaiya e Yusuf Omar del progetto HashtagOurStories. Loro due sono un format, con questo progetto strepitoso. Specialmente Sumaiya, in una diretta per la Thomson Foundation, ha regalato alcuni consigli molto importanti sull’impostazione di un Facebook Live, consigli che ha riassunto in una slide che mi sono fatto gentilmente girare.

    social network live

    Credo che il centro delle cose sia tutto qui, in questi titoli.

    Se scorri i punti di questo riassunto della slide usata da Sumaiya troverai tutto quello che serve per andare in diretta con un criterio. Oltretutto se pensi a quello che c’è scritto, beh, molto ti risulterà, diciamo, giustificato, quasi ovvio. E’ altrettanto chiaro, però, che devi andare live sui social network quando hai davvero qualcosa di formattato tra le mani. Deve essere importante il luogo, importante e precisa la titolazione, minuziosa e capillare la diffusione della trasmissione per ingaggiare più persone possibile, deve esserci una storia da raccontare, un personaggio da intervistare o un evento da far vedere.

    Il luogo conta perché è metà racconto.

    Lo schedule deve essere attento al pubblico che vuoi raggiungere, l’inquadratura ben allestita e, quando possibile, orizzontale e fornita di un buon audio. L’idea delle immagini da mostrare deve fare anche rima con una esperienza da condividere, con un posto da far vedere per il quale la sola visione possa essere qualcosa di emozionante. Sarà banale, ma se faccio un live dal mio bagno o da Piazza Duomo a Milano penso che il secondo sia più “stimolante” del primo. Ricordalo. Devi saperti ripresentare più volte, rispiegando a chi si mette in contatto a metà trasmissione il motivo di quel live, ma devi anche saper intrattenere rapporti con chi ti guarda e commenta. Magari accorpando le risposte in un momento di interazione poi continuando il tuo live. Certamente, però, non commentare quello che ti viene scritto è negativo, molto. Bisogna, però, saperlo fare senza interrompersi mille volte.

    Tempo, suspense e contenuto interessante.

    Un’ altra cosa da fare? Essere prudente nelle informazioni, nelle dichiarazioni, perfino nei movimenti. Devi anche saper creare suspense per tenere il più possibile ingaggiati i tuoi spettatori. Sinceramente il web è pieno di dirette senza nessun motivo con gente che sta in una specie di acquario e saluta chi si collega… Ecco, quello magari lasciamolo agli Youtuber di gaming…

    Il tempo è il tuo alleato principale e se tiri 10 minuti, con cambi di passo, magari con testi, con video registrati inseriti nel live o con altre truccaglie per cambiare il ritmo della tua trasmissione la strada del successo si aprirà più facilmente. Comunque la cosa più importante resta il rapporto tra luogo e contenuto che sia di qualità: il resto è contorno.

    Eccoti la bibbia del genere, se hai bisogno di un punto di riferimento.

    Content is king, quindi, un’altra volta. Se, tuttavia, hai bisogno di una vera e propria bibbia che ti introduca ai segreti del mondo del live, ti consiglio questo libro di Peter Stewart, uscito nel novembre del 2017. Si intitola “The Live-Streaming Handbook: How to create live video for social media on your phone and desktop” ed è un vero capolavoro per chi voglia conoscere tutto su questo mondo così particolare e importante per il presente e il futuro del nostro lavoro. 

     

  • Flash storage per telefonino: la salvezza del mojo

    Flash storage per telefonino: la salvezza del mojo

    Flash storage: prima la definizione.

    Spetta, non te ne andare. Prima ti dico cosa è il flash storage e a cosa serve. Poi parliamo della sua grande importanza per il lavoro in mobilità, per il lavoro da mobile journalist. Insomma, dai parliamo papale, papale. Mi sto riferendo alla memoria flash, quella delle chiavette, la quale è stata di recente orientata anche al mercato degli smartphone con evidenti effetti positivi sul lavoro e sulla capacità di questi ultimi di prendere immagini. Faccio una cosa banale per chiarire il tipo di memoria di cui parlo. “La memoria flash, anche chiamata flash memory, è una tipologia di memoria a stato solido, di tipo non volatile, che per le sue prestazioni può anche essere usata come memoria a lettura-scrittura“: faccio una cosa bruttina, vale a dire copiare la definizione di Wikipedia, ma spero ti aiuti a capire.

    Uno dei limiti fisici del telefono.

    La memoria limitata dei telefoni, anche se dai 256 giga in più potremmo mettere in discussione la definizione di memoria limitata, è uno dei limiti fisici del telefono nel suo lavoro da filming machine. Il flash storage viene in soccorso in modo egregio e aiuta quando ci manca lo spazio per continuare a contenere nel telefono la produzione di immagini.

    Va detto che, quando uno parte per fare una mojostory, deve partire con almeno tre giga di memoria (tra l’altro, anche quella che c’è dentro il telefono è flash storage) liberi nel telefono. Se non li ha consiglio di fermarsi a scaricare in una flash storage il girato, catalogandolo subito, per poi riprendere. Quali sono gli strumenti utili del flash storage?

    La chiavetta santa.

    Per me che produco in iOS e edito in Luma Fusion la chiavetta santa è questa. Si tratta della Sandisk Usb-Lightning che può operare direttamente in collegamento con l’iPhone tramite una app che si chiama Sandisk iXpand e che puoi trovare qui. Si tratta di un prodotto veloce ed efficiente, uno strumento che può aiutare anche una prima catalogazione delle immagini che risulta poi importante quando passi a una app di montaggio e devi lavorare a una mojo story. Non so se lo hai letto, ma ti parlo qui di una chiavetta da rifuggire come la peste: questa. Si tratta di una chiavetta wi-fi della Sandisk, decantata come utile da molti grandi del mobile journalism. Per me è una disgrazia e ora ti spiego perché.

    Le chiavette wi-fi sono un grande bluff.

    La trasmissione dati wi-fi è una trasmissione molto, molto più lenta della trasmissione fisica dei dati che avviene quando il vostro telefono è collegato all’unità di flash storage che deve recepirne le immagini. E’ una cosa molto banale, ma che va ribadita per non perdere il contatto con il fatto che la velocità è una delle caratteristiche importanti del mobile journalism. In generale la trasmissione per via aerea, dunque, ha protocolli di trasferimento dei dati peggiori del trasferimento fisico, specialmente in memorie flash che hanno la capacità di fare lettura e scrittura in un solo flusso. Per questo motivo chiavette come quella che ti ho fatto vedere nel link di sopra sonno perfino in grado di fare streaming in un iphone o in un iPad di film interi senza occupare la memoria della device.

    Nel mondo Android scelgo una strada diversa.

    Il mondo Android è quello che più si avvicina ai computer. Per questo motivo, visto anche il fatto che il file classico di uscita dei telefoni Android è il .mp4, preferisco suggerirti una chiavetta “lettore” che non ha memoria interna, ma può trasferire i file presenti nel tuo smartphone a una flash storage di tipo SD o, addirittura, microsd. E’ la soluzione migliore per passare i tuoi file, per esempio, da una camera DSRL al telefono o al tablet per montarli. Oppure per passare dal telefono al computer (e qui non continuo perché penso tu sappia, se mi segui, che io il computer non lo prevedo). Ce ne sono tante, non sai quante. Io ne ho una che ha una app di lettura solo in cinese e mi sono fatto dire dal negoziante sotto casa come si faceva a usarla.

    Ultimo suggerimento (ovvio ma non troppo).

    Per trasferire i file usate degli storage online che non comprimano la qualità del video, riducendola. Drive, Wetransfer, Dropbox, vattelapesca cosa. Soprattutto non fare la cazzata di trasferire contenuti per uso professionale con app di messaging come Whattsap, Messenger, Skype o Telegram. E’ indubbio che comprimano e riducano la bontà dell’immagine che fai.