Tag: mobile journalism

  • Mercato immobiliare: il mobile journalism sbarca tra le case

    Mercato immobiliare: il mobile journalism sbarca tra le case

    Mercato Immobiliare? Uno dei tanti campi ottimi per il mojo.

    Se ci pensi è proprio così. Il mercato immobiliare è un settore del lavoro che racconta storie “decisive” più di tanti altri. Se una persona costruisce, vende o compra una casa, beh, la sua vita cambia. In questo mercato la figura degli agenti è una di quelle che più di può giovare del fatto di avere una buona immagine digitale e un linguaggio visuale professionale corretto. Pensaci un attimo: saper raccontare una villa, un appartamento, un immobile, in un video, può aumentare vertiginosamente le possibilità di venderlo e quindi di costruire valore aggiunto sullo stesso.

    C’è di più: per la necessità innata dell’uomo di raccontare una storia, chi sa raccontare la storia di un bell’appartamento, dei suoi plus e del suo stile, verrà subito ritenuto come l’interlocutore giusto se io quell’appartamento lo si vuole vendere. Per questo e tanti altri motivi il mobile videomaking applicato al mercato immobiliare è un’idea vincente.

    La Remax Loserimm, prima in Italia.

    Mi sembra strano raccontarti questa novità, mentre il mercato dell’editoria e i media italiani non si sono ancora accorti della dirompenza della mobile content creation nel rinnovamento della produzione di news. Però è sostanzialmente la verità. Ecco la notizia: c’è un’agenzia immobiliare di Rho, la Remax Loserimm, che mi ha aperto le porte per organizzare un corso di formazione per i suoi agenti e per professionisti affini con l’obiettivo di creare una piccola squadra di mojoer che, invece di raccontare notizie, racconterà il mercato immobiliare della zona. Una vera primizia in Italia, per quel poco che mi è dato di sapere.

    Obiettivo dichiarato: regalare ai suoi professionisti una formazione di base e un’impostazione corretta al fine di far loro avere un nuovo linguaggio visuale a disposizione con cui migliorare la loro professione. Sto parlando del parco clienti, dei mandati a vendere, dei filmati degli immobili in portafoglio, degli speech di presentazione o di racconto di un immobile di pregio.

    Agenti come brand: questa è la missione.

    Cercheremo insieme di far uscire allo scoperto le professionalità di ognuno e di metterle in evidenza con le immagini giuste, corrette, ferme. Conosceremo storia e strumenti, hardware e software, tecniche e trucchi per fare ottimi video con le device mobili. Il tutto puntando a trasformare in piccoli brand del mercato immobiliare territoriale tutti i professionisti che parteciperanno.

    L’appuntamento? E’ previsto per il 14 dicembre verso le 9 o giù di lì: caffé e poi giù per un viaggio dentro la mobile content creation messa al servizio del mercato immobiliare. Un binomio vincente. A proposito: se questo articolo ti ha fatto venire un’idea per la formazione nella tua azienda non hai che da contattarmi alla mail francesco@francescofacchini.it, ma per ora non hai che da segnarti qui e sperare che ci siano posti disponibili.

  • Giornalismo: con il mojo si moltiplicano i punti di vista

    Giornalismo: con il mojo si moltiplicano i punti di vista

    Giornalismo in carca di nuovo linguaggio.

    Io insegno mobile journalism, scrivo di mobile journalism, vivo di mobile journalism. Tutti i giorni che dio manda in terra metto le mani sulle potenzialità di questa nuova cultura della mobile content creation che cerco di incastonare nel mio modo di fare giornalismo. Parto da un dato di fatto: il giornalismo ripete in modo sistematico e, a questo punto della tecnologia, erroneo, schemi che ormai non fanno rima con i mezzi di comunicazione di oggi.  Vedo a ogni angolo delle mie ricerche di notizie o di informazioni, cliché della tv ripetuti sui siti, linguaggi sei social sdoganati sui giornali, format tv fotocopiati sul web, format del web riadattati alla tv. Una corsa matta e disperatissima alla ricerca del pubblico che cambia, della popolazione giovane, dei disillusi dalla tv che oggi sono tutti su Netflix.

    Nessuno sembra farsi la domanda giusta.

    Già, per quanto riguarda il nuovo giornalismo nessuno sembra farsi la domanda giusta che penso possa suonare più o meno così: come si può cambiare? Ho consumato centinaia e centinaia di ore a cercare, leggere, pensare a un nuovo modo di fare giornalismo anche per me. Non credo che la strada sia facile, perché vengo da lontano, ho una cultura vecchia e “costumi” oculari consolidati. Non credo sia facile anche perché i nuovi strumenti che provo sono molto distanti da me, quindi tutti da imparare e da vivere. Se non sono distanti dal mio giornalismo, sono magari “doppioni” del mio linguaggio visivo.

    Il messaggio di Yusuf Omar colpisce ancora.

    Detto con sincerità, ci sono pochissimi punti di riferimento che stanno cambiando il paradigma del futuro del giornalismo. Anche stasera non mi sposto molto da quelli che ho indicato qualche tempo fa in questo articolo. Tuttavia devo ancora una volta fare menzione dell’amico Yusuf Omar e del suo progetto HastaghOurStories. Yusuf è il solo al mondo che sta ribaltando tutti i linguaggi possibili e facendo del giornalismo moltiplicato dai diversi punti di vista una grande missione sociale. E’ un uomo in grado di cambiare il mondo e di dare voce al mondo con un telefonino e qualche altro aggeggio tipo un drone.

    Giornalismo multipoint: unica strada possibile.

    La moltiplicazione delle voci e dei punti di vista è la sola maniera per rinnovare il linguaggio del giornalismo che si è consegnato ai soldi e al potere. Per farlo Yusuf usa tecniche di wearable journalism, di mobile journalism, di drone journalism e mixa, facendo campo e controcampo di ogni notizia, messaggio, voce. Nella sua missione più sociale, invece, usa il mobile per dare voce a chi non ha voce: l’ho visto coi miei occhi andare a cercare gli homeless di San Francisco. Insomma, il giornalismo deve tornare a informare le persone mettendo una camera (o uno smartphone o una snap cam o degli spectacles o quello che vuoi tu) per far vedere la realtà da ogni angolazione.

    Io sono ancora ai primi test.

    Seguendo un punto di riferimento come Yusuf ho deciso di procedere con tre campi nuovi rispetto al giornalismo classico. Il primo è quello del giornalismo immersivo, sul quale ho fatto già qualche mese fa i primi test, il secondo è quello del wereable journalism, il terzo è quello del drone journalism. Sto provando, sto testando, sto iniziando a imparare una grammatica che è sconosciuta anche ai massimi esperti, come quella dei video a 360 gradi. Anche il wereable journalism, per dirla papale papale, il giornalismo fatto con le camere che si mettono addosso, può avere un grande sviluppo, aldilà dei clichet soliti del giornalismo investigativo.

    Può essere fatto anche semplicemente per far capire diversi punti di vista. A me è capitato di provalo e di capirlo mettendo una camera portabile sul petto di mio figlio di 5 anni. Questo risultato è un test, ma pensa se dovessi pensarlo in chiave giornalistica per far comprendere tutti i passaggi del vivere civile o di una città nei quali essere basso come un bambino di 5 anni è faticoso. Scopriremmo insieme, io e te, che mettersi addosso una camera è far cambiare a tutti punto di vista. Ritornando al centro del giornalismo. Vuoi scommettere?

     

  • Il mobile journalism? Semplice e in continuo cambiamento

    Il mobile journalism? Semplice e in continuo cambiamento

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    Le indicazioni di una settimana di corsi di mobile journalism.

    La scorsa settimana ho affrontato per la prima volta l’esperienza di una docenza di livello universitario presso i Master della Iulm concernenti il mondo del “Beauty e del Wellness” e l’ambito professionale della “Food and Wine Communication“. Cosa è successo? Il finimondo naturalmente… in senso buono, un finimondo concluso con uno splendido minicorso base di mobile journalism nella community di Italianmojo, esattamente l’ultimo del 2017.

    Quello che ho visto negli occhi degli altri.

    Ti confesso: ero emozionato prima di cominciare questa esperienza, essendo completamente novizio della docenza. Niente, in pochi minuti mi sono sentito parte delle mie classi, gestendo didattica ed errori di “gioventù” (si, dai, almeno come professore sono giovane :-)) con estrema naturalezza. Ho attraversato la storia, la grammatica visuale, l’hardware, il software, il filming, l’editing, iMovie, Kinemaster, i trucchi e l’essenza di questa nuova materia con un obiettivo, sperando di raggiungerlo. Vuoi sapere qual era? Volevo che tutto sembrasse semplice. Volevo che le persone che avevo di fronte sentissero arrivare il “calore” di questa nuova cultura, la sua vicinanza e la sua immediata fruibilità, prima delle disquisizioni tecniche o di grammatica visuale. Volevo che il mobile journalism che stavo insegnando fosse semplice.

    Quello che ho visto negli occhi delle oltre 50 persone che ho incontrato nei tre giorni di insegnamento è che sono riuscito a trasmettere questo valore, quello della semplicità del mobile journalism. L’ho visto nelle giovani studentesse del mondo del beauty, nel mondo più variegato che si interessa della cucina e del vino, ma anche nel mondo dei professionisti del giornalismo che sono venuti a Italianmojo sabato. Giornalisti di esperienza o comunicatori di vaglia, studentesse del mondo della bellezza o cultori della comunicazione del mondo del vino: tutti hanno recepito la semplicità di questa materia.

    Correzioni del colore e gimbal? No, pure mojo.

    Il mobile journalism che ho cercato e cerco di diffondere è puro e tende solo a far esprimere al massimo le potenzialità dello smartphone all’atto della produzione dei contenuti editoriali che sono utili alla professionalità di chi lo interpreta. Non sono andato dentro i tecnicismi, non ho “violentato” il mobile facendolo diventare un nuovo tipo di videomaking, ma un filo più sfigato. Il mobile journalism è e resta un linguaggio unico, differente, con i suoi enormi punti di valore e i suoi limiti strutturali. Renderlo criptico con potenti soluzioni tecniche e con importanti hardware di correzione dei limiti che ha la macchina, mi sembra un esercizio di una assurdità enorme. Insomma, mojo tecnico? No, pure mojo. Io vado da quella parte…

    Il mobile journalism è una filosofia nuova e in continuo cambiamento

    E quando parli di nuova filosofia o di nuova cultura, quello che devi fare se la studi è capirne quello che di buono può essere per te. Se la insegni, invece, la devi “girare” a chi la riceve con le chiavi in mano per aprire una porta che apre un mondo semplice e utile, chiaro ed efficace. Il mobile journalism è una filosofia nuova e un nuovo linguaggio, il quale fa rima con il cambiamento della prospettiva. Il mobile journalism è questione di storie da raccontare con l’agilità e la potenza del telefono, il quale non crea immagini che “replicano” il linguaggio della telecamera, ma ne fa nascere di nuove. Il linguaggio video del mobile è più vicino, più smarcato, più agile, più profondo, più intimo e più artigianale, se vogliamo curato. Sono molto felice di essere riuscito a farlo capire ai miei studenti. Ultima nota: il mobile journalism cambia tutti i giorni e trova nuove forme e nuovi hardware. Giovedì, con il prossimo articolo, ti racconto una esperienza diretta, un altro test sul campo che, per ora, puoi trovare sulla mia fanpage di Facebook.  Il mobile journalism è anche questione di punti di visione della realtà.

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  • Granovetter, il maestro dei mobile journalist per creare lavoro

    Granovetter, il maestro dei mobile journalist per creare lavoro

    Creare lavoro: il mojoer deve conoscere bene le dinamiche.

    Sono al termine di una giornata memorabile. Ho vissuto oggi il primo giorno ufficiale della mia seconda vita, quella del “prof”. L’ho vissuto da docente-testimone di un master in Management e Comunicazione del Beauty e del Wellness presso la Iulm. Un’ emozione vera e un primo passo molto importante dentro la formazione di livello accademico per la mobile content creation italiana.

    Sono qui che scrivo con ben poca energia, ma voglio rispettare la mia scadenza di pubblicazione di giovedì, anche se per un pelo. Lo voglio fare regalandoti un contributo a mio avviso determinante per la creazione di una carriera che non arresti mai la sua crescita. Lo faccio oggi perché emozionato dal fatto che questo nuovo compito mi è stato girato da uno di quelli che il sociologo americano Mark Granovetter chiama un “legame debole”. Spero di ringraziarlo adeguatamente ripagandolo della fiducia che ha riposto in me e anche consegnandoti questo documento di valore eccezionale.

    Mi hanno fatto rialzare i legami deboli.

    In questo documento spettacolare, Mark Granovetter, ancora operativo come professore di sociologia a Stanford, racconta come, per creare lavoro, siano decisivi i legami più esterni della propria sfera di conoscenze sociali, non certo quelli più vicini. In questa rivoluzione completa della mia vita (e ancor più in questa serata) posso affermare che sono stati proprio i link con persone conosciute da poco quelli che mi hanno dato linfa, lavoro, conoscenze, valore.

    Il motivo? Semplice. Per creare lavoro bisogna scambiare valore senza paura di poter perdere posizioni, senza alcun timore di venire “fregati”. Se infatti, ci sono predatori che possono “razziare” dei link che ci siamo costruiti, è evidente nei fatti che il coltivare legami di valore e dare prima di ricevere, è un’operazione che porta frutti diversi e duraturi del “fotti fotti” tipicamente italiano. In questo anno a me è capitato decine di volte. Per creare lavoro, insomma, bisogna fare leva sulla forza dei legami deboli. Dando valore, prima di riceverlo.

    Il fondatore della sociologia economica.

    Mark Granovetter non è un sociologo qualunque. E’ forse il più importante sociologo vivente e padre della sociologia economica. E’ un punto di riferimento anche di Rudy Bandiera, grande divulgatore dei legami via reti sociali. Nel suo lavoro più importante La forza dei legami deboli, il nostro teorizza che, per citare Wikipedia, “i soggetti inseriti in legami deboli, fatti cioè di conoscenze amicali non troppo strette, hanno più possibilità di accesso ad informazioni e quindi di potenziali posizioni lavorative di proprio interesse, rispetto a coloro che investono socialmente soltanto nei legami forti, cioè i familiari, i parenti e gli amici intimi”. Ecco come si crea lavoro: coltivando e scambiando valore con i legami deboli, con le relazioni più esterne rispetto alla propria sfera.

    Vuoi il regalo? Eccoti servito: buona lettura. LA FORZA DEI LEGAMI DEBOLI.

     

  • Giornalismo digitale: le redazioni sono pericolosamente indietro

    Giornalismo digitale: le redazioni sono pericolosamente indietro

    Giornalismo digitale: una fotografia abbastanza impietosa.

    Per fortuna l’Italia non è la “pecora nera” del ritardo della digitalizzazione delle newsroom di tutto il mondo, ma in ogni caso non c’è da stare allegri. A fare “lo stato dell’arte” del giornalismo digitale mondiale ci ha pensato in questo periodo l’International Center for Journalist, un’istituzione americana che dal 1984 sviluppa la cultura della professione giornalistica connessa all’innovazione.

    ICFJ ha collaborato con altri enti di livello internazionale come Georgetown University o la Knight Foundation, ma anche con grandi firme del mondo tecnologico come Google, Survey Monkey, Storyful o Twitter, per cercare di comprendere l’avanzamento verso la digitalizzazione completa delle newsroom di tutto il mondo. Pericolosa la fotografia che è uscita dal lavoro accademico. Una fotografia che tutti dovrebbero leggere e che parla di una situazione di resistenza quasi strutturale al cambiamento.

    Una prima assoluta.

    L’International Center for Journalists, organizzazione con sede a Washington e con collaborazioni strutturate come la Knight Foundation, ha realizzato una “prima assoluta” promuovendo la ricerca “The State of Technology in Global Newsroom”. L’obiettivo è stato cercare di comprendere, grazie a un board di ricercatori di primo livello, a che punto sia la trasformazione digitale del lavoro tuo e mio. Già che sono ringrazio subito la bravissima collega australiana Corinne Podger per avermi dato lo spunto e la possibilità di trovare questo documento che ha messo a nudo le resistenze di una professione al futuro.

    Nelle 77 pagine della survey l’ICFJ tratteggia un mondo in cui, tanto per dirne alcune, nelle newsroom solo il 5% ha degli studi tecnici alle spalle, mentre il 2% viene assunto prendendolo dal mondo del digitale. Solo l’1% degli addetti nelle newsroom è un analytics editor, mentre è particolare anche la percentuale dei manager delle newsroom che sono per il 64% preparati sotto il profilo digitale, contro il solo 45% della forza lavoro dei giornalisti che dirigono. Insomma, di digital ne sanno più i capoccia di quelli che dovrebbero essere gli interpreti del giornalismo digitale.

    Parliamo di fake? Parliamone dai..

    Ecco la cosa davvero brutta o, perlomeno, quella che a me sembra la peggiore di tutte. Dalle indagini statistiche svolte per “The State of Technology in Global Newsroom” pare che solo l’11% usi dei tool di verifica delle notizie fra tutti i giornalisti sentiti per l’indagine. Assurdo, ma vero. Vogliamo parlare di fake news? Facciamolo dai, però prima raccontiamo questa percentuale..

    L’eredità di Tom e Liebe…

    Il documento è l’ultima frontiera per fotografare il cambiamento delle newsroom che sta avvenendo con lentezza e con un filo di malavoglia, se non addirittura di desiderio di non procedere verso il futuro. Una situazione assurda per una professione che viene giornalmente ridimensionata e ridicolizzata dalla velocità con la quale cambia il mondo che le gira intorno. E’ un documento di valore eccezionale, una ricerca che fa riflettere molto e, probabilmente, è il lavoro più coraggioso dell’istituzione nata nel 1984 in un ufficetto dal desiderio dei coniugi giornalisti Tom e Liebe Winship.

    Lui pluripremiato Pulitzer del Boston Globe, lei titolare della famosissima rubrica “ask Beth”, alla fine della loro carriera hanno deciso che la loro missione era condividere la cultura del giornalismo in tutto il mondo. In 33 anni hanno fatto i “disastri” entrando in contatto con 100 mila professionisti di questo settore in 180 diversi paesi. Ecco, comunque, lo strepitoso lavoro di cui ti ho parlato e che ti dovresti “bere” al volo. Buona lettura.

    The State of Technology in Global Newsroom.

  • Mojocon è morta, ma la community del mobile journalism è viva

    Mojocon è morta, ma la community del mobile journalism è viva

    Oggi pomeriggio la notizia e i commenti si susseguono ancora.

    Allora, ho alcune notizie fondamentali sulla community internazionale dei mobile journalist che in queste ore sta fibrillando e non poco. Quali sono? Vado con ordine: il grande capo di Mojocon, la Mobile Journalism World Conference, sto parlando di Glen Mulcahy, ha lasciato la tv di stato irlandese RTE. Il tutto dopo aver fatto nascere e crescere la community internazionale della mobile content creation nell’arco di tre edizioni di una manifestazione nella quale ha riunito il meglio al mondo di questa cultura. Nella community si sapeva, ma non c’era alcun accenno di futuro per la manifestazione. Si sapeva dell’addio di Glen a RTE, ma non del destino di Mojocon. Fino a oggi pomeriggio.

    Con un “Important Announcement” proprio Glen Mulcahy ha comunicato di aver ricevuto dall’azienda dalla quale è dimissionario, l’invito formale a chiudere la fanpage di Facebook di Mojocon e l’account Twitter di Mojocon. La notizia ha scatenato un putiferio di commenti che si stanno susseguendo anche in questi minuti, dato che la community dei mojo abbraccia fusi orari da Brisbane a New Dehli.

    Il futuro è adesso.

    Alcune indiscrezioni erano filtrate nei giorni scorsi e facevano pensare a una continuità del binomio RTE e Mojocon, magari nelle mani del geniale Philipp Bromwell. La mannaia sugli account, però, ha fatto comprendere che il broadcaster di Dublino ha considerato, di fatto, l’attività di Mojocon una fringe activity, decidendone la chiusura ufficiale. Il tutto considerando anche il piano di crisi da 250 licenziamenti che deve fronteggiare. La notizia è, tuttavia, anche simbolica rispetto al momento della community del mobile journalism. Il mojo non è ancora considerato centrale per il futuro delle tv e dei broadcaster che continuano (sbagliando) a considerare i modelli produttivi classici come gli unici possibili per la tv di oggi. Presto si accorgeranno dell’errore.

    Un account twitter conta

    Questa richiesta di RTE a Mulcahy, di zittire le tracce ufficiali di Mojocom, ha accellerato, tuttavia, i propositi dello stesso Mulcahy che, per storia personale e per l’impresa di aver realizzato Mojocon, è considerato il capo della community mondiale. Il giornalista di Waterford, stante il veloce avanzare degli eventi, ha rivelato a tutti alcune delle caratteristiche di un nuovo progetto di evento per la comunità Mojo. Innanzitutto ha aperto questo account Twitter che, già dalla bio, sembra dire molto: “More than just a conference, Mojofest is the next evolution in Mojo, a celebration of the creative community that harness smartphones for digital storytelling.”.

    Si parlerà anche di Cinema…

    L’idea è chiara ed è quella di creare un evento nel quale l’idea di Festival e l’idea di Creatività siano centrali rispetto al solo mondo del giornalismo. Il tutto per aprire, appunto, a un pubblico molto più vasto rispetto a quello dei media, le vie di una cultura professionale che può cambiare molte vite e molte differenti carriere. Molto indicativo, in questo senso, un commento fatto da Glen Mulcahy a Michael Koerbel che è uno dei primi film maker con smartphone al mondo. Era incentrato sul fatto di inserire anche il mondo della creatività cinematografica nel percorso di realizzazione di questo nuovo soggetto che unirà la community mojo. La notizia della morte di Mojocon, quindi, ha avuto l’effetto di una bomba, ma ha anche liberato l’energia di una community che ha compreso che RTE non farà ombra a una nuova creatura “targata” Glen Mulcahy. Un bene, non ci sarà, quindi, l’imbarazzo di scegliere fra una Mojocon targata RTE, ma senza Mulcahy e un nuovo soggetto di Glen.

    La squadra? A naso centra la Thomson, ma non solo…

    Credo anche che Glen Mulcahy stia già riunendo attorno a se la squadra che sarà il motore di MojoFest, questo il nome del nuovo soggetto. Mi avventuro anche in qualche nome della community come Mark Egan, Nick Garnett, Wytse Wellinga, Yusuf Omar e la sua signora Sumaiya, Douglas Show, Chris Birkett. Perché lo dico? Perché questi sono anche buona parte dei nomi del progetto di e-learning di Thomson di cui ho parlato nell’ultimo pezzetto pubblicato.

    Alla fine un documento importante.

    Prima di lasciarti andare a dormire ti giro un documento importante che la collega Corinne Podger aveva realizzato dopo Mojocon 2017. E’ un documento online con gli attacchi a tutti i panel si Mojocon 2017, il cui canale Youtube resterà attivo. Vale la pena tenerlo, perché è stato un momento storico per la mobile content creation.  La community, quindi, è in fibrillazione ma è più viva che mai. Il tutto anche se le pressioni del mondo della produzione broadcast sono comunque molto forti e impediscono la crescita di un movimento che, prima o poi, sfonderà. In quel momento sarai lì, con me, a goderti lo spettacolo.