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  • Adornato: “Giornalisti e mojo, si può vivere senza editori”

    Adornato: “Giornalisti e mojo, si può vivere senza editori”

    Giornalisti e mojo: c’è una via per esistere anche senza editori.

    Ho avuto la fortuna di incontrare di persona l’amico ed eminente professore di Ithaca College Anthony Adornato. Il docente e scrittore (qui puoi trovare la sua straordinaria opera di cui ho già fatto una review) sta sviluppando una didattica di insegnamento della disciplina del giornalismo del tutto innovativa, prendendo come concetto principale l’idea di insegnare ai nuovi giornalisti a produrre contenuti e prodotti editoriali per il mondo delle news con i mezzi del mobile al fine di destinare il proprio lavoro a tutti i tipi di piattaforme. Il cuore dell’intervista? C’è un modo per essere giornalisti senza passare per forza dagli editori.

    Lo smartphone resta al centro.

    Nella lunga chat che puoi trovare qui sotto, Adornato ha affrontato alcuni temi centrali del nuovo modo di lavorare che devono avere i giornalisti di oggi. “Insegniamo ai nostri ragazzi come gestire una storia – ha raccontato Adornato – per tutte le piattaforme di destinazione possibili, perché ora è questo il nostro lavoro. I giornalisti devono saper dialogare con i lettori e creare fiducia e credibilità. Prima eravamo noi a stabilire quale è la news del giorno, ora il giornalismo è una conversazione e il giovane giornalista deve essere consapevole di questo. Naturalmente facciamo questo percorso didattico facendo rimanere al centro del lavoro dei giornalisti lo smartphone, strumento centrale del lavoro di giornalista ora”.

    Creare una comunità per vivere senza un editore.

    “Saper creare una comunità è anche saper creare fiducia. Questo è il primo passaggio – ha sottolineato Adornato – per essere riconosciuti quali giornalisti come fonte di informazione autorevole e diretta. Il tutto se si è capaci di creare una community che ci segue attorno a un determinato argomento. Noi imponiamo questo passaggio ai nostri studenti, vale a dire che creino la propria nicchia per essere seguiti e riconosciuti, per diventare un brand del campo specifico nel quale si devono specializzare. Questo serve per pubblicare senza aver bisogno di un editore, ma anche per essere adocchiati dagli editori che vogliono ‘prendere’ un determinato giornalista proprio per la community che ha e che lo segue”. Il resto? Goditi la chiacchierata.

  • Faceblock: la grande fuga da Facebook è cominciata. Ma i mojoer?

    Faceblock: la grande fuga da Facebook è cominciata. Ma i mojoer?

    [fusion_builder_container hundred_percent=”no” equal_height_columns=”no” menu_anchor=”” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” class=”” id=”” background_color=”” background_image=”” background_position=”center center” background_repeat=”no-repeat” fade=”no” background_parallax=”none” parallax_speed=”0.3″ video_mp4=”” video_webm=”” video_ogv=”” video_url=”” video_aspect_ratio=”16:9″ video_loop=”yes” video_mute=”yes” overlay_color=”” video_preview_image=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” padding_top=”” padding_bottom=”” padding_left=”” padding_right=””][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ layout=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” border_position=”all” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding_top=”” padding_right=”” padding_bottom=”” padding_left=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”small-visibility,medium-visibility,large-visibility” center_content=”no” last=”no” min_height=”” hover_type=”none” link=””][fusion_text]

    Faceblock: il primo sciopero anti Zuck va in scena.

    Quello che irrita la rete, più degli scandali come quello di Cambridge Analytica o la porcata che ho descritto io in questo link, è la faccia da “bue contrito” di Mark Zuckerberg. Sto scrivendo questo pezzo mentre il bimbo d’oro dei social mondiali è in audizione al Senato Americano. Ha una faccia da cane bastonato e si scusa ogni due per tre, anche se ammette candidamente che sono gli utenti di Facebook a consegnare incondizionatamente al mostruoso social i loro dati. Quella è la cosa che fa incazzare i suoi 2 billions di utenti: si scusa…

    Non è possibile che se la cavi con delle scuse, può fare meglio. Per questo motivo, con questo semplice assunto è nato e va in scena oggi #Faceblock, movimento spontaneo che sta cercando di convincere la rete, oggi 11 aprile, proprio nella notte in cui Zuck è impallinato dal Governo americano, a non usare per 24 ore il social network di Menlo Park. Insomma, Faccialibro sta attraversando la peggiore crisi della propria storia e non riesce a venire fuori dall’angolo in cui è finito dopo lo scandalo dei profili falsi e della vendita dei dati.

    La question più importante.

    “La domanda sui dati è quella centrale – dice il prode Zuckerberg proprio in questo istante -. Quando le persone vanno su Facebook per connettersi con altri devono rendersi conto che, una volta entrate, noi riceviamo i contenuti e li utilizziamo per rendere loro un servizio. Comunque loro controllano quando postano e quando cancellano i contenuti (mi viene da dire, ma durante? Nda)”. Come dire, i dati ce li date voi. E come dire: voi controllate quanto caricate e quanto togliete una cosa, ma nel frattempo la gestiamo noi… Beh inutile negarlo.

    La tecnica diversiva.

    Zuck è sotto il fuoco di fila dei senatori della Commissione Energia e Commercio del Senato Usa da qualche ora e sta rispondendo a domande con domande o con spostamenti dell’asse dell’argomento. Viene una voglia matta di aderire a Faceblock quando viene pressato sulla gestione dei dati e della corretta richiesta di permesso esercitata da parte di Facebook e sostanzialmente non risponde, rilanciando con un “non vedo l’ora di metterle a disposizione, Senator, il mio team per lavorare su quello che lei sta dicendo”. Viene da dire, quindi, che non è chiaro e protettivo nei confronti dell’utente Facebook quello che può fare affinché non siano venduti in giro i suoi dati o non sia creato condizionamento nel contesto dove vive da milioni di finti profili che esercitano pressioni e condizionamenti ambientali per motivi politici.

    Faceblock avrà un discreto successo.

    Due considerazioni. Faceblock avrà un discreto successo perché l’umanità sta cominciando a comprendere le distorsioni dello straordinario social network inventato dal giovanotto Zuck. Ha compreso che ci vuole molta attenzione a non farsi chiudere dentro una realtà che non faccia altro che rimandarci la fotografia di quello che i nostri occhi vogliono vedere, non di quello che vedono. Faceblock avrà un discreto successo anche perché la gente ha capito, proprio con Cambridge Analytica, che può essere volgarmente venduta come un prodotto. Fin nei propri snodi più personali. Spero, va detto, che la gente faccia il suo Faceblock anche per uscirne depurata.

    Spero, infine, che i mobile Journalist facciano #Faceblock per capire, alla fine del rehab, come è il caso di rientrarci e perché è il caso di farlo. Quello che ti consiglio è di valutare, magari prendendoti il tempo per respirare proprio non postando per un giorno, come devi tornare a essere presente sul social network di Menlo Park. Mi piace molto l’idea di fermarsi per far capire a Zuck e alla sua banda che l’hanno fatta veramente grossa e che la devono smettere di trattare 2 miliardi di persone comune fossero dentro un grande acquario nel quale possono essere pescate e messe in padella come merce da mangiare dal primo che butti la canna.

    I mojoer devono andare… e tornare: con qualche social in più.

    Io Facebook lo userò anche domani per monitorare quello che sta succedendo e anche per osservare, da ricercatore e da studioso dei fenomeni social, come si comportano gli utenti italiani con Faceblock e quanto comprendono di quello che sta capitando. Sono convinto, comunque, che la grande fuga da Facebook è già iniziata, ma per i mojoer non sia proprio il caso di muoversi da un posto dove ci sono 2 miliardi di persone vogliose di sapere come gira il mondo. E’ compito dei giornalisti spiegarlo, con i mezzi e con i modi delle comunità social.

    Infine con l’aspettativa legittima di far smettere questo monopolio social del caro Zuck. Come? Ok te lo dico: fossi un semplice mojoer e non uno studioso, oggi impiegherei tutto il giorno e per cominciare a fare altri progetti editoriali su altri social. Per fare in modo che la mia vita digitale, il mio brand personale e la mia storia professionale non dipenda più da un solo medium. Altrimenti sei fritto. Messaggio finale, quindi: Faceblock è da fare, ma per tornare il giorno dopo i su Facebook a vedere cosa è successo.

    Qualcosa, sicuramente, succederà.

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  • Giornalisti: guida (semiseria) all’uso dei social network

    Giornalisti: guida (semiseria) all’uso dei social network

    Giornalisti: qualche volta mi chiedo se “ci sono” o “ci fanno”.

    Sto facendo ricerche sui giornalisti e sul loro uso dei social. Ogni mattina passo almeno un’ora, mentre sorseggio il caffé, a informarmi dagli account delle fonti di informazione più importanti per il mio lavoro e per la mia vita. Da tempo non leggo e non compro più i giornali, da tempo penso che l’agenzia di informazione più evoluta, veloce e accurata, sia Twitter. Da tempo non vedo i notiziari televisivi perché nel mio sistema informativo arrivano dopo di me, nel senso che le cose che sento sono già nella categoria delle cose che ho letto o saputo nei minuti o nelle ore precedenti.

    Sempre di più dirigo le mie ricerche di notizie verso i colleghi autorevoli nei campi più interessanti. Cerco, leggo, cerco, twitto, posto, ritwitto. E’ sempre una delle ore migliori della giornata. Però alla fine di quell’ora mi viene sempre l’amaro in bocca, perché penso all’uso idiota che i giornalisti italiani fanno dei social. Distruggendo, molto spesso, due cose: gli zebedei di chi li segue e la loro immagine personale.

    Forse bisogna spiegare la cosa…

    Premetto che anche io ho avuto un percorso di crescita sui social. Premetto anche che, nella categoria dei giornalisti non sono quello che ha gli account perfetti. A volte, la funzione dei ricordi su Facebook, mi è molto utile a eliminare qualche stronzata scritta in passato.

    Tuttavia cerco di fare personal branding e ho deciso da qualche mese, più esattamente da settembre, di fare proprio un mio piano editoriale anche sui social per chiarire i miei “campi” e il mio brand. Sui social media ho letto molto, ma ho deciso di adottare un mio stile, ma quello che mi preoccupa molto è che i giornalisti italiani non abbiano generalmente alba di come si usano e di come si imposta una strategia chiara per la propria immagine digitale.

    Per questo motivo mi è saltata la mosca al naso e ho deciso di fare una guida semiseria all’uso dei social per i giornalisti, guida alla quale poi darò conclusione dicendoti, se ti va di seguirmi, quali siano le impostazioni che ho fato ai miei account con relativi indirizzi.

    Facebook, il mare magnum dell’opinione.

    Non so se è la mia timeline, ma vedo con chiarezza che i colleghi sproloquiano opinioni sul tema del giorno a profusione, dando a ogni giro l’impressione di perdere tempo invece che guadagnarlo sui social. Facebook per un giornalista è uno strumento per diffondere i propri scritti, per valorizzare il proprio lavoro, per cercare notizie, per creare (magari con una fanpage) di fare una community, per incontrare gli intervistabili, per creare link lavorativi.

    Non è un posto dove parteggiare, sparare la minchiata qualunque sul tema del giorno, dire male o bene di Renzi e Berlusconi, soffiare sul fuoco del populismo, schierarsi, vantarsi, scoprirsi, denudarsi, mettere foto dei bambini.  Se vuoi mettere qualcosa di personale, fallo, ma ricordati: privacy un cazzo, è tutto pubblico. La cosa che dovresti fare di più è, tuttavia, qualcosa che sia utile agli altri. Dovresti condividere il tuo valore e la tua professionalità.

    Twitter, l’agenzia giornalistica mondiale.

    Te l’ho detto, è la più grande risorsa possibile per il tuo cazzo di lavoro. Per questo motivo, ora che siamo passati quasi tutti a 280 caratteri, non perdere tempo a sparare battutine. Twitta cose di lavoro, cose del tuo campo, segui gli hashtag che sono buoni per te. Ti dò un consiglio: se vuoi aumentare il tuo giro, twitta in inglese. E’ molto più importante, infatti, conservare un’interazione con le fonti internazionali principali del tuo lavoro e del tuo campo piuttosto che farti comprendere dai pochi italiani che ci sono. Twitter è quel social network nel quale, se vuoi diventare un giornalista-fonte, puoi lavorare meglio per farti una community interessata del tuo argomento. Chi ti dà il suo follow, infatti, resterà volentieri se sarai abile a raccontargli le notizie di cui ha bisogno e che lo hanno portato a darti il tuo gradimento.

    Instagram e Snapchat: forse non è proprio cosa da giornalisti, ma…

    Tutti i testi di quelli fighi sanno che, per farsi un brand giornalistico, bisogna postare principalmente cose che riguardano la professione e il campo di specializzazione. Tuttavia un 20% di cose personali potrebbero andare bene, anche per far capire a chi ti segue che non sei una specie di cyborg…. In questo senso, concentrare il “personale” su Instagram potrebbe darti una immagine bella e “vicina” alle persone, senza “offendere” l’uso che fai degli altri social.

    Quindi per i giornalisti dico Instagram sì, ma spostato sull’ambito personale. La stessa cosa anche per Snapchat che, tuttavia, si unisce a Instagram in una caratteristica molto importante per i prodotti e per i racconti giornalistici. Quale? Si possono fare storie che contengano un valore giornalistico e che siano editate, tuttavia, in verticale e in modi che raggiungono più velocemente un target giovane.

    Il mio piano editoriale? Eccolo.

    Non sono un guru dei social media e, magari, questo piano editoriale avrà cambiamenti. Quello che è certo è che è un piano che orienta gli strumenti social a farmi riconoscere per due anime: io sono Italianmojo e Sharingdaddy. Nel mio profilo Facebook personale troverai il mio lavoro sul blog e un po’ di spruzzate personali. Sulle fanpage di Facebook la mia immagine professionale, su twitter le ultime notizie sulla community mojo (in inglese), su Instagram e Snapchat solo cose personali. Se vuoi sapere come sto, lo troverai tra una story e uno snap, se vuoi leggere il mio blog lo troverai sul mio “Faccialibro” professionale, se ti interessano le ultime mojonews vai su twitter, se vuoi contattarmi per lavoro passa dalle mie pagine @FrancescoFacchiniMojo e @Sharingdaddy.

  • Social media: il giornalismo è una conversazione, te ne sei accorto?

    Social media: il giornalismo è una conversazione, te ne sei accorto?

    Il giornalismo ai tempi dei social media.

    Allora, se sei uno studente di giornalismo o un giovane giornalista devi dirmi una cosa: ti hanno mai detto che il giornalismo è una conversazione? Se la risposta è no, lo faccio io, ma ti dico che dovresti essere notevolmente incazzato con chi non ti ha insegnato (e doveva) che il giornalismo ai tempi dei social media è una conversazione. Effettivamente mi sono dovuto documentare anche io, riguardo a questa nuova caratteristica del giornalismo: ho dovuto studiare parecchio. Già, perché avendo 46 anni sono nato, come giornalista, in un’epoca nella quale il mio mestiere non era ancora così. Oggi lo è e ringrazio il cielo di averlo capito, studiato, verificato, testato e sviluppato. C’è un piccolo problema, però: in Italia nessuno (o quasi) lo insegna e nessuno (o quasi) usa correttamente questa caratteristica del giornalismo ai tempi dei social media.

    Prima lo strumento, poi mi incazzo.

    Prima di incazzarmi col mondo rotondo, ti dico subito lo strumento indispensabile per capire a fondo questo nuovo mondo del giornalismo e i suoi strumenti. Si tratta di un libro che ho trovato in rete e che sta cambiando radicalmente il mio modo di fare la professione. Nella mia esperienza non ho trovato fonti di conoscenza professionale che mi abbiano fatto comprendere bene questo meccanismo fino al momento in cui ho incrociato “Mobile and Social Media Journalism, a practical guide” del professor Anthony Adornato. Si tratta di un italo-americano che ha fatto una splendida carriera e ora insegna Mobile e Social Media Journalism al college di Ithaca.

    Ha realizzato un manuale di straordinaria importanza partendo dal suo corso e formattando le caratteristiche del nuovo giornalismo. Io sto studiando questo testo con una voracità tale da farmi diminuire le ore di sonno la notte e ci trovo tutto il paradigma della nuova interpretazione che si deve dare al mestiere del cronista. Social media e giornalismo sono un binomio inscindibile e devono essere tenuti insieme e utilizzati per un migliore servizio all’audience, non per sparare opinioni o sentenze (o peggio fare clickbait).

    Il concetto principale di Adornato.

    Ecco il concetto principale che Adornato mette in chiaro in una delle pagine iniziali del suo testo universitario e che rappresenta, molto probabilmente, il cuore del suo lavoro:

    Il giornalismo ha subito un cambiamento da conversazione a una direzione (il giornalista produceva la notizia, la pubblicava, il lettore la leggeva ndb) in una conversazione a due direzioni. Questo sta ridefinendo il ruolo dei giornalisti e il modo in cui devono interagire con il loro pubblico. Pensa al giornalismo, quindi, come a una conversazione a due vie, non come la creazione di qualcosa da leggere.

    Gli editori, ora come ora, non possono più ignorare i lettori attivi sui mobile e sui social media. Il giornalismo, visto come una conversazione, è visto come un’azione condivisa tra giornalisti e audience. Il giornalismo visto come una conversazione incoraggia l’interazione tra giornalista e audience. Invita il giornalista a usare un tono informale, ad ascoltare, ad aprirsi al feedback del lettore stesso. Le device mobili e i social media, quindi, permettono al giornalista di rafforzare la sua connessione con il pubblico, con il preciso obiettivo di servirlo meglio.

    Sono un filo sconvolto (e qui mi incazzo)

    Un concetto semplice, lineare, quanto sconvolgente almeno nella mia testa. Sconvolgente perché ho visto quanto devo ancora fare io in questo percorso e quanto non fanno i giornalisti italiani. Spero che il motivo sia che nessuno glielo ha fatto capire, che nessuno glielo ha insegnato. Sono semiconvinto, tuttavia, che non sia proprio così. Già, perché alcuni giornalisti usano molto bene i social, ma per un sacco di cose tranne fare giornalismo, migliorare il loro giornalismo, interagire col pubblico per servirlo meglio. Ci sono, invece, una pletora di colleghi che coniugano le parole social media e giornalismo con il gioco della faziosità, del parteggiamento, dell’opinione, della seduzione, dello schieramento o, quando sono più normali, del sano spaccio di click al loro lavoro. Bene, fatta salva quest’ultima naturale (e forse utile) indicazione, non abbiamo proprio capito un cazzo dell’uso dei social media per fare giornalismo in Italia.

    I social media non sono un optional, sono un dovere.

    Concludo dicendo che i social media per il giornalista moderno, sono uno strumento di base e fanno assolutamente rima col mobile journalism. Sono necessari per la creazione di una community, per il rapporto con il pubblico, per il reperimento di notizie, per porre delle domande o dare delle risposte. Devono, tuttavia, essere collegati all’esercizio della propria professione, non al cazzeggio e allo sparo della propria opinione. Mi sono sforzato di pensare a un giornalista italiano che utilizzi i social media come strumento integrato per il suo lavoro, sfruttando a pieno le due vie di questa conversazione, chiedendo e rispondendo, condividendo cultura e notizie, interagendo con chi lo legge per servirlo meglio. Dimmi chi lo fa, ti prego, dimmi che mi sto sbagliando, dimmi che te lo hanno insegnato. Quanto spero di sbagliarmi e quanto ho paura di non sbagliarmi.

  • Personal branding, netbranding e giornalismo: facciamo chiarezza

    Personal branding, netbranding e giornalismo: facciamo chiarezza

    STO STUDIANDO, COME TE. In questo blog parlo di due cose: #sharingjournalism e #sharingdaddy. Sono i miei due progetti, le cose che studio tutti i giorni. In un post recente, questo, ho parlato di netbranding come di uno strumento necessario per i giornalisti. Studiando sul web mi sono accorto che netbranding e personal branding sono pane quotidiano nei media stranieri, mentre da noi non se ne parla. Siccome in questo blog voglio condividere il mio know how sul giornalismo e suoi suoi modi, penso sia il caso di fare chiarezza.

    PERSONALITA’ ONLINE. I giornalisti possono diventare personalità online, per la loro competenza nei campi specifici del loro lavoro o per la loro qualità. Nel processo di disintermediazione dei passaggi tra notizia e lettore, possono anche diventare un punto di riferimento diretto, per questi ultimi, con le notizie stesse, con i reportage e i movimenti della società che interessano chi legge, chi cerca sapere. Quest’ultimo è un passaggio che risulta molto utile al cronista stesso per potersi creare un profilo professionale specifico che risulti appealing per chi compra i suoi contenuti e un pubblico diretto che può rappresentare un seguito tangibile e misurabile che aumenta il “fascino” di quanto dal professionista stesso viene prodotto. Per dirla alla casalinga di Voghera: se un giornalista ha una ottima personalità online, ha molti follower, chi acquista il suo lavoro sarà più invogliato a farlo perché sa che ha già un pubblico “incorporato”. Per questo motivo il personal branding è un aspetto assolutamente necessario per la nuova professione giornalistica.

    ejoAGLI EDITORI ITALIANI PIACE POCO. Gli editori del nostro paese in particolare, ma anche al resto degli editori, piace poco. Questo straordinario articolo dell’European Journalistic Observatory lo conferma. Il personal branding giornalistico è un fenomeno in verticale ascesa, ma non viene “aiutato” da chi edita, anzi il contrario. Spesso i giornalisti incorrono in problematiche professionali a causa di semplici post di social media che, magari, si discostano anche di poco dall’opinione imperante del medium per cui lavorano. Tuttavia vi è un movimento, iniziato negli Usa, per cui i giornalisti con ottimo seguito social, si distaccano dalle redazioni di grandi giornali per creare progetti editoriali basati sulla loro personalità online. E’ il caso di Ezra Klein che lasciò il WashPost per lavorare a una sua iniziativa già nel 2014. E’ un business rischioso, come suggeriva Michaell Wolff in questo articolo nel 2014 esaminando con grande attenzione i numeri di questo fenomeno. Però rivela una tendenza che ha avuto casi di successo come quello di Arianna Huffington e che ha insegnato una cosa importante: il personal branding è necessario per i giornalisti. Agli editori italiani non piace perché sviluppano una sorta di possesso del giornalista che deve sottostare alle regole e ai dettami social della testata. Chi fra i giornalisti italiani ha un grande seguito internet ce l’ha per merito preponderante della testata stessa, non per la competenza diretta che ha o per la personalità seria e coerente che mostra. E’ una delle ramificazioni del rapporto distorto giornalisti-editori italiani che non tiene conto del fatto che, acquistare l’individualità professionale di un giornalista seguito, aumenterebbe il seguito della testata, se solo non si riducesse la stessa a una velina del giornale o della tv o del sito per cui lavora.

    IL PERCORSO GIUSTO. Insomma, se il personal branding del cronista fosse valorizzato per quello che è, il giornalista potrebbe portare la sua piccola o grande fetta di pubblico dentro il giornale che acquista i suoi contenuti o che lo assume. Se il giornalista fosse, invece, bloccato nella direzione contraria, cioè quella di diventare soltanto veicolo dei contenuti che produce per una testata, il risultato sarebbe la perdita di audience del giornalista stesso e il mancato guadagno di lettori o spettatori “importati” per la testata. Questo percorso, quello della costruzione di una personalità giornalistica individuale, è un passo in avanti importantissimo per la carriera del giornalista e va difeso. Per capire meglio la situazione sono esplicativi questo post e questa ricerca.

  • Perché il netbranding può cambiare la vita dei giornalisti

    Perché il netbranding può cambiare la vita dei giornalisti

    NETBRANDING, QUESTO SCONOSCIUTO. Sto studiando da qualche tempo le tendenze delle carriere dei giornalisti, freelance e non: non passa giorno che non scopra cose fondamentali su quello che la categoria (compreso me) sta sbagliando. Un esempio? I giornalisti italiani, siano freelance o contrattualizzati, non conoscono il netbranding: un’assurdità, ti spiego il perché.

    LA DISINTERMEDIAZIONE. Parto da lontano. Parto dalla definizione della parola disintermediazione. E’ questa: “La disintermediazione è il fenomeno di riduzione dei flussi intermediati. Composto dal prefisso latino e greco “dis” che indica tradizionalmente ciò che viene separato, la parola indica ogni processo di rimozione della figura dell’, ossia colui che ha la funzione di intercedere tra due o più attori sociali per facilitare il raggiungimento di un accordo”. Ok, senti, è la definizione di Wikipedia e non è il massimo, ma da verifiche risulta abbastanza fedele. Perché parto da lì? Il motivo è semplice: la tecnologia ha permesso ai giornalisti di diventare produttori indipendenti di contenuti togliendo tra loro e il lettore i mediatori. Di chi sto parlando? Degli editori, spurii o puri, che comprano le notizie e le pubblicano. Questo grazie alle varie piattaforme sociali di pubblicazione diretta (che peraltro sono delle mostruose macchine da soldi esse stesse). Però mai come in questo momento, se un giornalista, ripeto, freelance o no, vuole costruirsi un pubblico con quello che produce, lo può fare in modo efficace.

    I SOCIAL MEDIA MANAGER: SI, MA POI? Nella giungla di chi lavora sui social ci sono molti tipi di figure, tutte importanti e valide. In questo post, tuttavia, voglio chiedermi quale sia, in quel mondo, il ruolo del giornalista. Analizzo il paradigma italiano medio per porre poi un quesito. I giornalisti presenti sui social sono principalmente di 3 tipi: in massima parte ci sono degli smanettoni senza piano editoriale definito, in misura minore ci sono delle figure di riferimento che acquisiscono notorietà e quindi autorevolezza (non qualitativa) grazie alle testate per cui lavorano. In misura ancora minore, ci sono giornalisti che hanno un pubblico selezionato perché lavorano coerentemente sul piano editoriale di quello che spacciano coi social.

    UN PUBBLICO REALE DI UNA PERSONA REALE. Io, per esempio, sono ancora un neofita del campo, ma sto lavorando per dare qualità a quello che pubblico sui miei profili sociali, di modo che, chi desidera seguirmi come stai facendo tu, sappia che sui miei canali può trovare determinati argomenti, ma non altri. Per questo motivo, valorizzando il ruolo di mediatore sociale del giornalista, penso che i cronisti debbano arrivare oltre il social media management e costruirsi un pubblico (piccolo o grande) che sappia esattamente chi sono, che carriera hanno, in cosa sono esperti e in cosa non lo sono. Quindi nel mondo social posso provare a buttare lì che ci siano i social media manager e, dopo, i giornalisti, i quali devono creare un’autorevolezza digitale sulla base di quello che sono veramente, indipendentemente dalle loro opinioni (spesso buttate a caso) sul terremoto di Amatrice o sul FertilityDay.

    net-brandingC’E’ BISOGNO DI NETBRANDING. Questo campo lo sto scoprendo ora e vorrei lo scoprissi anche tu. Riccardo Scandellari e Rudy Bandiera sono i principali esponenti della corrente che va oltre il social media management e comincia a parlare di vera e propria vita digitale professionale e umana. Questi due libri “Le 42 leggi universali del Digital Carisma” e “Afferma la tua identità con il NET BRANDING” sono due capisaldi di quella profilazione della carriera digitale che potrebbe e dovrebbe essere un must del giornalista, sia freelance o sotto contratto. Il motivo è semplice: entrambi danno indicazioni operative, di studio, di comportamento e bibliografiche sulle modalità con cui si costruisce una personalità digitale. Tutti i cronisti dovrebbero averla, tutti dovrebbero coltivarla. Vanno entrambi oltre il social media management per fondere tutto, tramite i vari social e i vari canali di espressione del giornalista, nella una creazione di una coerente, positiva e autorevole personalità digitale. Essi sorpassano i canoni religiosi del social media management indicando come in una vita digitale coerente ci possa essere spazio per il racconto personale che aumenta la friendship nei confronti di chi segue, aumentandone anche la fiducia. Spesso, invece, i social media manager professano la creazione di una maschera digitale che non è rispondente alla persona reale.digital-carisma-rudy-bandiera-copertina-675x1024 Ecco, per questa coerenza e per questa cura della persona, questo tipo di orientamento è quello che sposo personalmente. Ci sono anche altri libri scritti da loro sull’argomento, ma te li segnalerò solo quando avrò finito di leggerli.

    INFINE ECCO I QUATTRO CAVALIERI. Per stare al passo con Netbranding, almeno in Italia, ti suggerisco di seguirli su Twitter. Ecco i loro quattro  account, da seguire con accuratezza per trarne il maggiore vantaggio possibile per la tua carriera di giornalista freelance. Alla fine metto anche un account di una collega che conosco e che mi è amica, la quale ha fatto del vero netbranding diventando una figura di riferimento per il suo mondo, mai corrotto con altri pareri o altre escursioni improvvisate. Si tratta della giornalista Mariella Caruso, splendida collega siciliana trapiantata a Milano che parla di spettacoli, di cucina, di turismo, di Sicilia e di alcune altre cose meravigliose. Se la segui sai chi è, sai di cosa è esperta, sai cosa fa e di cosa si occupa, di cosa, quindi, può trattare con grande sapienza e coerenza professionale, maturata in decenni di carriera.